Non solo si voterà a L’Aquila (come in molte altri comuni italiani) per il primo turno delle elezioni del sindaco, ma il prossimo 6 maggio sarà giornata cruciale per le presidenziali in Francia, vedrà il voto per il nuovo governo nella difficile Grecia ed ancora quello per il referendum per le nuove cinque provincie in Sardegna, tanto inutili e surrettizie, quanto difese dai residenti, nonostante i tentativi di ridurre la spesa pubblica di ben 4 miliardi, per non aumentare l’Iva di due punti, da parte del governo Monti.
Si perché nell’Italia degli sprechi si creano anche provincie tanto inutili quanto dispendiose e che dovrebbero indignare l’opinione pubblica non meno delle auto blu e dei tanti privilegi (e ladrocini) della cosiddetta “casta”.
E non è tutto circa le stranezze di questa nazione che, in occasione del 25 aprile, decide, perché a farlo debbono essere le organizzazioni di ex-partigiani, di non invitare alle celebrazioni né il sindaco di Roma né il governatore del Lazio, costringendo Napolitano ad una ennesima acrobazia con un invito personale, domani al Quirinale, per Alemanno e la Polverini.
Tornando alla Sardegna, come già detto, si voterà in un’unica giornata, a partire dalle ore 6:30 del mattino fino alle ore 22:00 della sera. Questo dopo che si è deciso di rinunciare all’election day, cioè al votare lo stesso giorno delle amministrative (che in Sardegna riguarderanno parecchi comuni), più corretto dal punto di vista etico, ma assai meno conveniente da quello finanziario.
I quesiti referendari per ora sono dieci: cinque abrogativi e cinque consultivi, ma potrebbero diventare sei se il TAR accettasse il ricorso di Roberto Deriu, presidente dell’Ups e della Provincia di Nuoro. Fra i quesiti che potrebbero essere considerati non ammissibili quelli che puntano ad abrogare i nuovi enti intermedi di Olbia-Tempio, Ogliastra, Medio Campidano e Carbonia-Iglesias.
Com’è noto, contro i nuovi e i vecchi enti intermedi si è scatenata da tempo un’offensiva generale tanto che le Province sono diventate l’emblema dello spreco delle risorse destinate ai costi della politica.
Ma, secondo un dossier della Unione Delle Provincie Sarde (UPS), mentre le Regioni hanno un bilancio complessivo di 168 miliardi (8 quella sarda), di cui 116 per la Sanità e i Comuni costano 72 miliardi, le Province “solo” 11, vale, vale a dire l’1,35 per cento del totale.
Va anche detto, ad onor del vero, che comunque vadano le cose, ci si potrebbe risparmiare la spesa di un referendum del tutto inutile, poiché la battaglia è comunque spacciata, in quanto, dopo il decreto Monti, gli enti intermedi saranno eletti direttamente dai consigli comunali del territorio tra i loro membri, avranno al massimo dieci consiglieri e neanche un assessore.
E’ dalla scorso luglio che si parla del necessità, anche dal punto di vista simbolico, come emblema della lotta agli sprechi e ai costi della politica, di abolizione delle Provincie.
E sulla conclamata obsolescenza delle Province non è necessaria nessuna altra dimostrazione, se è vero che già un secolo fa qualcuno ne sottolineava l’inefficienza e, a volte, l’inutilità.
Meglio pertanto sarebbe, in un futuro molto prossimo e finalmente intelligente e costruttivo, mettere al centro della questione una buona riflessione sul vero nodo della vicenda amministrativa: l’articolazione del sistema degli enti territoriali.
Dove, fino a prova contraria, sono più che sufficienti i due livelli costituiti dalle regioni, con funzioni legislative e di programmazione e comuni, nella direzione di una sempre più spinta caratterizzazione sussidiaria.
Tra questi due livelli sarebbe auspicabile la creazione di aggregazioni spontanee, temporanee e flessibili, di comuni (consorzi, associazioni, unioni) per gestire servizi o governare problematiche che, a secondo delle esigenze e caratteristiche, possano trovare soluzioni adeguate attraverso un dimensionamento differente caso per caso.
Da tempo, ormai, le nostre città sono asfittiche, incapaci di crescere e non in grado di competere con le rivali europee e mondiali.
Nei loro territori non governano i processi reali di trasformazione sia perché gli amministratori non hanno i poteri per farlo, sia perché è stato molto più comodo limitarsi a subirli.
In questi anni non abbiamo assistito alla nascita delle città metropolitane, ma certamente all’affermarsi di conurbazioni caotiche, informi, prive di razionalità e tutto questo anche senza disastri naturali.
La realizzazione della città metropolitana (o come altro la si voglia chiamare, in sostanza la trasformazione territoriale e amministrativa delle Città, che da noi si chiama, vanamente e senza iniziativa concreta alcuna, “Citta-Territorio”) è forse oggi l’ultima occasione per invertire la marcia e ricominciare a guardare seriemente in avanti.
Il resto è solo guardarsi l’ombelico e riempirsi la bocca di unitile fiato; quel fiato privo di sostanza, tanto lungamente adoperato dai partiti e dai politici, che ha generato il forte vento antipolitico che oggi spira in tutta Europa ed è vorticante in Italia.
Un vento che spira con la forza di un turbine, portando l’eco del dissenso popolare, delle polemiche sui finanziamenti ai partiti, fino alle orecchie di Napolitano che, a Beppe Grillo in salita continua con il suo “Cinque Stelle” e che evoca “pene esemplari”, risponde dicendo: “Il marcio si deve estirpare, ma guai a fare di tutte le erbe un fascio, a demonizzare i partiti, a rifiutare la politica”.
Nel vortice della più grave tempesta della sua storia, la Lega, che di antipolitica e populismo si è nutrita, ha intanto consegnato alla presidenza della Camera 76 firme contro l’assegnazione della proposta di legge Alfano-Bersani-Casini sul controllo dei bilanci dei partiti in sede legislativa, alla commissione Affari Costituzionali di Montecitorio, dopo il voto dell’Aula della Camera che aveva approvato l’iter rapido di un provvedimento che non cambia proprio nulla.
Sicché sempre più elettori di destra e sinistra si dichiarano disgustati da una partitocrazia senza distinzioni ideologiche e con un solo, comune, formidabile appetito.
Nel primo libro del De Brevitate Vitae Seneca dice al suo immaginario interlocutore che la vita è lunga abbastanza se vissuta con diligenza e non sprecata nella indifferenza o in cupidi tornaconti personali.
Ma diviene brevissima se non si fanno le cose più giuste e non ci si batte per la crescita delle comunità.
In effetti sono in molti, oggi, che vogliono esprimere il loro diritto di dissentire da condotte immorali e scelte politiche che fanno solo gli interessi dei più ricchi e potenti. Politiche come quelle della Merckel e di Sarkozy, che piacciono ai ricchi ma non hanno più consenso popolare, che imprimono strette ai più poveri senza nessun vero spazio per la crescita. E, credo, non sia un caso il voto pari al 18,5% alla Le Pen e la caduta del governo in Olanda, da parte del leader di estrema destra Geert Wilders, che non ha appoggiato l’esecutivo e ha definito “troppo gravoso” per la spesa sociale il pacchetto di misure approvato dagli altri partiti della coalizione. Una coalizione di minoranza che ha guidato i Paesi Bassi per 584 giorni, con l’appoggio determinante del partito del leader razzista ed islamofobo Geert Wilders e che si è dissolta in un istante a causa del pacchetto di misure approvato dai partiti governativi, con un valore di quasi 15 miliardi, con un incremento dell’iva dal 19% al 21%, l’innalzamento dell’età pensionabile a 66 anni a partire dal 2015 (e non più dal 2020 come deciso in precedenza) e poi l’introduzione di un ticket sanitario di 9 euro per ogni prescrizione medica e l’abolizione dei prestiti a fondo perduto per gli studenti. Un monito ben preciso al governo Monti e a tutta la politica che fa finta di essere latiti tante e col suo comportamento, rende attualissima la definizioni proposta da Max Weber, che sosteneva che essa, la politica, non fosse altro che mera aspirazione al potere e monopolio legittimo all’uso della forza; ovvero qualcosa di molto diverso dalla idea aristotelica che la vedeva come sistema amministrativo della “polis” per il bene di tutti. Bruno Leoni, oltre cinquant’anni fa, si domandava: “Ma come è possibile che un cittadino voglia delegare le sue scelte ad un politico che dei mestieri degli altri conosce poco o nulla?”. Mai domanda è stata tanto attuale. Il fallimento della Grecia è forse la dimostrazione più eclatante di quanto la “politica sia spesso il problema e non la soluzione”. Nonostante tutti i fallimenti del collettivismo – appurati e dimostrati dalla storia nel solo Novecento – stare ad ascoltare un mucchio di fanfaroni – la casta appunto – come fossero degli oracoli, come se rappresentassero la soluzione ai problemi che essi stessi han creato suona quantomeno paradossale. Se le opinioni rimangono opinioni, i numeri sono incontrovertibili e non danno ragione a chi chiede più Stato, più interventismo, più leggi e più regole, per avere una vita più lunga e migliore. Nel 2008, Antonio Forcillo, nel libro “E fu antipolitica. Cronistoria di un percorso vero sulle vie della democrazia partecipativa” (Gruppo Albatros Il Filo), ha raccontato l’attività “antipolitica” di un collettivo spontaneo, denominatosi dei “Cittadini attivi”, che si è attivato a Bernalda, nato indipendente e votato al sociale i cui membri sono commissari che vigilano sulla democrazia, chiamando ogni cittadino alla partecipazione per realizzare un domani migliore. Battaglie sociali di interesse pubblico, nazionale e internazionale sono state il centro delle attività dei “Cittadini attivi”, che in cinque nanni, hanno indicato e realizzato percorsi esemplari, motori di comunità affini, con una consapevolezza compartecipava nettamente maggiore. E, lo scorso anno, per Chiarelettere, hanno raccontato, nel libro “Siamo in guerra. Per una nuova politica”, cosa sia l’insieme di quei movimenti spontanei che stanno emergendo ovunque sostituendosi ai partiti, dall’Islanda alla Svezia, dal Partito dei pirati tedesco agli Indignados spagnoli, fino al Movimento 5 Stelle da noi: nato in rete, senza un euro di finanziamento pubblico, con tutti i media contro, considerato, il possibile terzo polo alle prossime elezioni politiche e che già conta 130 consiglieri comunali e regionali con percentuali di voto tra il 4 e il 10% su base nazionale. Per me il “grillismo” è del tutto simile al populismo di Giannelli nel dopoguerra, ma pure mi premuro di consideralo nei valori che porta avanti, consapevole che ormai, è solo l’etica pubblica, fondata sulla laicità inclusiva dei valori religiosi, elemento essenziale per il buon [leggi tutto …] funzionamento della politica e la credibilità delle istituzioni e che il corretto equilibrio tra i poteri sia più che mai necessario per superare “l’anomalia italiana”. Una anomalia che ha costruito un panorama desolante, con politicinincapaci e corrotti al servizio della economia, lo spettro mai cancellato del “default”, lo spauracchio della secessione,i giovani senza prospettive. E mentre ancora celebriamo un secolo e mezzo dello Stato unitario, l’Italia ci appare fragile, declinante, immobile, divisa. Per superare i rischi di una decadenza del posto dell’Italia nel mondo e del nostro benessere, [leggi tutto …] dobbiamo guardare oltre le differenze politiche, sociali, territoriali, le convenienze personali e familiari, il campanilismo e il localismo. Soprattutto, dobbiamo ricominciare a sentirci una comunità, che voglia impegnarsi in un progetto condiviso. La parola “patria”, sequestrata dal nazionalismo del “sangue e suolo”, bandita dall’internazionalismo marxista, è rimasta estranea, per ragioni storiche e ideologiche, alle tradizioni culturali prevalenti nel nostro paese. Tuttavia oggi, per evitare le opposte derive del mondialismo omologante e del proliferare di egoismi di luogo e di gruppo, diventa indispensabile rifondare una identità collettiva che non si fondi su condizioni date – il sangue, il territorio, la lingua, la religione – ma su valori e obiettivi condivisi.
Carlo Di Stanislao
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