“Beati sarete voi quando vi oltraggeranno e perseguiteranno, e falsamente diranno di voi ogni male per causa mia. Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”(Mt. 5,11). Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam. La Pasqua è una festività intimamente religiosa, la più importante dell’anno, che a 37 mesi dalla distruzione sismica della città di L’Aquila (6 aprile 2009, Mw=6.3, 309 morti, 1600 feriti, danni materiali e morali incalcolabili, macerie ancora da rimuovere, palazzi pericolanti da abbattere e ricostruire) assume un significato di forte impatto culturale e spirituale. In ogni Regione d’Italia si conservano antiche tradizioni che perpetuano il senso religioso pasquale. Pèsach (la radice psch, Pasqua, esprimerebbe l’idea del “saltellare” del gregge, ma come vedremo il “salto” e il “passare oltre”, Passover, alludono a un chiaro comportamento divino) è il giorno più difficile dell’anno ebraico e cristiano. Il momento in cui sorge il dovere di costruire e di conquistare la libertà, la vita, la speranza che illumina la notte dei tempi oscuri. Lo è anche per il mondo cristiano perseguitato ancora oggi sulla Terra. Prima mera coincidenza. Venerdì 6 aprile 2012 ( prima sera di Pasqua) gli Ebrei in Italia e nel mondo (al tramonto del Sole) celebrano il Seder (“ordine”), la cena pasquale (festa della durata di sette giorni, fino al 13 aprile) che ricorda l’uscita degli israeliti dalla schiavitù d’Egitto guidati da Mosè, la fine del faraone, l’attraversamento miracoloso del mar Rosso e l’inizio della lunga marcia ebraica (40 anni) verso la Terra promessa. Una cena consumata in fretta, prima che il pane avesse tempo di lievitare (Esodo 12, 1-20). Agli Ebrei in Egitto fu ordinato di prendere un agnello o capretto per ogni famiglia, da sacrificare alla vigilia di Pèsach (nel senso originario di sacrificio pasquale), simbolo della liberazione dall’Egitto. “In ogni generazione ciascuno deve considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto”, leggono gli Ebrei durante il Seder nell’Haggadà shel Pesach (Narrazione della Pasqua). Il precetto di raccontare ai figli dell’uscita dall’Egitto precede nell’Esodo l’uscita stessa, aprendo una porta sul futuro degli Ebrei e dei Cristiani nel mondo.“E quando i vostri discendenti vi chiederanno: che cosa significa per voi questo rito? Voi risponderete: Questo è il sacrificio pasquale in onore del Signore, il quale passò oltre le case dei figli d’Israele, quando percosse l’Egitto e preservò le nostre dimore”. Il sacrificio pasquale dell’Antica Alleanza deriva dal verbo “passare oltre”. Le Sacre Scritture specificano che il sacrificio deve essere mangiato “con azzime ed erbe amare, con la cintura ai lombi, con i sandali ai piedi, con il bastone in mano”. L’azzima è in ricordo del pane che di lì a poco non farà in tempo a lievitare e l’erba amara serve per ricordare come cosa passata (anche se per gli Ebrei di Mosè è ancora presente) l’amarezza della schiavitù. Poi gli Ebrei bevono quattro bicchieri di vino, ascoltano il più piccolo tra i presenti che intona “Mah Nishatanah”, discutono, si scambiano le ricette del charoset e dei biscotti, cantano filastrocche. E pensano a noi che festeggiamo allegramente, a Ester e Mordechai che digiunano, ai cinque rabbini di Benè Berak che discutono tutta la notte e forse tramano la rivolta contro gli antichi romani, a tutti gli Ebrei che molte volte nel corso dei secoli avrebbero festeggiato la libertà chiusi nei ghetti, nascosti o in fuga, agli Ebrei dell’Olocausto e della rivolta nel ghetto di Varsavia. Pensate, quelli di Pèsach furono i riti di Gesù, di Maria e di Giuseppe. Facciamo fatica oggi a immaginare la Sacra Famiglia di Nazareth che recita il Rituale della Rimembranza, festeggiando la Pasqua ebraica. Se siamo Cristiani siamo anche Ebrei, in quanto condividiamo il retaggio dei figli d’Israele. Non possiamo negare la verità. Per i cristiani la Pasqua non è la festa del pacifismo, della resa incondizionata alla cultura atea dominante, all’ipocrisia ed alle forze maligne che agiscono nella Storia! Né per gli Ebrei né per i Cristiani che un giorno Dio riunirà in un solo popolo. La schiavitù è davvero vinta? Le catene sono state spezzate? Siamo liberi o schiavi? Hanno tentato di sradicarci dal nostro presente, dalla nostra identità oggi incerta. Così è d’obbligo digiunare. Hanno provato a sterminarci, ci siamo salvati, mangiamo insieme anche se in due feste diverse sulla Terra. Mangiare e digiunare costituiscono molto più di una prassi comunitaria. La Pace è un dono di Dio, non degli uomini. È bene ricordarlo in questa Pasqua AD 2012 (gli Ortodossi la celebrano Domenica 15 aprile 2012) che è la festa della Liberazione dalla schiavitù del peccato, del Passaggio dalla morte alla vita. Per i Cristiani è soprattutto la festa della Risurrezione della carne, a cominciare dalla Primizia che è Gesù Cristo, Figlio di Dio, il Messia, il Risorto, il Signore dell’Universo, vero Dio vero Uomo, fonte della Vita nuova, Colui che ha donato la Sua vita in riscatto dell’Umanità intera, facendo nuove tutte le cose. Questa è la nostra Fede che, come ci ricorda San Paolo, altrimenti sarebbe vana! Siamo davvero in preparazione febbrile della Santa Pasqua, momento fondante della nostra Storia e della nostra nuova Umanità assunta in Cristo Risorto venuto sulla Terra per fare nuove tutte le cose? Attenzione alle modalità con cui viviamo la Pasqua. In questa turbolenta settimana il rischio è di affogare in un bagno mediatico autoreferenziale, in un manifesto di sani principi che si occupi più dei diritti, della difesa della cultura nell’ex “fortezza Europa”, ovviamente della propria vita religiosa, magari in una visione di scambio e incontro con le nuove realtà della nostra società, sacrificando il significato autentico della Pasqua di ciascuno di noi. Certo, i bisogni dei più deboli sono importanti: dobbiamo preoccuparci dei più poveri ma è essenziale la conservazione e la trasmissione del Messaggio pasquale (che non è di cioccolato!) attraverso i nostri Riti per formare la coscienza e la sensibilità verso questi problemi. Il Male esiste sulla Terra, invisibile e visibile, con il suo corollario di povertà, miserie, malattie, ignoranza, ingiustizie, assurdità e guerre. Per liberarsene è necessaria sollecitudine e minuziosa attenzione. La battaglia per la Vita prosegue. Guai a disperare. Il mistero più grande della venuta e del sacrificio del Figlio di Dio nella Storia per fare nuove tutte le cose, non è stato ancora compreso da tutti. In Italia e in Europa, quale deve essere, allora, la scala di priorità per un ebreo e un cristiano oggi? I giovani sono consapevoli di queste problematiche o fanno confusione con le uova, gli agnellini, i conigli e le colombe di cioccolato? Domande che attendono una risposta, soprattutto dal territorio, l’anello debole di tutta “la cordata necessaria per salire da Gerico a Gerusalemme fino a Dio” come ci ricorda il Santo Padre Benedetto XVI, per vincere la forza di gravità terrestre del peccato, per entrare nel campo gravitazionale del Paradiso e lasciarci attrarre da Dio. E si comincia dalla nostra Storia e Memoria comuni, di ebrei e cristiani: ricordiamo che Gesù sulla Terra era ebreo e che per più di trent’anni della sua vita terrena ha celebrato la Pasqua ebraica con i suoi cari nel suo popolo. Inizia, dunque, la Pasqua ebraica. In tutte le case dei nostri fratelli maggiori, dopo il vino, l’haroset, le erbe amare, i salmi e le storie, alla fine della sera, gli Ebrei dicono tre parole decisive che danno al Seder una presa sull’attualità che non è mai cessata da quando i saggi hanno fissato l’Haggadà. Gli Ebrei dicono, come tutti gli anni:“Leshanà habbà beJerushalaim” che significa: l’anno prossimo a Gerusalemme. Per secoli questa è stata solo una promessa spirituale, una speranza che non moriva per il popolo ebraico. Una preghiera. Poi, gradualmente, da 152 anni, la clausola è diventata concreta, il senso è cambiato in un invito a salire davvero in Israele. Una proposta, una richiesta. Poi, a giugno di 65 anni fa a Gerusalemme gli Ebrei si sono insediati davvero nella loro Patria, nella loro Capitale. Dal senso della frase non è sparito l’invito, ma si è aggiunta la gioia di una realizzazione storico-giuridica. Era diventata un segno di festa. Magari fra mille problemi, Gerusalemme era comunque tornata al popolo ebraico, dopo centinaia, migliaia di instancabili ripetizioni di quella formula. Eppure, Israele oggi è in pericolo, sia come Stato sia come popolo. Lo sarebbe comunque, anche se Gerusalemme fosse divisa in due Capitali, magari separate da un nuovo muro! Perché non è affatto detto che l’anno prossimo gli Ebrei saranno ancora a Jerushalaim. Se le cose andassero come sembrano volere non solo i palestinesi e il mondo arabo e islamico, ma anche l’Europa, l’Italia e l’America, nel 2013 di Gerusalemme potrebbe restare solo la periferia occidentale! Sempre che l’Atomica iraniana non ponga prima fine a tutti ed a tutto su questa povera Terra. Il mese di Nisan è caratterizzato dalla festa di Pèsach, dai preparativi alla festa di Pasqua e da un’atmosfera di gioia. Anche nelle famiglie cristiane fervono i preparativi, a cominciare dalle tradizionali pulizie primaverili prima del Triduo pasquale cattolico della Settimana Santa. Pèsach dell’anno ebraico 5772 (6-13 aprile 2012) e la Santa Pasqua del Signore AD 2012 (8 e 15 aprile) sono due feste completamente diverse ma intimamente connesse alle realtà celesti. Un giorno, Ebrei (popolo eletto) e Cristiani (popolo redento dalla grazia di Cristo nella Nuova Alleanza), come annuncia l’Apostolo San Paolo nella Lettera ai Romani, saranno una famiglia unita in Dio già sulla Terra. Un fatto storico, dunque, preannunciato duemila anni fa. E sarà davvero un giorno felicissimo. La nostra comune radice religiosa in Dio è fissata intimamente alle realtà celesti che i saggi Autori della Bibbia e della tradizione orale, ispirati da Dio, nel corso dei millenni hanno impresso nella pergamena e dei cuori. Si collegano in questo modo due elementi fondamentali della nostra fede: la creazione del mondo e l’intervento divino liberatore nella Storia. Che per i cristiani è Cristo Risorto Che ha vinto la morte, distruggendo i nostri peccati. Da parte degli Ebrei rimane l’obbligo di non rinunciare a fare la loro parte che a Pèsach è quella di mantenere e trasmettere la memoria di eventi fondamentali che hanno segnato la loro condizione più di tre millenni fa. Lo fanno osservando scrupolosamente antiche regole che riguardano la casa, gli alimenti speciali e il racconto ai più giovani, tra la memoria della redenzione passata e l’attesa di quella futura. Pesach kasher wesameach a tutti. Durante tutto il mese di Nisan, la Legge prescrive che non si recita il Tachannun e Zidqatekhà nella preghiera pomeridiana di shabbat. Inoltre non vengono decretati digiuni pubblici, ed in generale è vietato digiunare, ad esclusione del Ta’anit Chalom, il digiuno che viene osservato qualora si sia fatto un sogno sconvolgente. Durante Nisan non si fa l’hesped (orazione funebre) se non per commemorare personalità di grande rilievo. Si va al cimitero solo per sepolture, ricorrenze (settimo, mese, fine anno) ed anniversari. L’uso prevalente è di non mangiare pane azzimo fino all’inizio di Pesach per apprezzare la “novità” della matzà la sera del Seder. Secondo la Toràh il nome di Pèsach è legato ad un’espressione che compare in occasione dell’ultima piaga, l’uccisione dei primogeniti egiziani. La Torà (Shemot 12:13) dice:“e il sangue sarà come segno sulle case in cui vi trovate, e passerò (ufasachtì) sopra la porta…”. Rashì porta due possibili spiegazioni del verbo ufasachtì: può significare “avrò misericordia” oppure “passerò oltre, salterò”. Passando sopra le case, Dio sarebbe passato da una casa egiziana all’altra, tralasciando quelle degli Ebrei. Naturalmente questa espressione non può essere intesa in senso letterale, poiché Dio è in ogni luogo contemporaneamente, ma va intesa dal punto di vista degli effetti della piaga che di fatto colpì solamente gli egiziani. Questa immagine del “salto” non può però essere intesa nel solo senso stretto materiale, secondo i rabbini. È come se, in senso spirituale, lo stesso Signore abbia fatto un salto, andando oltre al suo consueto modo di procedere nei confronti dell’umanità, con un atto di salvezza verso coloro che accettavano di seguirlo. Il midrash dice che il Signore chiede agli uomini di aprire entro di sé un’apertura grande quanto la punta di uno spillo per la teshuvàh, ed Egli farà il resto. L’Uomo è comunque tenuto a fare il primo passo, affinché vi sia l’intervento divino. I maestri della Chassidut spiegano che l’apertura umana deve essere completa, ed attraversare l’Uomo, per così dire, da parte a parte. In Egitto il popolo ebraico fece solamente l’inizio del lavoro, e nonostante ciò ottenne la salvezza, grazie al “salto” divino. Ma il “salto” lo devono fare tutti gli esseri umani. Che tipo di Ebrei erano quelli che furono liberati dall’Egitto? Erano schiavi del tutto assimilati o avevano una forte identità ebraica? Dal racconto biblico si evidenzia solo qualche indizio, il resto è legato a quanto racconta la tradizione rabbinica che, su questo argomento, sembra divisa. Secondo una linea interpretativa gli Ebrei avevano mantenuto la loro identità rimanendo fedeli ad alcuni modelli culturali essenziali: come la lingua e i nomi e non perdendo la speranza nella liberazione. Secondo un’altra linea erano completamente sprofondati nelle “49 porte dell’impurità” egiziana e mancava un soffio alla loro completa perdita. Fu solo l’intervento divino a salvare la situazione facendo uscire “goi mikerev goi”, un popolo da dentro a un popolo, senza alcuna differenza tra i due. È evidente che le domande e le risposte non riguardano solo gli antenati ma nascondono per gli Ebrei un problema più grande e sempre attuale: che tipo di ebreo bisogna essere per sopravvivere e qual è il ruolo degli uomini rispetto a quello divino riguardo ai processi di liberazione? Se non facciamo niente per noi che speranze abbiamo di essere liberati? Che bello sarebbe poter trascorrere insieme la Pasqua, Ebrei e Cristiani insieme a Roma, sul territorio, in Israele, in Palestina e nei paesi mussulmani. Dio ci chiede il primo passo. Poi, Lui farà il resto! Pasqua ebraica e Pasqua cristiana: chi stabilisce la data, la festa e la sua libertà? Per il calcolo della data mobile della Pasqua (http://www.themeter.net/pasqua.htm) occorre sapere che tutto fu deciso nel 325 dopo Cristo, quando il Concilio cattolico di Nicea stabilì che la solennità della Pasqua cristiana sarebbe stata celebrata “nella domenica seguente il primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera”. L’equinozio di primavera è intorno al 21 marzo e la data di Pasqua è quindi compresa tra il 22 marzo e il 25 aprile inclusi, poiché il ciclo lunare è di 29 giorni. Il metodo per calcolare il giorno di Pasqua richiede conoscenze e pazienza. Esistono su Internet piccoli programmi in grado di elaborare velocemente la data. “La festa di Pesach – spiega Alfredo Mordechai Rabello, giurista dell’Università Ebraica di Gerusalemme – ha destato, per vari motivi, l’opposizione di molti governi, sotto cui si sono trovati gli Ebrei. Per il periodo adrianeo leggiamo la Mechilta derabbì Ishmael. Rabbi Natan dice:“…Per quelli che amano i Miei Comandamenti. . . si riferisce agli Ebrei che vivono in Terra d’Israele e che rischiano la loro vita per i Comandamenti… Perchè mai vai ad essere crocifisso? – Perchè ho mangiato il pane azzimo…”. In questo caso il divieto delle matzot fa parte di una serie di divieti di osservanza delle mitzvot da parte dell’autorità romana. La problematica cambia nell’Impero romano cristiano: se per gli Ebrei la festa di Pasqua ricorre ogni anno il 14-15 del mese di Nissan per celebrare l’uscita dall’Egitto, la Pasqua cristiana commemora invece la Passione, la Morte e la Risurrezione di Gesù Cristo, che secondo la tradizione cristiana ebbe luogo proprio durante la Pasqua ebraica di 1972 anni fa, secondo il calcolo più corretto (cf. libro “La Passione”, di Andrea Tornielli), ossia nell’Anno Domini 30 e non 33. Per questo motivo la Chiesa delle origini trovava perfettamente naturale fissare la data della Pasqua secondo quella ebraica. In tale epoca gli Ebrei non avevano però un calendario lunare fisso, come oggi. Ogni volta si fissava l’inizio del mese a seconda dell’apparizione della Luna Nuova. I testimoni e alcuni padri della Chiesa trovarono ben presto insopportabile che si dovesse aspettare che i Rabbini avessero fissato la data del nuovo mese per poter essi stessi fissare la data della loro Pasqua. Quando la festa fu introdotta a Roma la celebrarono la Domenica dopo la Pasqua ebraica, come ad Alessandria. Dopo numerose discussioni fra la Chiesa d’Occidente e quella d’Oriente, la questione fu portata al Concilio di Nicea che minacciò punizioni per quei cristiani che celebrassero la loro Pasqua nello stesso tempo della Pasqua ebraica. Il problema fu affrontato in altri Concili della Chiesa ma era evidentemente di difficile soluzione e sembra essere ancora attuale al tempo di Giustiniano tanto che l’onnipotente imperatore volle porvi fine una volta per tutte. Nel 543 egli decretò, stando almeno a Procopio, che gli Ebrei non potessero celebrare la loro Pasqua altro che dopo la Pasqua cristiana, per evitare così che i cristiani partecipassero al Seder degli Ebrei. “E non permetteva neppure di fare la loro offerta a Dio né il compimento di ogni cerimonia, secondo i loro propri costumi. E molti di loro sono stati perseguitati dalle autorità per aver mangiato carne d’agnello, con lorde ammende, sotto il pretesto di violazione delle leggi dello Stato. Abbiamo qui senza dubbio una grave offesa alla libertà delle feste ebraiche: oramai si tratta di un’osservanza tollerata, sottoposta sempre all’arbitrio di questo o quell’Imperatore”. Tuttavia, l’Ultima Cena di Gesù non fu la Pasqua ebraica, scrive Papa Benedetto XVI nel suo libro “Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione”. Il Santo Padre spiega che “Giovanni bada con premura a non presentare l’ultima cena come cena pasquale. Al contrario: le autorità giudaiche che portano Gesù davanti al tribunale di Pilato evitano di entrare nel pretorio «per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua»(18,28). La Pasqua comincia quindi solo alla sera; durante il processo si ha la cena pasquale ancora davanti; processo e crocifissione avvengono nel giorno prima della Pasqua, nella «Parascève», non nella festa stessa. La Pasqua in quell’anno si estende dunque dalla sera del venerdì fino alla sera del sabato e non dalla sera del giovedì fino alla sera del venerdì. Per il resto, lo svolgimento degli eventi rimane lo stesso. Giovedì sera l’ultima cena di Gesù con i discepoli, che però non è una cena pasquale; venerdì (vigilia della festa e non la festa stessa): il processo e l’esecuzione capitale; sabato: il riposo del sepolcro; domenica: la risurrezione. Con questa cronologia, Gesù muore nel momento, in cui nel tempio vengono immolati gli agnelli pasquali. Egli muore come l’Agnello vero che negli agnelli era solo preannunciato. Questa coincidenza teologicamente importante, che Gesù muoia contemporaneamente con l’immolazione degli agnelli pasquali, ha indotto molti studiosi a liquidare la versione giovannea come cronologia teologica. Giovanni avrebbe cambiato la cronologia per creare questa connessione teologica che, tuttavia, nel Vangelo non viene manifestata esplicitamente. Oggi, però, si vede sempre più chiaramente che la cronologia giovannea è storicamente più probabile di quella sinottica. Poiché — come s’è detto — processo ed esecuzione capitale nel giorno di festa sembrano poco immaginabili. D’altra parte, l’ultima cena di Gesù appare così strettamente legata alla tradizione della Pasqua che la negazione del suo carattere pasquale risulta problematica. Per questo già da sempre sono stati fatti dei tentativi di conciliare le due cronologie tra loro. Il tentativo più importante — e in molti particolari affascinante — di giungere ad una compatibilità tra le due tradizioni proviene dalla studiosa francese Annie Jaubert, che fin dal 1953 ha sviluppato la sua tesi in una serie di pubblicazioni. Non dobbiamo qui entrare nei dettagli di tale proposta; limitiamoci all’essenziale. In questo modo la tradizione sinottica e quella giovannea appaiono ugualmente giuste sulla base della differenza tra due calendari diversi. La studiosa francese fa notare che le cronologie tramandate (nei sinottici e in Giovanni) devono mettere insieme una serie di avvenimenti nello spazio stretto di poche ore: l’interrogatorio davanti al sinedrio, il trasferimento davanti a Pilato, il sogno della moglie di Pilato, l’invio ad Erode, il ritorno da Pilato, la flagellazione, la condanna a morte, la via crucis e la crocifissione. Collocare tutto questo nell’ambito di poche ore sembra — secondo Jaubert — quasi impossibile. Rispetto a ciò la sua soluzione offre uno spazio temporale che va dalla notte tra martedì e mercoledì fino al mattino del venerdì. In quel contesto la studiosa mostra che in Marco per i giorni «Domenica delle palme», lunedì e martedì c’è una precisa sequenza degli avvenimenti, ma che poi egli salta direttamente alla cena pasquale. Secondo la datazione tramandata resterebbero quindi due giorni su cui non viene riferito nulla. Infine Jaubert ricorda che in questo modo il progetto delle autorità giudaiche, di uccidere Gesù puntualmente ancora prima della festa, avrebbe potuto funzionare. Pilato, tuttavia, con la sua titubanza avrebbe poi rimandato la crocifissione fino al venerdì. Contro il cambio della data dell’ultima cena dal giovedì al martedì parla, però, l’antica tradizione del giovedì, che comunque incontriamo chiaramente già nel II secolo. Ma a ciò la signora Jaubert obietta citando il secondo testo su cui si basa la sua tesi: si tratta della cosiddetta Didascalia degli Apostoli, uno scritto dell’inizio del III secolo, che fissa la data della cena di Gesù al martedì. La studiosa cerca di dimostrare che quel libro avrebbe accolto una vecchia tradizione, le cui tracce sarebbero ritrovabili anche in altri testi. A questo bisogna, però, rispondere che le tracce della tradizione, manifestate in questo modo, sono troppo deboli per poter convincere. L’altra difficoltà consiste nel fatto che l’uso da parte di Gesù di un calendario diffuso principalmente in Qumran è poco verosimile. Per le grandi feste, Gesù si recava al tempio. Anche se ne ha predetto la fine e l’ha confermata con un drammatico atto simbolico, Egli ha seguito il calendario giudaico delle festività, come dimostra soprattutto il Vangelo di Giovanni. Certo, si potrà consentire con la studiosa francese sul fatto che il Calendario dei Giubilei non era strettamente limitato a Qumran e agli Esseni. Ma ciò non basta per poterlo far valere per la Pasqua di Gesù. Così si spiega perché la tesi di Annie Jaubert, a prima vista affascinante, dalla maggioranza degli esegeti venga rifiutata. Io l’ho illustrata in modo così particolareggiato, perché essa lascia immaginare qualcosa della molteplicità e complessità del mondo giudaico al tempo di Gesù — un mondo che noi, nonostante tutto l’ampliamento delle nostre conoscenze delle fonti, possiamo ricostruire solo in modo insufficiente. Non disconoscerei, quindi, a questa tesi ogni probabilità, benché in considerazione dei suoi problemi non sia possibile semplicemente accoglierla”. Che cosa dobbiamo dunque dire? “La valutazione più accurata di tutte le soluzioni finora escogitate l’ho trovata nel libro su Gesù di John P. Meier, che alla fine del suo primo volume ha esposto un ampio studio sulla cronologia della vita di Gesù. Egli giunge al risultato che bisogna scegliere tra la cronologia sinottica e quella giovannea e dimostra, in base all’insieme delle fonti, che la decisione deve essere in favore di Giovanni. Giovanni ha ragione: al momento del processo di Gesù davanti a Pilato, le autorità giudaiche non avevano ancora mangiato la Pasqua e per questo dovevano mantenersi ancora cultualmente pure. Egli ha ragione: la crocifissione non è avvenuta nel giorno della festa, ma nella sua vigilia. Ciò significa che Gesù è morto nell’ora in cui nel tempio venivano immolati gli agnelli pasquali. Che i cristiani in ciò vedessero in seguito più di un puro caso, che riconoscessero Gesù come il vero Agnello, che proprio così trovassero il rito degli agnelli portato al suo vero significato — tutto ciò è poi solo normale”. Ma perché allora i sinottici hanno parlato di una cena pasquale? Su che cosa si basa questa linea della tradizione? “Una risposta veramente convincente a questa domanda non la può dare neppure Meier. Ne fa tuttavia il tentativo — come molti altri esegeti — per mezzo della critica redazionale e letteraria. Cerca di dimostrare che i brani di Marco, 14, 1a e 14, 12-16 (gli unici passi in cui presso Marco si parla della Pasqua) sarebbero stati inseriti successivamente. Nel racconto vero e proprio dell’ultima cena non si menzionerebbe la Pasqua. Questa operazione — per quanto molti nomi importanti la sostengano — è artificiale. Rimane però giusta l’indicazione di Meier che cioè, nella narrazione della cena stessa presso i sinottici, il rituale pasquale appare tanto poco quanto presso Giovanni. Così, pur con qualche riserva, si potrà aderire all’affermazione: «L’intera tradizione giovannea (…) concorda pienamente con quella originaria dei sinottici per quanto riguarda il carattere della cena come non appartenente alla Pasqua» (A Marginal Jew, i, p. 398)”. Ma allora, che cosa è stata veramente l’ultima cena di Gesù? E come si è giunti alla concezione sicuramente molto antica del suo carattere pasquale? “La risposta di Meier è sorprendentemente semplice e sotto molti aspetti convincente. Gesù era consapevole della sua morte imminente. Egli sapeva che non avrebbe più potuto mangiare la Pasqua. In questa chiara consapevolezza invitò i suoi ad un’ultima cena di carattere molto particolare, una cena che non apparteneva a nessun determinato rito giudaico, ma era il suo congedo, in cui Egli dava qualcosa di nuovo, donava se stesso come il vero Agnello, istituendo così la sua Pasqua. In tutti i Vangeli sinottici fanno parte di questa cena la profezia di Gesù sulla sua morte e quella sulla sua risurrezione. In Luca essa ha una forma particolarmente solenne e misteriosa:«Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio» (22,15 s). La parola rimane equivoca: può significare che Gesù, per un’ultima volta, mangia l’abituale Pasqua con i suoi. Ma può anche significare che non la mangia più, ma s’incammina verso la Pasqua nuova. Una cosa è evidente nell’intera tradizione: l’essenziale di questa cena di congedo non è stata l’antica Pasqua, ma la novità che Gesù ha realizzato in questo contesto. Anche se questo convivio di Gesù con i Dodici non è stata una cena pasquale secondo le prescrizioni rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa evidente la connessione interiore dell’insieme con la morte e risurrezione di Gesù: era la Pasqua di Gesù. E in questo senso Egli ha celebrato la Pasqua e non l’ha celebrata: i riti antichi non potevano essere praticati; quando venne il loro momento, Gesù era già morto. Ma Egli aveva donato se stesso e così aveva celebrato con essi veramente la Pasqua. In questo modo l’antico non era stato negato, ma solo così portato al suo senso pieno. La prima testimonianza di questa visione unificante del nuovo e dell’antico, che realizza la nuova interpretazione della cena di Gesù in rapporto alla Pasqua nel contesto della sua morte e risurrezione, si trova in Paolo 1 Corinzi 5,7:«Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!»(cfr. Meier A Marginal Jew, p. 429 ss). Come in Marco 14,1 si susseguono qui il primo giorno degli Azzimi e la Pasqua, ma il senso rituale di allora è trasformato in un significato cristologico ed esistenziale. Gli «azzimi» devono ora essere costituiti dai cristiani stessi, liberati dal lievito del peccato. L’Agnello immolato, però, è Cristo. In ciò Paolo concorda perfettamente con la descrizione giovannea degli avvenimenti. Per lui, morte e risurrezione di Cristo sono diventate così la Pasqua che perdura. In base a ciò si può capire come l’ultima cena di Gesù, che non era solo un preannuncio, ma nei Doni eucaristici comprendeva anche un’anticipazione di croce e risurrezione, ben presto venisse considerata come Pasqua — come la sua Pasqua. E lo era veramente”. A Pasqua non bisogna dimenticarsi dei poveri e di coloro che abbiamo trattato male, pena l’inutilità dei Riti e di tutto il resto. Bisogna riconciliarsi con tutti, l’un l’altro, senza ipocrisie. Siamo talmente presi dai preparativi che talvolta possiamo dimenticare l’essenziale. “Senz’altro è molto importante preparare tutto perché la nostra casa sia pulita di ogni chametz – fanno notare i nostri fratelli maggiori – senz’altro è molto importante preparare tutto perché la nostra tavola sia pronta per il Seder, con le sue matzot, con i suoi quattro bicchieri di vino, con le Hagadot e così via. Ebbene Rabbì Moshé Isserles (conosciuto come l’Haremà, 1525ca.-1572) inizia le regole di Pèsach con questa osservazione-mizvà:“È minhag (ndr, consuetudine) comperare grani da dividere ai poveri per Pesach…”(Shulchan Aruch, art. 429:1) ed il Chafetz Chaim, nella sua Mishnà Berurà aggiunge: “Si tratta di un minhag antico del tempo della Ghemarà (Talmud) e questo si trova ricordato nel Talmud Jerushalmì… e nei nostri posti il minhag è di dare loro farina perché possano preparare le matzot e bisogna dare quanto hanno bisogno per tutti i giorni di Pesach e se si tratta di persone molto povere si deve pagare loro anche per la cottura delle matzot”. Oggi l’uso generale è di fare offerte in denaro per permettere alle persone bisognose di poter festeggiare la Pasqua come si deve (kimcha depischa). Questi Chachamim vogliono dirci che non possiamo assolutamente mettere il nostro cuore in pace con l’invito fatto nella Haggadà a chi ha fame di venire a mangiare da noi; sappiamo bene che ai nostri giorni questo invito rimane molto spesso puramente teorico e sappiamo bene anche che molti sono i bisognosi di aiuto, famiglie che avrebbero piacere di stare assieme e non divise ognuno in un altro tavolo, sia pure ospitale; essi ci dicono che non possiamo sentirci degni di iniziare la nostra Pasqua se non abbiamo fatto quanto ci è possibile per aiutare chi ha bisogno, nella nostra Comunità prima di tutto, in Eretz Israel ed ovunque vi sia bisogno, a poter festeggiare almeno Pèsach come persone libere. Sono cose che sappiamo bene, che ci sembrano ovvie ma che forse proprio per questo rischiano di essere dimenticate e che allora è bene tenerle presenti fin dall’inizio”. Molti leggono e vivono Pèsach e la Pasqua cristiana pensando alla difesa della propria cultura e identità, tra uno show politico e l’altro a spasso nel Mediterraneo, magari sia a favore sia contro Israele. Un parallelo improprio. “La liberazione dalla schiavitù non è un atto che indica un progetto – fa notare David Bidussa, storico sociale delle idee – al più sancisce che non si è disposti più a vivere come si è vissuti fino a ieri e che si vuol vivere meglio. A differenza dell’uscita dall’Egitto, la scelta sionista non pensava di eliminare la condizione di inferiorità o di persecuzione e dunque non era la risposta all’antisemitismo. Quella scelta nasceva dalla convinzione che qualunque fosse stato il futuro, non si era disposti a investire solo sul miglioramento delle condizioni materiali della propria vita. La scommessa era sulla volontà di decidere da soli del proprio destino e di provare a se stessi, prima ancora che a chiunque altro, che non solo si era maturi per una condizione di autonomia, ma anche per una di responsabilità. La verifica sul senso di quella scelta e sullo stato di salute di ciò che da quella scelta è scaturito, alcune generazioni dopo, non è se l’antisemitismo sia cresciuto o diminuito, ma se ciò che è nato da quella scelta e attraverso quell’esperienza abbia fatto maturare, o meno, la capacità politica di affrontare le difficoltà del proprio presente”. Gli Ebrei e il loro Stato hanno tutta la loro forza militare ed economica, la creatività, la combattività, l’ostinazione che Israele mostrava già uscendo dall’Egitto. Il popolo ebraico ha il suo destino storico, la fede che lo ha portato per due millenni a ripetere il Seder e la sua formula finale in terre lontane. Ma oggi, forse, guardando la sedia che lasceranno vuota per Gilad Shalit, dovranno interpretare di nuovo la formula millenaria come una preghiera e magari aggiungere sottovoce un’altra parolina: (gam) leshanà habbà biJerushalaim: anche l’anno prossimo a Gerusalemme. Come si svolge la Pasqua ebraica? Sulla tavola della sera di Pasqua, entro un vassoio, troviamo tre azzime sovrapposte, una zampa arrostita di pollo o tacchino, in ricordo dell’agnello pasquale offerto in sacrificio nel Tempio, un uovo sodo, erbe amare, sedano e un composto di mele, frutta secca, miele e cannella. Nel corso della cena pasquale ebraica si bevono in successione quattro calici, a cui vengono attribuiti precisi significati simbolici. Un quinto calice si versa ma non si beve, poiché è considerato un segno escatologico: la speranza del prossimo avvento dei tempi messianici. Ogni padre di famiglia a Pasqua è il protagonista della liberazione dall’Egitto in quanto racconta la vicenda al proprio figlio trasmettendone la perenne attualità. Al termine dei molti riti previsti dal Seder, è uso trattenersi ancora a tavola cantando inni e filastrocche popolari. La più famosa (chag gadja, “un capretto”) paragona la storia d’Israele a quella di un capretto che dopo le persecuzioni (rappresentate da un gatto, da un cane e da un bastone) incontra la redenzione compiuta di persona dal Santo, “benedetto Egli sia”. Il rabbino Alberto Moshe Somekh ha raccolto norme, regole, tradizioni e riflessioni sulla festività di Pèsach in un articolo di cui proponiamo un breve estratto. “Il Seder (Leylè Pessach; lett. “ordine [delle sere di Pessach]”) costituisce l’insieme di atti e letture seguito nelle case ebraiche la prima (fuori d’Israele anche la seconda) sera di Pesach. Gli scopi del Seder sono essenzialmente due: ricordare la liberazione dalla schiavitù egiziana e trasmetterne il messaggio alle nuove generazioni, destando particolarmente l’attenzione dei bambini. Finché il Bet ha-Miqdash (Tempio di Gerusalemme) è esistito, l’atto principale consisteva nell’offerta e nella consumazione del Qorban Pessach (Sacrificio Pasquale, consistente in un agnello arrostito allo spiedo) insieme alla Matzah (pane azzimo) e al Maròr (erba amara), cui prendeva parte tutta la famiglia, secondo la prescrizione della Torah (Shemot 12)”. Dopo la distruzione del Tempio (70 d.C.) non è più stato possibile compiere il sacrificio. La bibliografia in proposito è vastissima. Preparazione dei cibi e accensione dei lumi nei giorni festivi
di Shabbat. “A differenza dei giorni di Yom Tov (festa solenne), è proibito trasportare oggetti, accendere il fuoco in qualsiasi modo e cucinare. Durante il 1°, 2°, 7° e 8° giorno di Pessach (sempre che non cadano di Shabbat) invece è permesso trasportare oggetti fuori casa, cucinare ed accendere il gas a questo scopo, purché da una fiamma già accesa da prima della festa. È però proibito spegnere il gas dopo averlo acceso. I fornelli elettrici possono essere usati solo se tenuti accesi anch’essi da prima dell’inizio della festa, ma ciò è sconsigliabile. Nei giorni di Yom Tov si può cucinare e preparare solo per il giorno stesso (ma non per l’indomani; per giorno stesso si intende dal tramonto all’uscita delle prime tre stelle la sera successiva: in tutto circa 25 ore). Perciò i cibi per il secondo Seder debbono essere stati cucinati dalla vigilia o scaldati dopo lo spuntare delle stelle della seconda sera: anche la tavola per la cena va apparecchiata dopo quest’ora o tramite non ebrei. Così pure la hadlaqat neròt (accensione dei lumi festivi) la seconda sera va eseguita con una fiamma già accesa da prima della festa. Se non è Venerdì Sera, si accende il fiammifero e si recita la Berakhah relativa prima di portare la fiamma ai lumi, in quanto se anche dicessimo che la Berakhah costituisce accettazione di Yom Tov, accendere un lume da un lume già acceso rimane permesso. È perciò preferibile attenersi alla regola generale di recitare la Berakhah su una Mitzwah prima di compiere l’atto cui si riferisce (‘ovèr la-‘asiyatan). Occorre porre attenzione a non spegnere il fiammifero dopo l’uso: lo si appoggerà lasciando che si spenga da solo. Alcune usano aggiungere la Berakhah She-he-cheyyanu. Le Mitzwòt del Seder. Quattro specifiche Mitzwòt (precetti) si osservano nel Seder anche dopo la distruzione del Bet ha-Miqdash. Due sono di origine biblica: la consumazione della Matzah, assumendo una postura particolare in segno di libertà, detta hassebah; il racconto dell’Uscita dall’Egitto tramite la lettura della Haggadah; e altre due sono di istituzione rabbinica: la consumazione del Maròr: esso è comandato nella Torah solo in relazione al Qorban Pesach, ma i Maestri hanno voluto che si continuasse ad osservarlo in ricordo del Bet ha-Miqdash distrutto; l’assunzione di quattro bicchieri di vino, in momenti particolari e assumendo la hassebah. A queste ultime se ne aggiunge un’altra: la recitazione del Hallèl, che Pesach ha in comune con altri giorni festivi. Ma il Seder è l’unica occasione annuale in cui il Hallèl viene recitato di sera e a tavola. Accanto alle Mitzwòt propriamente dette, i Maestri hanno istituito diversi Minhaghim (usi) per mantenere il ricordo del Bet ha-Miqdash distrutto e per tener desta l’attenzione dei più piccoli. Pur trattandosi di Mitzwòt ‘Asseh she-ha-zemàn gheramàn (obblighi legati ad un lasso di tempo determinato), le donne sono obbligate al pari degli uomini. Lo si evince dal fatto che: 1) l’obbligo della Matzah è presentato nella Torah in connessione con il divieto di mangiare Chamètz (cibo lievitato), per cui i Maestri deducono che “chi ha il divieto di mangiare Chamètz ha l’obbligo di mangiare Matzah” e, per estensione, tutti gli altri obblighi del Seder; 2) anche le donne hanno beneficiato del miracolo della liberazione. Ne consegue che anche le donne sono obbligate alla lettura della Haggadah, ma è opportuno che gli uomini non si basino sulla loro lettura per uscire d’obbligo. Esse sono parimenti tenute a recitare il Hallèl. Fa eccezione per alcuni, come vedremo, solo la hassebah. Una persona in lutto è parimenti tenuta a tutte le Mitzwòt, Hallèl compreso, ma non è opportuno che conduca il Seder, se vi sono altri in grado di farlo al suo posto. I bambini vanno progressivamente educati in base all’età e alla maturazione a partecipare al Seder e alle sue Mitzwòt. Coloro che si sono convertiti all’ebraismo osservano tutte le Mitzwòt del Seder e leggono la Haggadah, nonostante i numerosi riferimenti ai “nostri padri”. Anche i non vedenti sono parimenti tenuti a recitare la Haggadah ovvero ad ascoltarla, sebbene non vedano la Matzah e il Maròr; pertanto essi possono fare uscire d’obbligo altri anche se l’handicap li ha colpiti dalla nascita. Mentre per alcune Mitzwòt (Matzah e Maròr) è prescritta la recitazione di una Berakhah particolare, per altre non è stata istituita: sia i quattro bicchieri di vino che la lettura della Haggadah sono infatti Mitzwòt che non si esauriscono in un unico atto consecutivo, ma subiscono interruzioni e per questi casi i Maestri non hanno previsto la recitazione di una Berakhah. Per la stessa ragione non viene recitata durante il Seder la consueta Berakhah prima del Hallèl. Scrive il versetto:“E mangeranno la carne (dell’agnello pasquale) durante questa notte”. Se ne evince che non solo il sacrificio pasquale, ma per estensione tutte le Mitzwòt del Seder vanno eseguite dopo l’uscita delle prime tre stelle. Se il Venerdì Sera e nelle altre sere festive è lecito recitare il Qiddush anche prima della notte, durante il Seder non è lecito anticipare per il fatto che il bicchiere di vino che si beve per il Qiddush è a tutti gli effetti il primo dei quattro bicchieri prescritti ed è parte integrante delle Mitzwòt della notte di Pesach. Peraltro,“la tavola deve già essere apparecchiata dalla vigilia, in modo che il Seder possa cominciare appena è buio. Anche chi sta studiando al Bet Midrash deve predisporsi ad uscire presto, perché è Mitzwah cominciare non appena possibile per evitare che i bambini si addormentino”. In linea di principio l’intero Seder deve essere portato a termine nel medesimo luogo in cui lo si è cominciato, in analogia con le regole relative al Qorban Pesach che non consentivano di consumarlo in due gruppi di persone differenti. La Qe’arah. Prima di iniziare il Seder è necessario aver predisposto su un apposito vassoio (qe’arah), l’occorrente per le Mitzwòt del Seder. Lo scopo della qe’arah non è soltanto di avere a disposizione gli assaggi quando si rende necessario consumarli, ma anche assolvere al dovere di testimoniare, vedendoli, il significato che ciascuno di essi ha. È infatti scritto nella Torah:“H. ha agito a favor mio in Egitto per questo (scopo)” e i Maestri della Haggadah hanno interpretato che si riferisce “all’ora in cui la Matzah e il Maròr sono disposti davanti a te”. Per questa ragione è opportuno che i cibi della qe’arah rimangano sulla tavola fino al termine del Seder. Peraltro, non è necessario che ogni commensale abbia la sua qe’arah, ma è sufficiente che se ne trovi una di fronte a chi guida il Seder. È opportuno, come norma generale, preparare tutti i cibi prima che inizi la festa: ciò diventa un obbligo tassativo se Pesach cade di Shabbat, in quanto in tal giorno non è lecito cucinare del tutto. Ciò che serve per il Sabato sera, infine, deve essere tutto pronto fin dal venerdì. I cibi sono i seguenti: Tre Matzòt sovrapposte: il numero si spiega con il fatto che nelle sere festive è necessario recitare la Berakhah su due pani interi in memoria della doppia razione di manna nel deserto. Dal momento che, come si vedrà, durante il Seder uno dei pani deve essere spezzato prima della Berakhah, è necessario prevederne tre. Si deve fare in modo che le Matzòt siano shemuròt (dette anche semplicemente shimmurim), ovvero impastate con farina proveniente da grano controllato fin dal momento della mietitura (mi-sh’at qetzirah) e cotte a mano le-shem Matzat Mitzwah, in base al versetto “e sorveglierete le Matzòt”. Durante lo svolgimento del Seder le Matzòt rimangono scoperte, perché sono chiamate nella Torah lechem ‘oni, interpretato dai Maestri come “pane sul quale si danno molte risposte”. Solo nei momenti in cui si solleva il bicchiere di vino devono essere coperte per preservarne la dignità, in quanto come alimento il pane è considerato più importante del vino. Alcuni hanno l’uso di separare fra loro le tre Matzòt con tovaglioli e/o di collocarle fuori dalla qe’arah. Se delle tre Matzòt una si spezza inavvertitamente prima dell’apparecchiatura la si collochi come Matzah mediana, che è destinata comunque a essere spezzata molto prima delle altre.
Maròr: foglie di insalata. L’uso più generale, seguito anche in Italia, è di adoperare le foglie di lattuga romana, dopo averne accuratamente controllato eventuali infestazioni. Ai tempi del Bet ha-Miqdash si metteva in tavola anche la carne del Qorban Pesach. Per la precisione, dopo la distruzione i Maestri hanno prescritto che si collocassero sulla qe’arah “due cibi cucinati”. Nell’attuale cena pasquale ebraica non si mangia l’agnello. Zeroa’: zampa. Per il primo cibo, in ricordo dell’agnello pasquale, si usa una zampa di bovino, ovino o pollame arrostita direttamente sul fuoco, così come veniva arrostito l’agnello: essa ricorda il “braccio disteso” con cui H. ci ha redento dall’Egitto. In mancanza può essere adoperata altra parte dell’animale, preferibilmente dotata di osso. La zampa non viene mai sollevata dal vassoio durante il Seder, per non dare l’impressione di aver offerto il Qorban Pesach fuori dal Bet ha-Miqdash: l’uso è di mangiarla la mattina successiva al secondo Seder, quando non serve più. Betzah: uovo. Il secondo cibo, in ricordo del Qorban Chaghigah (sacrificio festivo) che veniva offerto ogni Yom Tov, è un uovo sodo: esso è simbolo del lutto per la distruzione del Tempio. È preferibile che l’uovo sodo sia lasciato nel guscio. Karpàs: verdura. L’uso più comune è di adoperare gambi di sedano, che sono più facili da pulire da eventuali infestazioni rispetto alle foglie. Devono essere crudi. A lato si deve preparare un contenitore di aceto di vino o soluzione di acqua e sale nella quale intingere il karpàs. L’acqua salata deve essere preparata prima di Yom Tov. Charosset: impasto di frutta in ricordo della malta (in ebraico: cheres o tit) adoperata dagli schiavi ebrei in Egitto per confezionare i mattoni. Viene preparata con i frutti ai quali viene paragonato il popolo d’Israele nello Shir ha-Shirim (la Meghillah che viene letta durante Pesach; in toto o in parte: mela, melagrana, fico, dattero, noce e mandorla). Il tutto è cosparso di cannella e cinnamomo, in ricordo della paglia. Secondo un’altra opinione ricorda il sangue versato dagli ebrei nel corso della schiavitù e pertanto si usa annaffiarlo di vino. Il Charòsset si adopera durante il Seder per intingervi il Maròr. La qe’arah in quanto tale non è mai menzionata nel Talmud e vi sono usi diversi in merito alla disposizione dei cibi su di essa. In mancanza di un determinato uso nella propria famiglia o nella propria Comunità ci si può attenere al principio per cui quanto prima un assaggio si rende necessario durante il Seder tanto più vicino lo si colloca alla persona, per evitare che questa si trovi a dovere “scavalcare le Mitzwòt”: nell’ordine 1) karpàs con acqua salata alla sua sinistra; 2) Matzòt; 3) Maròr con Charòsset alla sua sinistra; 4) Zeroa’ a destra e Betzah alla sua sinistra.
Vi sono abitudini diverse in merito alla domanda se prelevare i cibi dalla qe’arah, quando si richiede di mangiarli, o predisporne a parte lasciando intatto il vassoio. Vanno tenuti presenti due principi: 1) il vassoio va tenuto sulla tavola completo con una rappresentanza di ciascun assaggio fino al termine del Seder; 2) della Matzah e del Maròr si richiede che ciascuno dei commensali mangi almeno un ke-zayit più volte nel corso del Seder. È perciò difficile, soprattutto in presenza di molti ospiti, che il relativo quantitativo possa essere interamente contenuto nella qe’arah e dovrà essere conservato da parte”. La hassebah. “Persino un bambino deve stare reclinato mentre mangia”. Come segno di libertà, i Maestri hanno stabilito che nel corso del Seder si deve stare in posizione reclinata, ovvero appoggiati con il braccio sinistro (hassebat semòl), preferibilmente su un cuscino: identica regola vale anche per i mancini. Nei tempi antichi si banchettava semi-coricati sui triclini e tale era la consueta postura di rilassamento. Con il passare dei secoli sono mutate le abitudini, tanto che già alcuni Decisori medioevali hanno ritenuto che l’obbligo della hassebah non fosse più in vigore, ma la maggioranza ha stabilito la norma in senso rigoroso. I più ritengono anzi che la hassebah rientri oggi proprio in quei gesti inusuali che dovrebbero spingere i bambini a porre domande: non sarà un caso che fra le domande del Mah Nishtannah quella sulla hassebah sia stata introdotta più tardi, allorché si era persa l’abitudine. Vi sono regole che vincolano reciprocamente i commensali a questo proposito. Il figlio osserva la hassebah anche a tavola con il padre, perché ciò non è considerato mancanza di rispetto nei suoi confronti, anche se il padre è contemporaneamente il suo principale Maestro di Torah (rabbò muvhaq). Ma normalmente il discepolo non osserva la hassebah a tavola con il suo principale Maestro di Torah se questi non è suo padre, a meno che il Maestro non gliene dia il permesso. Se è presente un Maestro di Torah di importanza straordinaria (muflàg be-dorò) tutti i commensali devono considerarsi come suoi discepoli. Le donne sefaradite usano osservare la hassebah a priori, mentre quelle ashkenazite no. La persona nel primo anno di lutto non è esente dalla hassebah. La hassebah non va in realtà osservata per tutta la durata del Seder. Le parti di lettura (Magghid, Barèkh, Hallèl) esigono infatti una concentrazione particolare e per i bocconi non di Mitzwah (karpàs), ovvero quelli “amari” (Maròr e, secondo un’opinione minoritaria, anche Korèkh) non è richiesta. In pratica, a priori si deve osservare la hassebah sette volte durante il Seder: quando si beve ciascuno dei quattro bicchieri di vino e ognuna delle tre volte in cui si mangia la Matzah di Mitzwah (Motzì Matzah, Korèkh secondo la maggioranza delle opinioni e Tzafùn). In caso di dimenticanza l’opinione più facilitante ritiene che sia necessario ripetere l’atto di mangiare reclinati solo in occasione di Motzì Matzah (senza ripetere le Berakhot) in quanto è questa l’unica occasione in cui la hassebah accompagna un’azione comandata dalla Torah secondo tutte le opinioni. Lo stesso criterio può essere adottato anche a priori in situazioni di grave disagio. Gli Arbà’ Kossòt. “Gli versano [il vino]”. Dal linguaggio della Mishnah impariamo che colui che conduce il Seder si fa versare il vino da altri, in segno di libertà. È oggi uso comune estendere questa abitudine a tutti i commensali. Mentre in tutte le altre occasioni solo a colui che recita il Qiddush si richiede di tenere in mano il bicchiere con il vino e di berne, durante il Seder tutti i commensali sono egualmente soggetti a questo precetto e anche se escono d’obbligo dalla recitazione del Qiddush con quella effettuata dal capofamiglia sono tenuti a bere il vino “in proprio” secondo le modalità che verranno spiegate in seguito. La stessa regola vale anche per i bicchieri successivi. I Maestri hanno infatti reso obbligatorio per tutti, durante il Seder, bere quattro bicchieri di vino. Fra le numerose ragioni indicate nel Talmud la più famosa è il riferimento alle “quattro promesse di redenzione” con cui H. ha annunciato a Mosheh il suo intervento in Egitto: wekotzetì (vi farò uscire) – wehitzaltì (vi salverò) – wegaaltì (vi redimerò) – welaqachtì (vi prenderò). I quattro bicchieri vanno assunti secondo l’ordine stabilito dai Maestri nella Haggadah: il primo al termine del Qiddush (Qaddesh), il secondo al termine del Magghid, il terzo al termine della Birkat ha-Mazòn (Barèkh) e il quarto al termine del Hallèl. Colui che beve i quattro bicchieri uno dopo l’altro esce d’obbligo solo per un bicchiere. Il vino deve essere di preferenza rosso, in quanto questo era il suo colore ai tempi biblici, come dice il versetto:“non osservare il vino mentre rosseggia”; inoltre esso ricorda il sangue delle piaghe e dell’agnello pasquale che, sugli stipiti delle porte in Egitto, permise la nostra liberazione. Ma se si trova un vino bianco più pregiato, questo ha la precedenza. Non è opportuno diluire il vino nell’acqua. Dal momento che con il vino si assolve anche il precetto della gioia festiva (simchat Yom Tov) è necessario a priori che esso abbia potere inebriante, ma non è necessaria una gradazione alcolica elevata: chi è particolarmente sensibile dovrà tenerne conto allo scopo di riuscire a portare a termine il Seder. Gli astemi, coloro cui il vino fa male, e così pure i bambini, potranno sostituirlo con succo d’uva. Se la persona non tollera neppure il succo d’uva, potrà uscire d’obbligo ascoltando il Qiddush da colui che conduce il Seder e uscire d’obbligo con la bevuta di quest’ultimo. Il bicchiere deve essere sufficientemente grande da contenere un revi’it (quarto di log, pari al volume di un uovo e mezzo): sull’identificazione di questa misura oggi vi sono due opinioni. Secondo R. Chayim Naeh sono 86 cc., mentre per il Chazòn Ish sono richiesti almeno 125 cc. L’uso è di essere più rigorosi di Venerdì Sera, allorché l’obbligo del Qiddush è di origine biblica, mentre se il Seder ha luogo in una sera differente è sufficiente basarsi sull’opinione più facilitante, perché l’obbligo del Qiddush di Yom Tov è solo per estensione rabbinica. Sebbene in tutte le altre occasioni è sufficiente a priori che chi recita il Qiddush beva la maggior parte del revi’it, nel caso del Seder è necessario che ciascuno si sforzi di bere il revi’it per intero. Solo a posteriori si è usciti d’obbligo avendo bevuto la maggior parte del revi’it. In ogni caso, è opportuno non adottare bicchieri più grandi della misura necessaria per non entrare in discussione sul quantitativo minimale da bere. La Mishnah stabilisce che non si possono intercalare altri bicchieri fra il terzo e il quarto, per il timore di ubriacarsi e di non essere più in grado di terminare il Hallèl. La discussione dei Maestri verte se analoga motivazione si applica anche al vino bevuto “a stomaco vuoto” prima del pasto e dunque nell’intervallo fra i primi due bicchieri. Lo Shulchan ‘Arukh, pur non vietando di aggiungerne altri, codifica che durante la recitazione del Magghid “è opportuno astenersene…se non per grave necessità”. Solo durante il pasto è lecito bere a volontà. Il bicchiere dovrà essere dignitoso e integro: è assai preferibile evitare il materiale monouso. Esso dovrà essere perfettamente pulito e illibato all’inizio del Seder per il Qiddush, ma in linea di principio non è necessario risciacquarlo in vista delle bevute successive. Sarà sufficiente tornare a riempirlo ogni volta, a meno che nel frattempo non vi siano entrati altri liquidi o briciole di cibo. Per questa ragione è consuetudine rilavarlo o sostituirlo prima del “terzo bicchiere”, sul quale si recita la Birkat ha-Mazòn subito dopo il pasto”. Questa è la Pasqua ebraica che siamo tenuti a ricordare. Pesach kasher vesameach. Capita abbastanza spesso che la Pasqua cristiana cada assai vicino o addirittura sia inclusa nel periodo della festa ebraica di Pesach. Ciò non fa meraviglia. L’andamento passionale delle due feste è simile: da una situazione di angoscia e di dolore si giunge al trionfo finale. La Pasqua cristiana è però, nel suo svolgimento, non un funerale, ma la celebrazione di una Vittima innocente che risorge dai morti. In Pesach l’accento è posto sulla liberazione di un popolo dalla schiavitù, non sul passato di oppressione. Nel testo dell’Haggadà, il rituale della cena pasquale ebraica, si ricorda l’aspetto doloroso di quella schiavitù, la persecuzione e l’afflizione che ne vennero. E si dice che “in ogni generazione” c’è chi “si leva contro di noi per distruggerci”. Mentre il fuoco della passione ebraica è tutto focalizzato sulla gratitudine e sulla gioia per la libertà riconquistata, nella Pasqua cristiana, al dolore per la passione e morte di Gesù in croce segue la gioia della Sua risurrezione quando le pie donne, per prime, trovano la tomba di Gesù vuota! Segue la loro gioia pasquale e l’annuncio ai discepoli. Dunque nel confronto fra le due feste (Mosè è quasi assente nella versione del racconto contenuta nell’Haggadà) si nota una scelta di tempi, emozioni e di punti di vista assai diversi: l’accento ebraico è messo sulla festa della libertà e non sulla sofferenza dell’oppressione; i miracoli (le piaghe) sono moltiplicati dall’esegesi rabbinica fino a quasi normalizzarli. La Pasqua cristiana è la celebrazione della Pasqua di Gesù, vittima per i nostri peccati e primizia con la Sua risurrezione della vita eterna per tutti i “Suoi”. Nella Pasqua i cristiani riconoscono in Gesù Risorto molto più di un normale miracolo. La Pesach non si fonda affatto sulla condizione di vittima, ridotta a un elemento fra i tanti. La Pasqua ebraica non valorizza affatto l’aspetto di “vittime innocenti” del popolo ebraico, soprattutto dopo la Shoah. La Pasqua ebraica non commemora né rimpiange “l’innocente sopportazione” degli ebrei chassidici distrutti dalla Shoah, il “nuovo Golgota” secondo le parole del Beato Giovanni Paolo II. Anche se non mancano eminenti pensatori, come Joshua Leibowitz, che sostengono l’aspetto positivo dell’essere “portati al macello come pecore”. Il tema del sacrificio e del “porgere l’altra guancia” non è un tema ebraico pasquale. Lo è semmai l’amare il prossimo come se stesso. Pesach e nessun’altra festa ebraica sono la celebrazione dello statuto di vittime: nè Channukkà né Purim che ricordano vittorie sul genocidio sempre mettendo in rilievo il miracolo della sopravvivenza. Neppure le ricorrenze più tristi come Kippur o Tishà beAv (in cui si ricorda la distruzione di Gerusalemme) hanno al centro una condizione passiva di vittime. Sono semmai la lucida e razionale analisi degli errori e dei peccati commessi che giustificano la punizione divina. Dunque, la Pasqua ebraica non commemora né celebra vittime e martiri. Se al centro della festa cristiana Gesù, il Figlio del Dio Vivente, muore sulla croce, nel racconto ebraico è importante che Isacco non perisca ma sia salvato prima di essere immolato. La storia sacra ebraica celebra il superamento di prove e l’arrivo alla terra promessa, e insegna l’obbligo di mantenere la purezza religiosa. Quando nella Bibbia i profeti minacciano spesso dolori e parlano di Israele come del “servo sofferente”, per gli Ebrei lo fanno in vista di una restaurazione messianica del regno di Israele che dovrà avvenire nel tempo e nel mondo (qui sulla Terra) e non in una condizione trascendente o su un altro pianeta. Nella storia ebraica la prima forte menzione di martiri, cioè di giovani fedeli che muoiono per non rinnegare la fede, compare nel secondo libro dei Maccabei, risalente al I-II secondo Secolo a.C.. Nella storia ebraica i martiri (i caduti per la “santificazione del Nome”) non vengono celebrati da santi. Gli Ebrei non hanno agiografie e martirologi, e preferiscono ricordarli per le loro altre virtù. Com’è la storia di Rabbi Akivà, ucciso atrocemente dai romani, ma che è importante nel mondo ebraico soprattutto per il suo sapere e la sua autorità rabbinica. Dunque, se non vi è affatto nell’ebraismo una vocazione vittima ria, ha altrettanto poco senso parlare di “religione olocaustica”, sgradita espressione dei negazionisti. La Pasqua ebraica è fortemente legata all’idea positiva del realizzarsi dell’Uomo nella vita e indica come modello non la sofferenza per la fede, non l’ascetismo o il martirio, ma la “gioia” della vita buona e piena di senso vissuta secondo le sue regole naturali. D’altra parte ebrei asceti e martiri insieme a santi cristiani interessati ad annunciare il Vangelo di Gesù affermando con l’esempio i loro ideali nel mondo, laicamente, sono sempre esistiti. Ma, nonostante la parentela d’origine, l’orientamento antropologico fondamentale delle due religioni, a Pasqua come in tutte le altre feste, è assai diverso: ricordarselo è la base indispensabile di ogni dialogo costruttivo. Per i cristiani, le laudi della Passione di Gesù, la Messa In Coena Domini, la pietà popolare con la processione mattutina del Cristo Morto e della Madonna alla ricerca del Figlio, e il Sabato della Madre nel Triduo della Settimana Santa introducono l’Evento focale per l’Umanità intera: la Domenica di Risurrezione del Signore, la Pasqua di Gesù che distrugge la morte per sempre. La tomba è vuota. Perché cercate tra i morti il Vivente? Nel ricordo sempiterno delle 309 vittime del terremoto di L’Aquila si rinnova in Abruzzo, per i cristiani di rito cattolico, il Triduo pasquale di celebrazioni che precedono la solenne Grande Veglia del Sabato Santo (la “madre” di tutte le veglie) e la festività della Santa Pasqua di Risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo. A Teramo, Giovedì Santo 5 Aprile, dopo la solenne Messa Crismale celebrata dal Vescovo Mons. Michele Seccia in Cattedrale, l’unica Messa consentita è quella della sera, In Coena Domini, giorno della istituzione della Eucarestia e del Sacerdozio. In queste ore si meditano le parole di Gesù nell’Ultima Cena (Gv 13-17), si adora il Santissimo Sacramento e si visitano le chiese cittadine fino alle ore 24. Il Venerdì Santo 6 Aprile, In Passione Domini, per antichissima tradizione la Chiesa non celebra la Messa. Dopo la Via Crucis, si fa soltanto la Commemorazione della Passione del Signore, nel contesto della quale soltanto è possibile ricevere la Comunione. Neanche il Sabato Sato la Chiesa celebra la Messa. Solo nelle ore notturne si celebra la Grande Veglia Pasquale, agli orari stabiliti da ogni singola Chiesa. Nella chiesa di San Domenico a Teramo, i frati francescani dell’Immacolata, Sabato Santo 7 Aprile alle ore 17, celebrano l’Ora della Madre, rito di origini orientali che contempla la fede di Maria Santissima in attesa della Risurrezione di Gesù. A Teramo nelle ore mattutine del Venerdì Santo si svolge la tradizionale processione della “Desolata”, la devota rappresentazione paraliturgica della Madre che va alla ricerca angosciosa del figlio condannato a morte. La processione si avvia con la sola statua dell’Addolorata per il giro delle Sette Chiese. Inizia dalla Cattedrale aprutina e termina all’Annunziata dove trova il Cristo Morto giacente su un’artistica bara. È una commovente manifestazione di religiosità popolare. Con gli uomini che indossano la tunica nera e recano la croce, mentre le donne velate e in gramaglie trasportano la statua della Madonna. Nella processione serale del Cristo Morto sono presenti molti Simboli di Passione, sia statuari sia viventi. Quelli statuari, oltre al Cristo Morto e all’Addolorata, rappresentano la Fede, il Calvario, la Corona l’Angelo, la Colonna, la Croce e S. Michele Arcangelo; quelli viventi sono: La Veronica e la Maddalena, sette Addoloratine che raffigurano le “sette spade” della Madonna, un gruppo numeroso di Pie Donne e di “Cantarine” che intonano i canti popolari, detti “lamentele”. Tutto ha inizio nella notte tra Giovedì Santo e Venerdì Santo. Le Arciconfraternite dei Cinturati e di S.S. Annunziata guidano rispettivamente le solenni processioni della Madonna Addolorata e del Cristo Morto. La prima, come vuole la tradizione da 751 anni a questa parte, detta anche “penitenziale”, è guidata dall’Arciconfraternita dei Cinturati istituita nel 1260. La statua della Madonna, portata a spalla da sole donne, effettua un percorso di 5.5 km tra le vie della città di Teramo con “soste” nelle sette chiese cittadine in ricordo del dolore di Maria Santissima nella ricerca del figlio Gesù tra le vie di Gerusalemme (cf. film “The Passion” di Mel Gibson, Usa 2004). La processione, alla quale partecipano i rappresentanti delle istituzioni laiche e il popolo dei fedeli, parte alle ore 4 del mattino di Venerdì Santo (nella notte tra il 5 e il 6 aprile 2012) fino alle ore 7, conclusa dalla solenne benedizione di Sua Eccellenza Monsignor Michele Seccia, vescovo della diocesi Teramo-Atri. Venerdì Santo, nel pomeriggio del 6 aprile, si svolge la solenne processione del Cristo Morto, guidata dall’Arciconfraternita di S.S. Annunziata fin dal 1852, anno in cui la signora Bonolis donò il manto della bara per il baldacchino del Cristo. La processione del popolo cristiano con i simboli della passione e morte di Gesù, è accompagnata dalle musiche di una banda musicale (in esecuzione per le vie cittadine fin dalle ore 16) e dal Coro della Cattedrale di Teramo. La processione del Cristo Morto, il cui baldacchino è portato a spalla dagli artigiani, ha inizio alle ore 18:30 e si snoda per le vie cittadine in un percorso di circa 4 Km fino al rientro nella chiesa della S.S. Annunziata con solenne benedizione del Vescovo. In queste processioni, soprattutto nella Via Crucis, l’interazione tra elementi tradizionali e moderni, nella suggestione delle scenografie, dei costumi e delle colonne sonore, vogliono proporre una rilettura originale della Passione di Gesù in 14 scene. I primi “quadri” fanno rivivere alcuni momenti della vita pubblica di Gesù: dal Battesimo di Giovanni Battista ai Suoi miracoli ed insegnamenti. Le scene successive fanno ripercorre il complotto dei Sommi Sacerdoti del Sinedrio, l’Ultima Cena e la cattura all’orto degli ulivi, per poi passare ai processi davanti a Caifa, Erode e Pilato. Di grande impatto scenografico ed emotivo le ultime scene che segnano il dolore: dal Calvario, al Rimorso di Giuda, dalla Morte in Croce di Gesù, fino alla Deposizione tra le braccia della Madonna. La processione del Cristo Morto che si svolge a Chieti il Venerdì Santo, è una delle più suggestive e famose d’Abruzzo. Curata dall’antica Arciconfraternita del Sacro Monte dei Morti, vive da secoli con la stessa sacra e solenne drammaticità. All’imbrunire, per le vie cittadine illuminate dalla fiamma di alti tripodi e dai ceri di migliaia di fedeli, avanzano distanziati in mezzo al corteo i Simboli della Passione, artistiche statue lignee realizzate nel 1855 (il gallo, l’Angelo, la scala, le tenaglie, le lance, la borsa e la Croce appena sbozzata). Gli appartenenti alle diverse Confraternite indossano l’abito del proprio sodalizio e procedono incappucciati a passo cadenzato. Dai balconi e dalle finestre che si aprono lungo il percorso della processione pendono coperte di seta (in tutto l’Abruzzo). Il Cristo Morto (opera d’arte del Seicento) coperto da un preziosissimo velo bianco, giace su una bara a volta da un drappo di velluto nero finemente ricamato in oro. È portato a spalla dagli “incappucciati” dell’Arciconfraternita della Buona Morte. Segue l’artistica e molto espressiva statua dell’Addolorata, con abito di seta nera ricamato a fili d’oro. Un fremito di commozione vibra nell’anima di ognuno al canto grave e solenne del Miserere composto dal Maestro teatino Saverio Selecchy (vissuto tra il XVIII e il XIX sec.). Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam: è una struggente melodia cantata soltanto da centinaia di voci maschili, sorretta dal suono di centocinquanta violini. La potenza corale e la dolcezza melodica creano un’atmosfera di profonda mestizia. Anche a Lanciano la Processione del Cristo Morto si svolge in due tempi. Alcune caratteristiche mostrano la sopravvivenza di elementi scenografici tipici della drammaturgia sacra medievale. La sera del Giovedì Santo inizia una processione notturna che sosta nelle chiese in cui sono stati allestiti i sepolcri. Vi partecipano incappucciati e vestiti con la tunica nera, su cui spicca il collare d’oro, i confratelli dell’Arciconfraternita della Morte e Orazione. Nella processione serale del Venerdì Santo, come altrove, compaiono i Simboli o Misteri, e non mancano i canti corali, le marce funebri e il Miserere. La statua del Cristo Morto, che secondo una leggenda è stata scolpita da una monaca clarissa durante una visione mistica, viene portata a spalla da dodici confratelli dell’Oratorio di S. Filippo Neri, incappucciati e inguantati. Ma di rilevante singolarità è la figura del Cireneo, tradizionalmente impersonato da un membro dell’Arciconfraternita, il cui nome è noto solo al priore, il quale incappucciato e a piedi scalzi porta a spalla per tutto il percorso una grande e pesante croce di legno. Dopo una lunga interruzione, nel 1954 è stata ripristinata a L’Aquila, ma con linguaggio artistico contemporaneo, cui ha contribuito anche il pittore Remo Brindisi, l’antica tradizione della Processione di Cristo Morto. La scenografia è resa grandiosa da centinaia di personaggi in costume che sfilano con i simulacri, i trofei, le statue, le torce e i lampioni, mentre il canto del Miserere eseguito da un gruppo corale accompagnato da un’orchestra di archi dona una drammatica solennità alla Sacra Rievocazione. In provincia di Pescara meritano di essere ricordate la processione di Moscufo per il pregio e la quantità dei gruppi statuari, conservati nell’apposita chiesa della Pietà, e quella di Penne istituita nel 1570 che, oltre ad esibire una preziosa coperta ricamata del 1860, sulla quale giace il Cristo Morto, si caratterizza sia per i simboli tradizionali, riuniti in corpo unico detto “Statua della Passione”, sia per il tamburo, in uso in tutta la zona vestina. Detto “Lu tamorre scurdate” perché privo della corda vibrante. Al calar del sole il corteo, preceduto dal suonatore del tamburo, avanza, lineare e composto, con passo scandito dal ritmo dei battiti lenti e sordi, che creano un’atmosfera di lutto. Odori d’incenso, canti corali e preghiere che si diffondono per le antiche pittoresche vie cittadine, illuminate dai ceri dei fedeli, conferiscono solennità al sacro rito. A Villa Badessa, una frazione del comune di Rosciano, nel pescarese, vi è insediata dalla prima metà del XVIII secolo, una piccola colonia italo-albanese. Ancora oggi gli albanesi di Villa Badessa conservano incorrotto il loro idioma e continuano a seguire la liturgia di rito greco-bizantino. Nei riti e nelle processioni della Settimana Santa, non compaiono statue e altri simboli ricorrenti nelle celebrazioni cattoliche, ma sono presenti antiche icone. Le cerimonie hanno inizio con gli “Enkomia”, il pianto delle donne durante la veglia notturna sulla Icona della deposizione di Cristo. Nelle ore antelucane della Domenica di Pasqua, il Papas, che reca l’Icona della Resurrezione, esce in processione fuori della chiesa, seguito dai fedeli che illuminano con candele le ultime ore della notte. In grande silenzio, tutti insieme si volgono verso oriente in attesa dell’alba. Al sorgere del sole il Papas canta il primo verso del Vangelo secondo Giovanni e, intonando canti di gioia, rientra in corteo nella piccola chiesa. Sulmona, l’antica capitale dei Peligni, dà vita, durante la Settimana Santa e nel giorno di Pasqua, a sacre celebrazioni che rappresentano con coinvolgente impatto emotivo il dramma della morte e la gioia della resurrezione. I costumi indossati dalle Confraternite della Trinità e di Santa Maria di Loreto, i portatori di lampioni che procedono con passo strisciante, i cantori del Miserere che invece avanzano gomito a gomito con andatura oscillante lateralmente (“la ‘nnazzecarelle”) e tutto lo spettacolare apparato coreografico, conferiscono al rituale drammatico della processione del Cristo Morto una solenne grandiosità. Ma la rappresentazione più importante per i sulmonesi e per i forestieri che vi assistono numerosi, è quella nota come “La Madonna che corre in piazza” che si svolge la Domenica di Pasqua. Dall’antica chiesa medievale di Santa Maria della Tomba esce la processione con le statue di Cristo risorto, di S. Giovanni e di S. Pietro, portate dai confratelli del sodalizio della Madonna di Loreto, che indossano il caratteristico mantello verde su tunica bianca. La statua del Cristo Risorto si ferma sotto l’arco centrale dell’antico acquedotto, al limite della bella e luminosa piazza Garibaldi. Le statue di S. Giovanni e di S. Pietro proseguono lentamente e, separatamente, si dirigono verso la chiesa di S. Filippo Neri, dove si trova chiusa la statua della Madonna vestita a lutto, straziata dal dolore per la perdita del Figlio diletto. Prima l’uno, poi l’altro, i due Santi bussano per annunciare alla Madonna che Cristo è risorto. Il portale non si apre. Al terzo tentativo fatto da S. Giovanni, la porta si apre ed appare la Madre vestita di nero che stringe un fazzoletto bianco nella mano destra. Esitante e quasi incredula, come chi teme di andare incontro ad una delusione, si avvia pian piano, seguita dalle altre due statue, lungo la piazza. A circa metà percorso, i portatori sollevano la statua della Madonna, a significare il tentativo di chi si protende sulla punta dei piedi per meglio vedere. Ormai convinta di aver visto il Figlio risorto, si lancia verso di Lui in una corsa frenetica, lascia cadere il mantello nero e il fazzoletto bianco, per subito apparire splendidamente vestita di verde, mentre nella mano destra ora regge una rosa rossa. Allo stesso istante da sotto il piedistallo si alzano in volo dodici colombi bianchi. Le campane suonano a festa e intanto si ricompone il corteo con in testa le statue del Redentore e della Madonna appaiate, seguite da quelle di S. Giovanni e di S. Pietro. La figura della Madre, in abito verde che corre gioiosa verso il Figlio trionfante sulla morte, è senza dubbio un’evidente allegoria della “Speranza”. Non è azzardato il paragone con la famosa e celebre statua della “Macarena”, la Nostra Signora della Speranza, che si venera a Siviglia, dove tra una folla di penitenti, sfila durante la Settimana Santa, vissuta, anche lì, con grande fervore e devota animazione. Meno celebri, ma non meno suggestive per religiosità e per carica emotiva, sono le sacre rappresentazioni dell’incontro della Madonna con il Figlio risorto, che si svolgono a Lanciano, nel chietino, a Corropoli in provincia di Teramo, rispettivamente nel giorno di Pasqua e
nel Martedì di Pasqua, “Il Bongiorno”: un’antica tradizione non religiosa in uso nel paese di Pianella, in provincia di Pescara. È un’usanza che trae origine dall’omaggio che i signorotti Longobardi pretendevano dai propri vassalli. Per tutta la giornata di Pasqua e durante la notte che precede il Lunedì dell’Angelo, un’allegra brigata di cantori accompagnati da suonatori di trombe, tamburi e piatti, gira per le vie del paese, portando il saluto del “Buongiorno” sotto le finestre dei cittadini a cominciare da quelli più importanti, come il sindaco ed altre autorità. I canti, che sono spesso improvvisati ed adatti al personaggio a cui è’ rivolto il saluto, possono essere elogiativi e bene auguranti, ma anche scherzosi e ironici, comunque tutti accettano le burle con molta disinvoltura, anzi sono lieti di offrire dolci e bevande. Nelle ultime edizioni, con i cantori e i suonatori in costume medievale, la manifestazione viene proposta come momento di rievocazione storica ed è considerata a buon diritto un’autentica espressione di cultura popolare. La tradizione abruzzese e i riti della Settimana Santa, tra fede e devozione popolare, sono densi di significati. Ogni Domenica è Pasqua di Risurrezione, per cui questi riti e queste tradizioni richiamano alla memoria non una semplice Commemorazione di un fatto storico accaduto a Gerusalemme 1972 anni fa, ma la sconfitta di ogni male, del gossip, del chiacchiericcio, della morte, dell’inciucio, del malaffare, della crisi economica e l’inizio della Vita Nuova in Cristo Risorto, Primizia della Fede e della Risurrezione della carne. Beato chi non si scandalizza della Croce di Nostro Signore! Questa è la Fede del popolo cristiano.
Nicola Facciolini
Fatto storico accaduto a Gerusalemme 1982 anni fa.