Raffaele Colapietra è una colonna portante della vita cittadina, la memoria storica della città, una inesauribile miniera di storie, fatti e curiosità da lui riportate alla luce con ricerche in archivi e biblioteche. Durante l’incontro di sabato 25 febbraio 2012 è stato presentato al pubblico il suo ultimo libro, Una lunga storia d’amore, pagine scelte di storia aquilana, Carsa Edizioni, parte di un progetto di riproposizione al pubblico della sua opera relativa alle multiformi realtà locali del mezzogiorno. E’ il libro di uno specialista, di uno studioso, rivolto a tutti i cittadini de L’Aquila, non solo agli altri studiosi.
Incoraggiata a scrivere del libro durante l’introduzione dell’incontro in cui il Professore annuncia di essere lì per una amichevole chiacchierata affinché gli aquilani possano meglio conoscere la città, nel corso degli interventi svanisce quel po’ di coraggio, presa dalla ricchezza di notizie ed informazioni che il Professore veniva offrendo al pubblico, dalla sua sbalorditiva memoria di fatti e personaggi, dalla sintassi complessa e dalla coinvolgente retorica. Torna però il coraggio di scrivere nel momento in cui mi rendo conto che quell’ascolto suscita nel pubblico presente qualcosa di più di un semplice interesse, un visibile entusiasmo. E non solo in me, la stessa reazione si legge negli occhi e nell’attenzione del pubblico. Ma come può succedere tutto questo? Osservando il Prof. R. Colapietra mentre parla in pubblico, si vede nel suo sguardo e nel suo gestire un particolare stato di grazia, una sorta di felice generosità nel comunicare agli altri il frutto delle sue ricerche, ben diverso dall’atteggiamento dell’uomo solo e pensoso che spesso incontriamo per le vie de L’Aquila.
La generosità del Prof. Colapietra nel donare il suo sterminato patrimonio culturale comunica a chi ascolta un’emozione forte che lui sicuramente in qualche modo recepisce; nasce così un reciproco scambio di sentimenti ed emozioni, che circolando fra i presenti unisce ed arricchisce dell’ orgoglio identitario, orgoglio di essere parte di una comunità non isolata, ma viva e partecipe della storia nel corso dei secoli. Uso con la dovuta cautela la parola identità, in quanto solitamente l’ affermazione di questo aspetto dell’essere cittadini di una comunità porta con sé, in modo più o meno esplicito, la presenza di una identità diversa, vicina o lontana, avversaria da disprezzare, odiare e combattere. Fortunatamente nei discorsi di R. Colapietra non si percepisce disprezzo o odio per l’altro da sé. Egli difende i valori di cittadino in modo positivo, scavando nei fatti, nei multiformi aspetti della realtà storica e ridando loro la vita, sia nelle luci che nelle ombre. E’ per questo motivo di fondo che dai suoi incontri si esce contenti, oltre che stupefatti da tanta appassionata cultura.
La lettura degli articoli raccolti nel libro Una lunga storia d’amore richiede tempo ed attenzione per il fitto intreccio di fatti e personaggi. Più immediata la comprensione dei fatti man mano che ci si avvicina all’epoca nostra, noti per esperienza, problematiche e personaggi, antenati prossimi di gente oggi conosciuta in città.
La caratteristica saliente di questi scritti di R. Colapietra è il collegamento dei fatti cittadini con la grande storia del resto dell’Italia e dell’ Europa, es.: la pagina che inizia e finisce con la data 1327 ha una tale concentrazione di nomi e fatti collegati alle nostre vicende da suscitare uno stupore simile alla “vertigine da elenco” descritta da Umberto Eco. In poche righe, a partire dalla storia delle reliquie di Papa Celestino, troviamo tutti insieme: Ludovico IV il Bavaro, Cangrande della Scala, i Visconti, Castruccio Castracani, Giovanni XXII da Avignone, Sciarra Colonna, Pietro da Corvaro, Marsilio da Padova, Guglielmo Ockham, Roberto d’Angiò, Clemente V, Filippo IV il Bello, Pierre D’Ailly, Jean Bassand, per terminare con Buccio di Ranallo, in una densa sintesi di avvenimenti storici che si apre e chiude con fatti e personaggi della nostra città.
Scorrendo le pagine del libro entriamo nel vivo della vita economica e sociale della città con una serie di elenchi di oggetti relativi alle tante attività presenti nel cuore della città; oggi si direbbe aziende, oppure piccole e medie imprese. E così apprendiamo vita e miracoli di notai, cartai, campanari, organari, allevatori di bestiame, trafficanti di panni più o meno pregiati, cappelli, penne e piume che li ornavano, droghieri e farmacisti, banche che finanziavano e prezzi di mercato. Inoltre visitiamo dimore, ammiriamo arredamenti e corredi nobiliari o della borghesia cittadina, entrando in contatto con l’evoluzione della cultura, del gusto e delle mode del vivere domestico quotidiano. E poi gli inventari delle biblioteche danno ampio resoconto dell’evolversi della cultura. Interessante la presenza in città di vocabolari francesi, spagnoli ed alemanni, dell’inglese ancora non se ne parla, e persino di un Vocabulario di diversi linguaggi novi, un’introduzione alle parlate indigene d’America.
Il capitolo sull’istruzione riguardante la presenza in città del liceo classico e dell’istituto tecnico fin dalla seconda metà del XIX secolo, descrive l’esistenza di stili di vita e tradizioni culturali rimaste a lungo sostanzialmente invariate. Parte in causa come ex alunna del liceo classico e docente dell’istituto tecnico per più di vent’anni, ho ritrovato origini, cause e conferma di gerarchie sociali, atteggiamenti culturali e regole di convivenza non scritte ma fortemente operanti nel tessuto sociale della città fino a tempi recenti. Idem per il capitolo sulla storia della chiesa e l’avvicendarsi di arcivescovi ed ordini religiosi. Subito ho rivisto l’immagine di una mia nonna, Vincenzina Alessandroni di Capestrano, rigidissima nella difesa di una singolare idea di signorilità, bigotta, severa e muta, da controriforma, vestita di nero, con il cappellino con la veletta nera, in mano un rosario di grani neri ed un libretto da messa rilegato in nero, pieno di santini e petali di fiori seccati.
Tra i personaggi ricordati in modo particolare nel testo, cito Francesco del Greco, direttore del manicomio dell’Aquila dall’agosto del 1913, a suo tempo una voce fondamentale negli studi psico antropologici centrati sull’idea di individualità, personalità o temperamento. Geniale la sua idea sul femminismo, una giusta esigenza tendente al riconoscimento pieno ed indiscusso della libera personalità della donna. “I tempi lo attueranno a nostra insaputa”, affermava Francesco del Greco. Rivolgendo l’attenzione alla presenza femminile nella vita cittadina, nei saggi di R. Colapietra si osserva che, a prescindere dalla Margherita che visse ed operò a L’Aquila per motivi familiari di ordine dinastico, le donne appaiono in relazione a conventi o a corredi matrimoniali. Roba perduta, perdute anche le parole corrispondenti, che ricordo dall’infanzia, e mai più usate, es.: cucchiarella, scuffie, parnanze, zinali e mantili. Ciò conferma la mia idea dell’Aquila come una città fredda e rocciosa che molto a lungo ha relegato le donne a muti e consolidati ruoli domestici, al massimo permettendo loro lavori che si conciliassero con la funzione primaria di casalinga, esempio classico ben noto, le maestre. Insomma, a L’Aquila noi donne siamo state il silenzioso ed ubbidiente secondo stipendio della famiglia, il cui uso era deciso dal padrone. E’ confortante oggi incontrare in città donne e madri che esercitano la professione di notaio, magistrato, docente d’università, medico e giornalista. Giovani, belle e, soprattutto preparatissime, hanno realizzato la profezia di Francesco del Greco.
Emanuela Medoro
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