Nel 2008 la sua città natale, Paganica, le dedicò una rassegna con festeggiamenti durati due giorni. All’evento contribuirono l’Accademia dell’Immagine e l’Istituto Cinematografico Lanterna Magica, nelle cui teche sono conservati vari film da lei interpretati.
Il suo ruolo più celebre come Elvy, fidanzatina di Alberto Sordi, nel mitico “Un americano a Roma”.
Ma quella di Maria Pia Casilio è stata una carriera molto lunga, con 150 film all’attivo, dopo la scoperta, a soli 17 anni, da parte di Vittorio De Sica, che la volle in “Umberto D”.
Seguirono “Pane Amore e fantasia”, “Pane amore e gelosia”, “Totò e il medico dei pazzi”, “Totò Peppino e i fuorilegge”, “Totò a colori”, “Totò Story”, la commedia musicale di Garinei e Giovannini “La padrona di Raggio di luna”, “I pappagalli” con Aldo Fabbrizi, “Racconti Romani” con Giovanna Ralli e tanti altri, fino ad arrivare a “Noi uomini duri “con Renato Pozzetto ed Enrico Montesano ed il cameo in “Tre uomini ed una gamba”, con Aldo Giovanni e Giacomo.
Recentemente era stata ospite su Rai 2 alla trasmissione di Carlo Conti “I migliori anni”.
Famosa per le sue caratterizzazioni di ragazza di provincia dal viso grazioso, i modi spiccioli e la voce nasale, la Casilio, nonostante una fortunata esperienza in Francia (“Teresa Raquin”, 1953), non è riuscita mai del tutto ad affrancarsi dai ruoli di comprimaria, che pure ha interpretato con squisita vivacità.
Le sue cose migliori, io credo, nel ventennio ’50-70, in “Stazione Termini” (1953), con Montgomery Clift e Jennifer Jones, “Il giudizio universale” (1961) e “Lo chiameremo Andrea” (1972).
Dalla metà degli anni Sessanta aveva abbandonato lo schermo, salvo sporadiche apparizioni, per dedicarsi alla famiglia: aveva sposato infatti il grande doppiatore Giuseppe Rinaldi, e da questa unione è nata la figlia Francesca, anche lei attrice.
E’ morta il giorno di Pasquetta, all’età di 77 anni e sessanta anni dopo il suo debutto al cinema.
In fondo con lei se ne va un pezzo della nostra storia sul grande schermo, una storia di buoni sentimenti e volti puliti, che riescono, fra le avversità, a far trionfare il bene.
E se Umberto D è quel capolavoro che tutti dicono, ciò non si deve solo a De Sica e Zavattini o al protagonista non-attore Carlo Battisti, ma anche a lei, indimenticabile nella scena del risveglio, dolce ed ingenua tanto da stemperare, con la sua fresca generosità, la crudele lucida senza compromessi sentimentali, fuori dalla drammaturgia tradizionale, dell’intero impianto.
E, in fondo, anche se usata per lo più come comprimaria, a riguardare oggi i suoi film (di cui una ventina almeno degni di nota, con la regia di De Sica, Steno, Scola e tanti altri), si vede quando si sia caratterizzata per una recitazione nel contempo spontanea e riflessiva, che offre una vasta gamma di emozioni, dalle più leggere alle più profonde, ad un pubblico che sapeva ancora sperare e sognare.
A ben vedere lei resta una delle più salde icone della commedia all’italiana, filone che si discosta nettamente dalla commedia leggera e disimpegnata e dal filone del cosiddetto neorealismo rosa, in voga fino a tutti gli anni cinquanta, poiché, partendo dalla lezione del neorealismo, si basa su una scrittura più schiettamente aderente alla spesso difficile realtà.
Il genere inizia a declinare attorno alla metà degli anni Settanta, quando l’irruzione del terrorismo e della crisi economica fanno inclinare a visioni più crude e drammatiche della realtà. E lei si ritira dallo schermo, occupandosi di doppiaggio o comparendo in qualche raro cammeo.
Ciò che da aquilano e cinefilo mi duole, è che il cinema contemporaneo non si è più accorta di lei, che sarebbe stata protagonista perfetta, in panni maturi o senili, di tutta quella serie di commedie centrate sulla famiglia, sulle sue molteplici declinazioni e varianti (rapporti genitori-figli, crisi sentimentali e, ultimamente, amori adolescenziali…), nonché sulle difficoltà economiche e affettive di personaggi smarriti e infantili, che rappresentano la nostra produzione di oggi.
Dibattendoci in complesse e sempre più stringenti difficoltà economiche, con una Regione, come sottolineava anche di recente l’assessore alla cultura del comune de L’Aquila, Stefania Pezzopane, del tutto assente, non avremo certo, a breve, la possibilità, come Istituto Lanterna Magica, di ricordarla, ma speriamo almeno, a breve, di aver modo, almeno, di curare la proiezione di “Teresa Raquin”, film del 1953, diretto dal grande da Marcel Carné, tratto dall’omonimo romanzo di Émile Zola, adattato per il cinema dal Charles Spaak con un’ambientazione contemporanea, che la vede superba protagonista, nel ruolo di Georgette, la bonne, non sfigurare fra due grandi: Raf Valone e Simone Signoret. Magari inserendolo in “Frammenti di donna”, rassegna che, per la seconda edizione, prenderà l’avvio a fine estate, e si propone di analizzare il femminile e la sua complessità a tutto tondo.
Carlo Di Stanislao
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