Saviano lo ha fatto due giorni fa su twitter e Fazio ieri sera, attraverso l’incontenibile Roberto Benigni, suo ospite a “Che tempo che fa”.
Così, finalmente, ora sappiamo che si chiamerà “Quello che non ho”, dal titolo di una canzone di Fabrizio De André contenuta nell’album “L’Indiano” del 1981 e sarà un programma visibile sugli schermi del terzo polo televisivo da maggio, quando Fazio ritroverà Paolo Ruffini, per tanti anni suo direttore a Raitre ed oggi passato (con molti) a La7.
Il programma dovrebbe andare in onda tra il 13 a il 15 maggio, suddiviso in due puntate che, se tutto andrà bene, potrebbero diventare tre.
Il nuovo show sarà ambientato nell’Officina grandi riparazioni di Torino, spazio un tempo adibito alla riparazione delle locomotive e, quasi certamente, replicherà il successo di Vieniviaconme, che complessivamente ebbe una media di 8 milioni e 765mila spettatori con il 29,19% di share.
Ciò che resta da capire e se ci sarà la collaborazione di Luciana Littizzetto: “Sentiamo l’urgenza di farlo, ne abbiamo una gran voglia, anche se stiamo ancora lavorando su alcune idea” ha rivelato la stessa comica torinese.
Sempre da ieri e dagli stessi protagonisti, sappiamo che Fazio e la Litizzetto sono stati “provinati” da Allen per il suo ultimo film girato a Roma ed in uscita da venerdì prossimo, che vede fra i protagonisti Benigni, si intitola “To Rome With Love”, è distribuito in 600 copie da Medusa, che ne è co-produttrice e vanta un cast all-star con, in testa, Alec Baldwine Penélope Cruz.
Del film non sappiamo nulla, tranne che si articola su quattro storie, che quella di Benigni parla di un ometto qualunque costruito per il successo e che a Fazio e alla Litizzetto il provino è andato male.
La prima romana, sabato scorso, pare non abbia convinto e si è parlato di un film piccolo e molto sbadato.
Su Il Messaggero si rimprovera al maestro americano, il fatto di non aver tenuto conto che a Roma vive e lavora una nuova generazione di attori che aspettava solo di essere portata al diapason da un genio della commedia.
Ma questo non accade come non accade, spesso, durante il film, di ridere davvero e di riflettere su uno scontro di mondi e di mentalità, una sfida tra culture e scuole di recitazione elettrizzata dalla fascinazione reciproca che scorre da sempre fra i nostri due paesi.
Insomma dal regista che ci ha appena incantato con “Midnight in Paris” ci si aspettava qualcosa di più: una nuova mappa aggiornata delle corrispondenze amorose fra Roma e New York. Cosa che, scrivono, non accade in questa pellicola.
“Al grande regista manca l’ispirazione – scrive Paolo Mereghetti su Cortrriere ed aggiunge che, nel film, c’è troppo e troppo poco. Quattro episodi e niente di veramente travolgente, qualche buona battuta, ma non la scintilla della genialità”. Insomma i critici hanno demolito la pellicola, definendola minima rispetto agli altri film di Allen ambientati in Europa e la associandola a “Sogni e delitti”, la prova di regista “più deludente di tutti”.
In verità, almeno a leggerne il plot (per quanto trapelato), a me l’operazione ricorda quella di “Melinda and Melinda”, del 2004, con una incredibile Radha Mitchell ed uno sviluppo del tema di come comicità e tragedia si mescolino nella vita e che, visto che la vita altro non è che una rappresentazione, la quale avanza inesorabilmente verso la fine, essa va raggirata, goduta, danzata come in un caleidoscopio, dove le coppie si formano e si sciolgono, dove l’happy-end è raro e il caso la fa da padrone.
D’altra parte, negli ultimi tre lustri, in tutti i film di Allen, in platea si sorride, ci si immalinconisce, ci si sente parte della rappresentazione esistenziale, ma si vorrebbe anche dal nostro una capacità di sorprendere che va invece esaurendosi in una vena un po’ di maniera, scontata e rassicurante, pur se di alto artigianato.
E poi, come scrive Loredana Aiello, un film di Woody Allen lo si riconosce sempre, sin dalle prime inquadrature, ha uno stile unico; non delude mai del tutto le aspettative, né le appaga totalmente.
Osservando diacronicamente la filmografia di Allen e mettendo da parte quelle pellicole che in modo programmatico volevano proporsi come più “Bergman-ianamente” impegnate quali Interiors (Interiors, 1978), Settembre (September, 1987) e Un’altra donna (Another Woman, 1988), notiamo che, a partire da Melinda e Melinda del 2004, la sua verve comica comincia a scemare, lasciando spazio ad una visione esistenziale leggermente più cupa.
Con il penultimo Midnight in Paris, Allen ritrova la sua tradizionale leggerezza e ilarità, che nell’ormai senile riflessione si vela di una nota inevitabilmente nostalgica. Ritornano tutti i tòpoi e le ossessioni dell’opera del signor Konigsberg: relazioni di coppia assolutamente inesplicabili, la morte e i suoi antidoti (farmaci, sesso e terapia), le citazioni colte; ma nella magica Parigi i sogni, le aspirazioni trovano un modo per diventare reali: i miti artistici del regista diventano, da riferimenti verbali, personificazioni, quasi allegoriche, di modelli morali.
E sono certo che ora con “To Rome with Love”, siamo nella stessa atmosfera.
Carlo Di Stanislao
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