“Quando si esegue un esperimento, se il risultato è conforme alle aspettative abbiamo eseguito una misura, se non è conforme abbiamo fatto una scoperta”(Enrico Fermi). Magnitudo 6.1 Richter in Emilia Romagna. L’apocalisse si scatena Domenica 20 maggio 2012, alle ore 4:03 italiane. Il sisma scuote un ampio settore della Pianura Padano-Emiliana tra le province di Modena, Ferrara, Rovigo e Mantova. Le chiese, i capannoni, i campanili, le rocche, le case e le persone crollano in un raggio di 40 chilometri. E siamo nell’Italia dell’Anno Domini 2012. Per 24 cittadini è la fine del mondo, letteralmente. È davvero tutta colpa della Natura e della terra matrigna? Tempus fugit. Gli orologi cadono a terra, un segno dei tempi! La sacra raccomandazione evangelica di costruire sé stessi (la Fede) come la casa sulla roccia (Matteo 7,24) affinché non crolli mai, sembra totalmente ignorata in Italia. In memoria di don Ivan Martini, il parroco cremonese della frazione di Rovereto del Comune di Novi (Modena) rimasto sepolto dal crollo della chiesa della sua parrocchia, delle 24 vittime e degli oltre 350 feriti del cluster di terremoti (uno di magnitudo momento 6.1 e sei di magnitudo superiore a 5) che dal 20 maggio 2012 (ma dal gennaio 2011 i “profeti” di sventura non sono riusciti a prevedere nulla, dando pure la colpa ai Maya!) tormentano la Pianura Padana Emiliana, occorre un immediato e deciso cambio di rotta e di strategia nella prevenzione sismica italiana perché simili e più drammatiche tragedie (magari altrove) certamente continueranno. Non occorre vantare il patentino del catastrofista per dimostrarlo scientificamente! La Natura aborre il vuoto al di là dei “ritardi” statistici delle grandi scosse storiche. Il terremoto aquilano del 6 aprile 2009 (Mw=6.3; 309 morti; 1600 feriti) aveva già evidenziato rilievi geologici di superficie molto interessanti per lo studio della dinamica geologica e strutturale degli Appennini. Senza scomodare i Maya, le tre scosse del 17 luglio 2011 (Mw=4.8), del 25 gennaio 2012 (Mw=4.9) tra le Piaghe ferraresi e del 27 gennaio 2012 (M=5.4), non avrebbero dovuto consigliare chi di dovere, animato dal sacro fuoco del Pater Familias, di elevare il normale grado di attenzione e di approntamento, necessari per evitare queste vittime? A 39 mesi dalla tragedia aquilana, l’unica lezione finora impartita da quel drammatico evento non sembra concentrata sulle politiche di prevenzione e mitigazione degli effetti delle catastrofi naturali come avviene in tutti i Paesi civili del mondo. Si continua a perdere tempo e risorse in dibattiti e salotti televisivi sterili sulla previsione dei terremoti, senza informare correttamente le persone sul da farsi in caso di scossa sismica. Cioè, su come mettere in sicurezza sé stessi, i propri cari e le proprietà. Senza un’Assicurazione obbligatoria per Legge che tuteli il patrimonio storico-artistico delle nostre città e le nostre case, com’è possibile andare avanti in Italia di ricostruzione in ricostruzione e di accisa in accisa? Tutto questo è francamente inaccettabile, ridicolo e umiliante. C’è un limite a tutto. Scusate, ma non è assolutamente normale e degno di un Paese civile come l’Italia, morire di terremoti. In Giappone le case e le chiese non crollano per un sisma di magnitudo 5 o 6 della scala Richter, un’energia sostanzialmente “normale”, storicamente attesa ovunque nel Belpaese. In Italia 18 milioni di persone vivono lungo le coste in 635 Comuni, ignare del loro destino! Dal 1968 ad oggi sono stati spesi l’equivalente di 160 miliardi di euro per i danni causati dai terremoti, quando la messa in sicurezza totale del Belpaese ne avrebbe richiesti soltanto un terzo! Dopo la distruzione di L’Aquila e delle città emiliane, continuiamo a versare lacrime di coccodrillo, ad elaborare lutti evitabili, ad essere malignamente esposti alle catastrofi naturali causate dalla violenza politica e non dalla “terra matrigna”. Tragedie umane perfettamente prevedibili se non fosse attiva in Italia l’Hiroshima culturale che alimenta la politica dei politicanti e soffoca la libertà dei media. Le Tredici Raccomandazioni della “International Commission on Earthquake Forecasting for Civil Protection” per salvarsi dalle catastrofi sismiche e vulcaniche, espresse nel 2009 dai geo-scienziati di tutto il mondo all’indomani del sisma aquilano, devono ancora essere rigorosamente applicate. La situazione sismica italiana è certamente nota ad un livello di dettaglio senza precedenti. I dati rilevati dai satelliti radar di Cosmo-SkyMed dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) hanno mostrato la deformazione della superficie in Emilia Romagna, permettendo ai ricercatori del Cnr-Irea e dell’Ingv di fare le prime valutazioni sulla zona colpita. Nell’emergenza post terremoto il Dipartimento della Protezione Civile, fin dalle primissime ore e subito dopo ciascuna delle sette principali scosse, ha coinvolto l’Asi, il Consiglio nazionale delle ricerche-Istituto per il rilevamento elettromagnetico dell’ambiente e l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, per la programmazione di nuove acquisizioni radar dai satelliti della costellazione Cosmo-SkyMed. Per disporre, in tempi molto rapidi, di informazioni circa la deformazione crostale connessa alle scosse sismiche di maggiore energia: tipo di deformazione, entità ed estensione del territorio interessato. Grazie alle informazioni satellitari è stato possibile conoscere la situazione dell’area colpita. Si è evidenziato un sollevamento massimo di circa 15 centimetri. Questi dati concordano con quelli sismologici e mostrano un piano di rottura principale immergente verso Sud lungo il quale la parte meridionale del settore della Pianura Padana si è accavallato sul settore settentrionale, la faglia di sovrascorrimento. Una delle più importanti capacità dei sistemi radar per l’osservazione della Terra, è quella di funzionare giorno e notte in qualsiasi condizione atmosferica. L’informazione radar è stata in grado di fornire, in tempi brevissimi, un quadro d’insieme della situazione, non rilevabile con le metodologie ottiche standard. Mediante una tecnica denominata Interferometria Differenziale è possibile misurare spostamenti del terreno, anche dell’ordine di pochi millimetri, utilizzando immagini radar acquisite prima e dopo un evento sismico. Per poter calcolare la deformazione del suolo è necessario attendere che uno dei satelliti ripassi esattamente sulla stessa orbita. L’Asi ha immediatamente predisposto l’acquisizione del primo passaggio utile post-terremoto, avvenuto nella serata del 23 maggio. I dati sono stati prontamente elaborati da un team di ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche e dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. Il risultato ottenuto è il cosiddetto “interferogramma”, cioè una mappa di deformazione espressa in termini di cicli di colore. Ogni ciclo, o frangia, è rappresentativo di circa 1.5 cm di sollevamento della superficie terrestre. L’area con fasce di colore (frange) concentriche nell’interferogramma indica un sollevamento del suolo dovuto alla rottura della faglia sismica al di sotto di 1-2 km di profondità. Questi primi risultati sono particolarmente interessanti in quanto, pur rappresentando solo il settore più orientale dell’area in deformazione, consentono di capire che questa ha un orientamento prevalentemente Est-Ovest, parallelo alla struttura tettonica che ha generato il terremoto principale di magnitudo 6.1, e possono quindi fornire utili informazioni per la definizione della geometria complessiva del processo in atto. La qualità delle immagini risulta buona, nonostante le condizioni non ottimali della superficie per la presenza di coltivazioni e vegetazione. Per rendere più evidenti le deformazioni misurate, le frange sono state convertite in deformazione e rappresentate sulla cartografia di Google Earth mediante un codice di colori. Le zone azzurre sono quelle affette da deformazione trascurabile, mentre quelle in rosso hanno raggiunto il valore di massimo sollevamento. I dati satellitari verranno integrati con le informazioni provenienti dalle campagne di rilievo in corso in Emilia Romagna da parte di centinaia di scienziati e ricercatori di tutto il mondo che nei prossimi congressi mondiali di geofisica (Agu Fall Meeting di San Francisco ed Egu Spring Meeting di Vienna) presenteranno i loro lavori alla comunità scientifica internazionale. Catena a pieghe, accavallamenti, tettonica attiva, sorgenti sismogenetiche in Pianura Padana? Il “Carneade, chi era costui?” di manzoniana memoria, continua a svelare la vera identità e libertà di chi ci governa dai palazzi e di chi ci informa dai vari Tg in digitale terrestre, al netto dei problemi di ricezione per il segnale Rai dall’Abruzzo! Dove alcuni “profeti” hanno miseramente fallito in compagnia di politicanti sbigottiti, crediamo che il nostro povero don Abbondio avrebbe saputo fare di meglio. Durante le crisi sismiche in atto, la prudenza è d’obbligo. Per evitare, dopo gli inevitabili clamori mediatici, di finire nel cestino della comunità scientifica mondiale che, differenza di quella politica, non perdona! L’analisi dei dati di stringente attualità, procede spedita in queste ore fatali. La verità è che questa crisi sismica Emiliana si è rivelata “ignota” ai mezzi di comunicazione di massa! Quando si dice che “gli studiosi hanno scoperto i fiumi che deviano dal loro corso per effetto di strutture geologiche nascoste, le stesse che scatenano i terremoti nella Pianura Padana”, bisogna intendersi sul significato delle parole. I ricercatori e gli scienziati non si svegliano di buon mattino per fare annunci clamorosi in diretta Tv. La sequenza sismica di Modena-Ferrara sta interessando “un’area a pericolosità medio-bassa della penisola italiana”, ma ciò non significa che in superficie non possa accadere più nulla di grave. L’evento più forte è avvenuto alle ore 4:03 del 20 maggio 2012 con una magnitudo-momento preliminare Mw=5.9 (stesso valore per gli americani della Usgs) poi corretta a 6.1 Richter. L’aftershock più forte è avvenuto alle ore 15:18 del 20 maggio, Mw=5.1 Richter. Finora sono state localizzate oltre 1000 “repliche”, di cui sei di magnitudo 5. La sismicità si distribuisce lungo un’area allungata per circa 50 km in direzione Est-Ovest. I terremoti più forti della sequenza sono dovuti a un fenomeno di compressione attiva in direzione Nord-Sud, legato alla spinta dell’Appennino settentrionale verso Nord, al di sopra della placca adriatica. L’estensione della zona attiva, confrontata con la magnitudo degli eventi principali, suggerisce agli scienziati che ad essersi attivato sia un sistema di faglie complesso. Apparentemente, non una singola faglia. La sequenza sismica ha interessato la regione padana già sede di terremoti rilevanti nei mesi passati. In particolare, a gennaio 2012 la zona appenninica di Reggio Emilia e Parma fu colpita da terremoti di magnitudo 4.9 e 5.4 a distanza di pochissimi giorni. I due terremoti di gennaio, sebbene avvenuti a profondità molto diverse (30 e 60 km) rispetto ai 6-8 km di quelli più recenti, sono anch’essi legati ai movimenti della stessa microplacca adriatica, che negli ultimi mesi ha avuto un’attività piuttosto intensa. Le informazioni storiche per l’area sismogenica interessata, evidenziano un’attività non molto frequente, con alcuni terremoti significativi nelle aree adiacenti. In particolare, un evento sismico che appare simile a quello principale colpì Ferrara nel 1570, causando danni fino all’VIII grado Mercalli, anche se è francamente impossibile calcolare l’esatta potenza energetica di quell’evento. Un altro sisma di interesse storico, studiato di recente, è quello avvenuto nel 1639 con epicentro nei pressi di Finale Emilia, dove produsse effetti del VII-VIII grado Mercalli. Anche in questo caso gli scienziati non sono in grado di esprimere una cifra in termini di scala Richter. Squadre di sismologi e geologi sono sul campo per le verifiche degli effetti del terremoto e per installare strumenti che permettano un monitoraggio ancora più dettagliato. L’evento di magnitudo 5.1 è avvenuto circa 10 km a Est del primo, più vicino alla città di Ferrara. Per i terremoti più rilevanti della sequenza sono stati calcolati il meccanismo focale e la magnitudo momento. L’analisi lungo tutta la struttura mostra che i terremoti sono avvenuti su piani di faglia orientati all’incirca Est-Ovest e con movimento compressivo in senso Nord-Sud. Per il terremoto del 3 giugno alle 21:20 (Ml 5.1) è stata calcolata una Mw=4.76 e un meccanismo compressivo analogo a quello dei terremoti precedenti. L’evento del 3 giugno è avvenuto nel settore occidentale della struttura, nella parte che si era attivata con il terremoto del 29 maggio (Ml 5.8). Gli studi del professor Antonio Moretti dell’Università di L’Aquila e la pubblicazione scientifica “Evoluzione tettonica plio-quaternaria dei fronti di accavallamento nord-appeninici (transetto Bologna-Ferrara): implicazioni sismo tettoniche” di G. Toscani , P. Burrato, D. Di Bucci, S. Seno e G. Valensise del 2009, hanno illustrato in maniera chiara, evidente e precisa la situazione critica. Ma, a quanto pare, i media hanno ben altro di cui occuparsi. Secondo il professor Antonio Moretti “certamente i terremoti di Ferrara e del Parmense dello scorso gennaio sono collegati, più o meno secondo lo stesso meccanismo, alla crisi sismica in atto in Emilia Romagna: il piegamento profondo della litosfera e la conseguente concentrazione dello stress sulle strutture di superficie”. Ma c’è di più secondo il professor Moretti:“me lo sarei aspettato dalla parte opposta della struttura, in Garfagnana o nel Pistoiese! In realtà la struttura sotto la zona ferrarese (Bondeno è sempre sullo stesso allineamento) è ben nota per il suo interesse petrolifero e geotermico. Va sotto il nome di Pieghe ferraresi: in pratica, sotto il ferrarese sta nascendo una montagna in tutto simile alla Maiella o al monte Conero di Ancona. Al momento attuale la sommità della montagna è ancora sepolta sotto qualche centinaio di metri di sedimenti alluvionali della pianura del Po”. La sua traccia con faglie e fratture si vede benissimo dalle riprese dall’elicottero. “I tempi di ritorno dei terremoti su queste strutture – fa notare Moretti – sono abbastanza lunghi (500-1000 anni), quindi capita di sottovalutare il rischio, almeno in relazione ad altre aree ben più pericolose. In effetti, se sono venuti giù castelli, rocche e campanili del ‘300, si capisce che da molti secoli non vi erano stati eventi significativi. I più recenti, sono quelli di Ferrara del 1570 e di Finale Emilia del 1639, entrambi di intensità massima dell’VIII grado della scala Mercalli, come quello attuale. A conti fatti poca energia in confronto agli XI Mercalli del nostro Meridione. Solo che con l’Italia in ginocchio, come in questo periodo, e gli Aquilani che continuano a dormire aspettando che qualcuno faccia il loro lavoro, temo proprio che le nostre casette ci toccherà ripararcele da soli!”. La pubblicazione scientifica “Evoluzione tettonica plio-quaternaria dei fronti di accavallamento nord-appeninici (transetto Bologna-Ferrara): implicazioni sismo tettoniche”, analizza porzioni di crosta terrestre piegate e inarcate al di sopra di grandi faglie inverse, ovvero faglie che consentono il raccorciamento della crosta stessa. Queste pieghe costituiscono delle vere e proprie dorsali montuose che oggi si trovano sepolte al di sotto della Pianura Padana. Il lavoro descrive l’arco delle cosiddette Pieghe Ferraresi, responsabili dei terremoti emiliani del 2012, discutendo se e come la deformazione si sviluppi e si ripartisca tra le diverse faglie individuate ed analizzando quali di esse possano essere interpretate come sorgenti di forti terremoti del passato. L’obiettivo finale della ricerca, è quello di elaborare delle “regole geologiche universali”, applicabili anche al resto della Pianura Padana e ad altri sistemi compressivi nel mondo, che consentano di discriminare tra faglie con elevato potenziale sismogenetico e faglie innocue. Gli scienziati hanno scoperto che “i fronti di accavallamento più esterni della catena Nord-Appenninica sono sepolti da una spessa coltre di sedimenti clastici che colma l’intera Pianura Padana e che è stata studiata in particolare tramite pozzi profondi e sezioni sismiche a riflessione, realizzate prevalentemente per scopi esplorativi (idrocarburi)”. Cioè mediante altre ricerche delle imprese private. “Questi studi mostrano un sistema di pieghe e accavallamenti sepolti Nord-Est vergenti, che hanno influenzato e controllato la deposizione dei cunei di sedimenti silicoclastici sintettonici; per la parte Plio-Quaternaria, questi cunei mostrano spessori fino a 9 km”. In Pianura Padana, in virtù della rapida sedimentazione clastica e dei limitati ratei di deformazione che caratterizzano l’area, le evidenze di tettonica attiva sono estremamente scarse e di difficile lettura. “Alcune di queste evidenze, seppur deboli, si riscontrano nelle anomalie del reticolo idrografico, sotto forma sia di deviazioni fluviali che di repentine variazioni dell’attività erosiva del corso d’acqua, variazioni che sono risultate essere controllate in prevalenza dalla crescita delle anticlinali sepolte al di sotto di tali anomalie. Inoltre, i cataloghi della sismicità storica e strumentale mostrano che la Pianura Padana meridionale è interessata da una sismicità da bassa a moderata (fino a Mw 5.8), caratterizzata da meccanismi focali compressivi. I breakout di pozzi profondi e i meccanismi focali mostrano entrambi un Shmax orientato circa perpendicolarmente all’andamento dei fronti di accavallamento sepolti”. I dati GPS evidenziano un debole raccorciamento in direzione Nord-Sud con una velocità inferiore a 1 millimetro l’anno. “In questo contesto, il lavoro punta a verificare: 1) il grado di attività dei diversi accavallamenti sepolti dell’Appennino Settentrionale, in particolare nell’arco delle pieghe ferraresi; 2) se e come la deformazione si ripartisca tra essi; 3) quali degli accavallamenti individuati possano essere interpretati come sorgenti di terremoti potenzialmente dannosi”. Gli scienziati hanno integrato dati geologici, strutturali e morfotettonici e, sulla base dell’interpretazione di dati di pozzo e linee sismiche a riflessione, hanno realizzato una sezione a scala regionale orientata circa SSW-NNE. “Per investigare l’attività degli accavallamenti sepolti e/o delle anticlinali di rampa ad essi associate, abbiamo analizzato l’assetto morfotettonico dell’area investigata, confrontando la posizione delle anomalie nel reticolo del drenaggio con quella delle strutture sepolte. Abbiamo quindi proiettato la sismicità storica e strumentale dell’area sulla sezione geologica, per confrontare la sua distribuzione rispetto all’assetto strutturale e alle deformazioni rilevate, in particolare nei sedimenti quaternari. Infine abbiamo realizzato alcuni modelli analogici volti a riprodurre l’evoluzione della deformazione lungo il transetto investigato, in particolare quella Plio-Quaternaria, con l’obiettivo di studiare la cinematica e l’evoluzione dei fronti di accavallamento e le interazioni tra attività tettonica e sedimentazione nelle fasi finali della strutturazione di tali fronti”. Con quali risultati? “I sovrascorrimenti principali sono stati attivi durante il Quaternario e in parte lo sono attualmente; presentano una partizione della deformazione nelle zone di sovrapposizione; hanno ubicazione e geometrie compatibili con i principali terremoti storici dell’area, dei quali potrebbero perciò costituire le faglie-sorgente”. Lo stato di attenzione dei geologi, dei sismologi e dei geofisici era, dunque, lapalissiano. Si può affermare con certezza la stessa cosa dei “liberi” media che continuano a definire come “fenomeno nuovo” la liquefazione delle sabbie eruttate in superficie per compressione degli strati più esterni, quando in realtà era ben noto da tempo alla “task force” di geologi e geofisici che stanno mappando il territorio tra Modena e Ferrara? Fenomeno che ha provocato numerose crepe alle case costruite su dossi che si trovano nei vecchi alvei di fiumi, il più delle volte abitazioni vecchie in mattoni. La sabbia liquefatta è fuoriuscita dalle crepe di cantine e giardini di molte case. La sabbia è più compatta di prima ma c’è massima attenzione da parte dei geologi perché nel caso in cui dovesse verificarsi un nuovo sisma di quella intensità il fenomeno potrebbe riemergere. La liquefazione tellurica è nota agli scienziati. È stata osservata e studiata in tutto il mondo, in particolare nei terremoti giapponesi di 7-8 gradi Richter, quelli davvero catastrofici. Quindi è naturale l’interesse della comunità scientifica internazionale che si è precipitata in Emilia Romagna per analizzare il fenomeno e cartografare le zone con indici di pericolosità. Quello che non è normale, è il silenzio dei media su questi studi che oggi proseguono individuando e mappando punto per punto, casa per casa, questi fenomeni noti, raccogliendo campioni di terreno, eseguendo analisi multi-parametriche sui fluidi presenti nei pozzi, ottenendo testimonianze molto significative e per ultimo, ma non come importanza, cercando di informare correttamente la popolazione. Sono state raccolte già numerose immagini, alcune delle quali sono state messe a disposizione dagli stessi cittadini. Già nella fase di rilievi immediatamente successivi alla primissima emergenza si è cercato di capire qualitativamente se i fenomeni di liquefazione fossero aderenti a quanto riportato dalla letteratura scientifica e tecnica di riferimento, e dalle previsioni urbanistiche locali. In una seconda fase si cercherà liberamente di trarre conclusioni quantitative per descrivere nella maniera più aderente possibile quanto verificatosi localmente. Squadre di geologi volontari stanno rilevando gli effetti derivanti dai fenomeni sismici. Anche se il territorio veneto è stato colpito in modo meno grave rispetto a quelli limitrofi delle Province di Ferrara e Modena, è molto importante verificare gli effetti dello scuotimento sismico registrato anche nei Comuni dell’Alto e Medio Polesine, considerati a basso rischio sismico prima del terremoto del 20 maggio 2012. Particolare attenzione viene data all’individuazione di effetti locali particolarmente interessanti, e fastidiosi per la popolazione, quali la liquefazione di strati sabbiosi saturi e l’espulsione di acqua dal sottosuolo, dissesti arginali e stradali, rilievo di cedimenti e rifluimenti del terreno che interessano gli apparati fondali di edifici e capannoni. È attiva anche una squadra di ingegneri e geometri del Politecnico di Torino e della Regione Piemonte, che hanno trovato diverse conchiglie, segnale inequivocabile della sabbia di fiume. Secondo il professor Enzo Boschi, ordinario di Geofisica della terra solida all’Università di Bologna, “dobbiamo immaginare la falda acquifera come una spugna, che è stata strizzata velocemente dal sisma. Il fango è stato disperso, il terreno ha ceduto. La modifica della struttura del suolo, una volta che si asciuga, diventa irreversibile. Ed è molto pericoloso per la stabilità delle costruzioni. Certe case andranno accomodate, altre abbandonate. Questo lo decideranno gli ingegneri. Di sicuro – fa notare lo scienziato – c’è stata una sottovalutazione. L’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia aveva pubblicato nella Gazzetta Ufficiale nel 2003 una mappa di pericolosità sismica e queste zone erano state tutte classificate. Bisognava porsi il problema allora. Questi paesi della Val Padana sono stati costruiti sui depositi alluvionali del Po”. Chissà perché si accusano sempre gli scienziati quando accadono le tragedie! Di terremoti forti ce ne saranno sicuramente, anche se non sappiamo quando. Ed altri sicuramente pagheranno un conto elevato in termini di danni e vite umane. Alla luce del sisma che ha devastato l’Emilia, bisognerebbe mettere in atto una serie di Piani comunali di Protezione civile (attiva e passiva, con esercitazioni della popolazione) perché tutto quello che facciamo, a livello di pianificazione e costruzione, deve essere fatto con i criteri di prevenzione del rischio sismico. Bisogna informare correttamente la popolazione senza seminare il panico. Anche con i cartelloni pubblicitari anti-terremoto, sparsi un po’ ovunque. Anche in pieno deserto! Come fanno in California. Bisogna abituare le persone a fare delle esercitazioni in maniera costante e capillare. Bisogna formare una Cultura del Rischio sismico e vulcanico (istituendo il Pre-allarme tsunami lungo le coste italiane, con le sirene, che non sono quelle di Ulisse, e con le vie di fuga preferenziali!) che ci consenta di fronteggiare un’eventuale emergenza nazionale. In media un buon 20% degli edifici costruiti tra gli anni ‘50 agli anni ‘70, quando è entrata in vigore la norma antisismica, non sono in regola, ma i riflettori dei media sono da puntare in particolare sull’edilizia scolastica. Secondo un recente report di Legambiente, “soltanto il 17% degli edifici è in possesso del certificato di agibilità, mentre il 23% è costruito secondo criteri antisismici e il 34% può vantare l’idoneità statica”. Se dobbiamo stabilire delle priorità, sicuramente dobbiamo prima mettere in sicurezza tutte le scuole pubbliche (e private) d’Italia perché dobbiamo imparare a tenere alta l’attenzione non soltanto in periodi di emergenza. Dobbiamo, cioè, metabolizzare il Rischio sismico e vulcanico per apprendere conoscenze e tecniche in “tempo di pace”, pretendendo la totale messa in sicurezza delle nostre città e abitazioni dalla classe politica al potere, senza più proroghe e condoni. Senza i soliti scaricabarile! Purtroppo, passata la tragedia e l’elaborazione del lutto, ci si dimentica che l’Italia è un Paese fortemente sismico per definizione, dove insistono diverse tipologie di Rischio, compreso quello legato al concentramento antropico al di sopra di ampie cavità sotterranee. Non manca quasi nulla, neppure il rischio vulcanico e i potenziali tsunami distruttivi. Se guardiamo alla nostra Storia non solo non possiamo permetterci di abbassare la guardia, ma dobbiamo reagire al più presto creando una Magistratura di controllo e di azione, dotata per Legge di ampi poteri, in grado di operare con la Protezione Civile Nazionale, insieme agli scienziati, agli ingegneri ed agli architetti anche quando la politica e la burocrazia latitano gravemente! Se osserviamo la gigantesca linea di faglia attivata dai terremoti iniziati Domenica 20 maggio 2012 e dai sismi altrettanto violenti del 29 maggio e seguenti, capiamo bene con che cosa abbiamo a che fare: non con una ma con una serie di principali faglie sepolte in profondità sotto la Pianura Padana, che ha dato origine a diversi terremoti. È evidente la porzione delle Pieghe Ferraresi attivata, mentre la successione dei terremoti dell’ultima settimana caratterizza e disegna in sequenza la corrispondente linea di faglia che si è rotta in superficie, avanzando verso Ovest. Un arco lunghissimo che, se fosse espressione di una sola faglia profonda, dal Ferrarese fino alla Toscana, dopo aver percorso gli oltre 60 Km finora interessati dai fenomeni sismici, sarebbe in grado di sprigionare in un solo evento un’energia catastrofica! I terremoti di Domenica 20 maggio avevano rotto un segmento di faglia lungo circa 40 Km mentre i violenti sismi successivi, tutti diversi, hanno rotto un nuovo segmento di faglia lungo per ora una ventina di chilometri. Il secondo segmento di faglia attivato dai terremoti più recenti potrebbe anche appartenere ad un “sotto-sistema” delle Pieghe Ferraresi chiamato Arco di Mirandola. I tre terremoti più forti (maggiori di magnitudo 4,5 Richter) che hanno già interessato l’ampia zona dal 1° gennaio 2011 al 19 maggio 2012, sismi che avevano attivato dei segmenti di faglia nelle Pieghe Ferraresi ma molto più in profondità, di che cosa ci avvertono? E, soprattutto, come continua questa linea di faglia verso Ovest? Gli scienziati sanno che le Pieghe Ferraresi, le Pieghe Emiliane e le Pieghe del Monferrato rappresentano il limite dell’Appennino che sovrascorre verso Nord -Est sulla zolla adriatica al di sotto della Pianura Padana. Tutta questa struttura appenninica, dopo essere passata a metà tra Modena e Mantova, continua a scendere verso Sud-Ovest raggiungendo Parma e Reggio Emilia dove risale verso Nord-Ovest per rientrare in territorio lombardo e raggiungere il Piacentino e il Sud Milanese. Cosa accadrebbe se, eccezionalmente, dovessero attivarsi le faglie più a Ovest? Rotture di faglie a catena ancora più lunghe si sono osservate finora solo sulle più grandi faglie tettoniche del pianeta Terra: la faglia di S. Andreas in California dov’è atteso da decenni il famoso “Big One”, le faglie Giapponesi, quelle di Sumatra e del Cile. Per la Pianura Padana è già eccezionale la rottura progressiva di 60 Km di crosta. Siamo forse in presenza di epocali segnali di avvertimento di un imminente Big One italiano, magari a grappolo? E se quello che osserviamo fosse l’espressione superficiale di un’unica faglia profonda, quanta energia potrebbe sprigionare? Naturalmente le informazioni principali sulla Pianura Padana provengono dalle esplorazioni petrolifere, cioè da ricerche private, da studi e sondaggi in situ, che oggi alcuni ritengono semplicemente impossibili e pericolosi. La Pianura Padana è un’area a basso rilievo morfologico ricoperta da un ingente spessore, fino a 8 Km, di sedimenti terrigeni Plio-Pleistocenici. Nella zona epicentrale del terremoto del 20 Maggio 2012 (Mw=6.1) le fasi tettoniche compressive che hanno portato alla formazione delle catene montuose delle Alpi e degli Appennini, hanno prodotto pieghe asimmetriche, faglie inverse e “thrust”. Gli studi evidenziano che nell’Appennino settentrionale queste strutture hanno vergenza verso Nord-Nord-Est, ossia immergenti verso Sud, e coinvolgono sia la copertura sedimentaria sia la sequenza carbonatica Mesozoica sottostante. A grande scala, nella Pianura Padana si distinguono a Nord le Pieghe del Sudalpino e, nella parte meridionale, tre strutture principali ad arco, costituite dai “thrust” più avanzati della catena appenninica. Da Ovest ad Est troviamo: l’Arco del Monferrato, l’Arco Emiliano (Mirandola) e l’Arco di Ferrara. Quest’ultimo si suddivide in tre gruppi minori: le Pieghe Ferraresi, le Pieghe Romagnole e, più ad Est, le Pieghe Adriatiche, che costituiscono il vero fronte esterno e sepolto della catena appenninica. L’Arco Ferrarese è immerso al disotto di una sequenza Plio-Pleistocenica terrigena che copre la successione carbonatica mesozoica, che costituisce la vera ossatura dell’Appennino. Nella mappa geologico-strutturale, come si evince da un lavoro di Boccaletti e Martelli (2004), sono riportate le principali strutture tettoniche sepolte in Pianura Padana. È interessante notare la sovrapposizione sulla carta dei meccanismi focali relativi all’evento principale di magnitudo momento 6.1 e dei sei eventi successivi di magnitudo 5. Viene fuori la direzione di massima compressione in atto, circa Nord-Sud ed Est-Ovest con gli assi di massimo sforzo sul piano orizzontale desunte dai dati di “break out” ricavati in pozzi profondi dell’area. L’ipotesi preliminare del piano di faglia attivato il 20 maggio 2012, basata sulla geologia dell’area, l’ubicazione dell’ipocentro dell’evento 6.1 e il meccanismo focale degli altri terremoti, suggeriscono una complessità che sicuramente passerà alla Storia della geologia, della geofisica e della cultura sociale dei terremoti in Italia e nel mondo. L’analisi dei dati sismici e geodetici in corso, non risolve univocamente il piano di faglia attivo. Per questo motivo l’Emilia Romagna è oggi il laboratorio a cielo aperto più importante e famoso al mondo dopo le catastrofi sismiche di L’Aquila 2009 e del Giappone 2011. Per dirimere la questione serviranno anni di studi, dallo spazio e in situ. La definizione delle faglie attive, in grado di scatenare terremoti, è particolarmente difficile in zone dove le strutture sono sepolte e dove il tasso di sismicità è statisticamente e storicamente basso, come nel caso della Pianura Padana. L’indicazione dell’ubicazione e delle caratteristiche delle faglie attive in quest’area si può trovare nel famoso “Database of Individual Seismogenic Sources”. Dal 21 maggio 2012 i geologi del gruppo Emergeo dell’Ingv hanno effettuato rilievi di dettaglio nelle aree colpite dal sisma per verificare gli effetti cosismici sull’ambiente naturale e per cercare elementi utili all’identificazione del piano di faglia. Sono stati più di 300 i “punti” di osservazione rilevati nei giorni 22-25 maggio dal personale Emergeo. È stato reperito materiale di riferimento, in particolare la cartografia cartacea e digitale, le mappe tematiche messe a disposizione dalla Regione Emilia Romagna, i lavori scientifici e i rapporti tecnici sull’area. Dopo aver censito e localizzato tutte quelle segnalazioni di effetti geologici riportate dai media e su Internet, è stata identificata l’area da rilevare, che grosso modo coincide con la zona in cui si sono concentrate le “repliche”, all’interno di un quadrilatero compreso tra gli abitati di Mirandola, Camposanto, Bondeno e Sant’Agostino. I rilevamenti sul terreno sono iniziati nella mattinata del 22 maggio e sono ancora in corso, grazie al coinvolgimento e all’avvicendamento di diverse squadre composte da personale di Roma1, CNT, OV e Roma2. In ogni punto rilevato sono state effettuate misurazioni e campionamenti. Sorvoli in elicottero, effettuati grazie al Corpo Forestale dello Stato, hanno permesso di identificare le zone a più alta concentrazione di effetti. È stato attivato lo scambio di dati con i ricercatori di Uni Insubria e ISPRA per assicurare la massima copertura del territorio. Nelle zone già investigate da Emergeo, gli effetti geologici cosismici significativi rilevati sono riconducibili a tre tipologie principali: liquefazioni per sovrappressione di falde idriche ospitate da corpi sabbiosi del sottosuolo; fratturazione estensionale con prevalente separazione orizzontale e liquefazioni associate a fratturazioni. A San Felice sul Panaro sono stati scoperti fenomeni di liquefazione al campo sportivo. La sabbia fuoriuscita dai condotti è generalmente fina e mista a limo. I condotti appaiono generalmente allineati e le sabbie fuoriuscite sono organizzate in vulcanetti coalescenti con spessori fino a 20-30 cm. I fenomeni di liquefazione sono molto diffusi nei dintorni di San Felice sul Panaro, San Carlo di Sant’Agostino e Bondeno. Coinvolgono principalmente sabbie fini grigiastre e in alcuni casi possono riconoscersi venute di sabbie giallastre. I pozzi per l’emungimento di acqua per irrigazione (10-15 mt.) sono serviti da condotto e sono stati riempiti di sabbia che in alcuni casi è fuoriuscita. Nei centri abitati le liquefazioni sono spesso legate alla presenza di manufatti che probabilmente hanno funzionato come vie di fuga preferenziali. In alcuni casi sporadici, associati alle liquefazioni, sono stati osservati rigonfiamenti e sprofondamenti del terreno. Fratture beanti o con piccoli rigetti verticali non sistematici, con un “en-echelon” apparente, sono presenti soprattutto nel settore orientale, e possono essere seguite per alcune centinaia di metri. Localmente si osservano piccole fuoriuscite di sabbia. Una trincea aperta attraverso una di queste fratture per la riparazione di una condotta, ha mostrato la presenza di sabbia risalita lungo la frattura stessa ma che non aveva raggiunto la superficie. Le fratturazioni con associata liquefazione, sono anch’esse più diffuse nel settore orientale, nella zona tra Bondeno, Mirabello e San Carlo. Consistono in fratture lunghe anche decine di metri, spesso in “en-echelon” apparente, da cui è fuoriuscita un’ingente quantità di sabbia fine grigia. In corrispondenza di alcune liquefazioni e fratture gli scienziati hanno verificato anche la rottura di condotte idriche. Un primo confronto tra le caratteristiche geomorfologiche dell’area e la localizzazione degli effetti osservati mostra una correlazione con la presenza di paleo-alvei dei fiumi Secchia, Panaro e Reno. I principali sistemi di fratturazione sembrano essere in correlazione con le zone di argine, in particolare quello del canale Cavo Napoleonico. Altra osservazione comune per tutte le aree investigate, è l’innalzamento di alcuni metri della falda più superficiale, che ad oggi presenta ancora un’anomalia. La Pianura Padana è uno dei settori in cui si divide il limite fra due zolle, la Placca Adriatica e la Placca Europea. Il Mediterraneo occidentale, infatti, è composto da una serie di bacini oceanici che hanno frantumato il bordo meridionale della catena alpina. Attualmente queste zone continuano a far parte della Placca Europea ma sono state spostate verso Est, con in più una rotazione in senso antiorario. Con una vera Macchina del Tempo in grado di ritornare a circa 30 milioni di anni fa, potremmo osservare dallo spazio la Calabria, la Sardegna, la Corsica, l’odierna Toscana occidentale e la parte sommersa a Nord della Sicilia più vicina all’isola, tutte unite lungo il bordo dell’Europa tra le Alpi e la Spagna meridionale (“Generation of Trench-Arc-Back Arc systems in the Western Mediterranean Region driven by plate convergence”,Viti et al. 2009). La zolla adriatica continua a pressare questi brandelli di Europa: il fronte di compressione parte dalla Lombardia e finisce nel Canale di Sicilia con un proseguimento verso Ovest nel Nord-Africa. Nell’Emilia Romagna questa compressione si esercita in una serie di Pieghe sotto la Pianura Padana. In pratica Verona e Bologna si trovano su due zolle diverse: gli studi dimostrano che si avvicinano sia pure alla modica velocità di poco meno di un millimetro l’anno, quando l’Australia si muove verso Nord alla fantastica velocità di 8 centimetri l’anno! I terremoti emiliani si generano lungo i cosiddetti “blind thrust”, le cosiddette “faglie cieche” che non arrivano in superficie. Esse si formano nella zona “nucleare” delle pieghe: quando il piegamento diventa troppo elevato alla fine la piega si spezza (cf. “An inventory of river anomalies in the Po Plain, Northern Italy: evidence for active blind thrust faulting”, di Pierfrancesco Burrato, Francesca Ciucci e Gianluca Valensise dell’Ingv, rivista “Annali di Geofisica”). Anche il Mediterraneo ha il suo Mondo Perduto, un continente ancestrale sommerso, non abitato né da alieni né da nativi terrestri (fino a prova contraria!), di cui adesso si possono trovare tracce sparse tra Spagna, Italia e Africa settentrionale. Uno studio pubblicato sull’Italian Journal of Geoscience (“Generation of Trench-Arc-Back Arc systems in the Western Mediterranean Region driven by plate convergence”, di Marcello Viti, Enzo Mantovani, Daniele Babbucci e Caterina Tamburelli, 2009) esplora quest’antica terra analizzandone la storia geologica. Bene, 30 milioni di anni fa, a parte le linee di costa molto differenti per il diverso livello marino, buona parte del pianeta Terra ci apparirebbe riconoscibile. L’Atlantico era un po’ più stretto, l’Australia era più vicina all’Antartide e più a Sud dell’Indonesia. Ma non riconosceremmo affatto il bacino attuale del Mediterraneo occidentale. Non vedremmo il Tirreno né il mare delle Baleari che con il blocco Sardo-corso sarebbero ancora attaccate alla Spagna ed alla Francia meridionale. Mentre la zolla europea, dalle Dinaridi alla Spagna passando per l’Arco alpino, all’epoca teatro di intense eruzioni vulcaniche, si immerge sotto quella africana, più a Sud troveremmo un piccolo oceano che scorre sotto una piccola zolla continentale, a sua volta separata dall’Africa, appunto il Continente Perduto. Potremmo osservare il settore meridionale europeo che fronteggia questo micro-continente da cui è ancora diviso da un piccolo braccio oceanico in subduzione, formato dalle sezioni betica e ligure-piemontese della Tetide. Questo braccio si era aperto tra la fine del Triassico e l’inizio del Giurassico. Come quello che aveva staccato il Mondo Perduto dalla zolla africana. Secondo gli studiosi è possibile che la frammentazione sia stata guidata dai movimenti fra Africa ed Europa che nel Triassico- Giurassico dovrebbero essere stati più uno scorrimento laterale che una vera divergenza di zolle, per cui si sarebbero formate diverse micro-zolle circondate da brevi bracci oceanici: il Continente Perduto, la placca adriatica, la placca dinarica e così via. Nell’Oligocene, l’oceano tra Spagna e Mondo Perduto si stava prosciugando: gli scienziati sono divisi sulla direzione del piano di subduzione. Secondo alcuni sotto l’Europa, secondo altri sotto il Continente Perduto. La seconda ipotesi potrebbe spiegare meglio le associazioni di rocce metamorfiche dell’epoca presenti nella Cordigliera Betica e sarebbe coerente anche come il prolungamento verso Sud della catena alpina. Agli inizi dell’Oligocene, l’oceano betico-piemontese si chiude del tutto e il Mondo Perduto si salda all’Europa, fronteggiando Asturie, Sardegna e Corsica, allora ancora attaccate all’Europa primordiale. Ma i movimenti fra Africa ed Europa non erano cessati: la crosta doveva continuare a deformarsi per secoli e secoli. A Nord l’Africa tenta di spezzare l’Europa. Lo dimostra il sistema di fosse tra Reno e Rodano. Per una manciata di energia sismica e vulcanica, l’Europa occidentale e quella centrale non si separano definitivamente. Più a Sud, invece, c’è ancora un oceano da prosciugare! È quello dove andiamo al mare. Da allora la situazione nella zona alpina non è cambiata perché gli sforzi tettonici sono praticamente conclusi: lo dimostra la scarsa sismicità dell’Arco alpino occidentale in cui l’unica “attività” è il forte innalzamento che la regione alpina sta subendo. Ma la sismicità del settore centro-orientale starebbe a dimostrare, secondo alcuni studiosi, che lì è in corso una vera e propria battaglia tra Titani con un’inversione della subduzione: la Pianura Padana, infatti, potrebbe accelerare di scatto lo scorrimento in atto da milioni di anni sotto l’edificio alpino e la zolla europea. Sono soltanto ipotesi, nulla più. Ma la sorte toccata al Continente Perduto che cosa ci insegna? Nell’area a Sud-Ovest le cose si sono evolute in maniera molto diversa: perdurando la compressione fra Africa e il nuovo blocco Iberia-Mondo Perduto, l’unica “valvola” di sfogo è stata la subduzione, sotto questo blocco, del bacino oceanico che divideva il Continente Perduto dall’Africa. Una parte di questo bacino esiste ancora oggi: è il Mar Jonio, l’ultima “dimora” della Tetide che deve ancora essere chiusa. In questa seconda fase la subduzione è sicuramente avvenuta sotto l’Europa in quanto ancora oggi lo Jonio scorre sotto la Calabria e la zona a Ovest della Sicilia scorre sotto la Sardegna. Una conferma indiretta dell’inversione della direzione di subduzione tra Oligocene e Miocene, secondo gli scienziati, potrebbe essere ricercata nella nascita dei bacini che compongono il Mediterranneo Occidentale, normalmente considerati dei bacini di retro-Arco che si formano solo quando la subduzione si dirige verso Ovest mentre quella ad Est non riuscirebbe a formarli. Ora, pare che nell’area mediterranea non vi siano tracce di bacini del genere. Così, avanzando nel tempo, potremmo assistere in successione alla formazione del bacino di Alboran e della fossa di Valencia che provocarono il distacco dal margine europeo del blocco balearico e di quello sardo-corso. La successiva apertura del bacino ligure-provenzale divide definitivamente il blocco balearico, rimasto da allora stabile, da quello sardo-corso che scorre verso Est, con l’apertura del Tirreno che provocherà la rotazione antioraria della bellissima Penisola italiana, tanto cara a Dio e a tutti gli abitanti della Terra. A un certo punto, eccettuato una parte dello Jonio, tutta la crosta oceanica fra il Mondo Perduto e Africa si disgrega e per la nostra zolla iniziano i guai seri. L’Europa non si spezza e gli immani sforzi abissali dividono il piccolo Continente Perduto in vari tronconi: la zona di Alboran, la Kabilia, i monti Peloritani e la Calabria. Attraverso varie migrazioni i frammenti raggiungono l’attuale configurazione e, molto probabilmente, una sezione di questo Mondo Perduto è nascosta sotto il mare che divide Sicilia e Africa dalla Sardegna. Se sul modello c’è una generale identità di vedute, con qualche incertezza sulla subduzione dell’oceano betico, quando si considerano i movimenti delle piccole placche in gioco, la loro causa e la genesi dell’intero sistema vulcanico fra Spagna, Sardegna Toscana e Italia meridionale, le cose si complicano e ogni studioso offre la sua “versione” dei fatti. Riusciranno in futuro gli scienziati a fornire un quadro più condiviso? Se la vicenda del Mondo Perduto semplifica la geologia mediterranea, complica di più la geologia dell’Appennino settentrionale ed allontana definitivamente la nozione di “previsione scientifica dei terremoti” dalla geofisica, dalla sismologia, dalla tettonica, ossia dalla ricerca galileiana. Chi oggi afferma nel mondo che nei disastri Emiliano, Aquilano, Giapponese, Cileno, Neozelandese, “era già tutto previsto”(perché com’è noto i terremoti non si possono prevedere), deve anche saper risolvere queste problematiche e deve poterlo fare non a chiacchiere ma matematicamente ovvero con una Macchina del Tempo. Certamente era da diverso tempo che i geologi facevano notare che l’alto Ferrarese e parte del Modenese erano terre ballerine, forse con un grado di rischio superiore di quanto formalizzato dalla Carta del rischio sismico, che nel 2003 ha inserito anche queste terre “Padane” nel novero delle zone sismiche. Il fatto è che, contrariamente a quanto si pensava fino a fine degli anni Novanta, anche la Pianura Padana può in realtà essere interessata dai terremoti di magnitudo 6 e superiori, poiché soprattutto sotto l’Emilia Romagna esiste un vero e proprio Appennino sepolto. Ossia quella famosa serie di Pieghe che da tempo immemorabile si muovono l’una sull’altra e che, prima o poi, avrebbero potuto scaricare la loro energia generando terremoti importanti, sopra il sesto grado della scala Richter. Come in effetti è avvenuto nel 1570 a Ferrara, nel 1624 ad Argenta ed ai nostri giorni. Fenomeni energetici che possono interessare indistintamente ogni punto, città, villaggio, contrada, casa, metropoli del Belpaese, lungo le fasce costiere e la dorsale appenninica! Questo i politicanti lo ignorano. Per quale motivo? Certamente non per motivi economici. La Regione Emilia Romagna, come le sue Province e gran parte dei Comuni, si sono dotati di un proprio Servizio Geologico, e analogamente i loro strumenti urbanistici prevedono studi geologici per stabilire dove e come è meglio costruire. Ma è stato solo negli ultimi vent’anni che in Italia si è cominciato a prendere in attenta considerazione il rischio sismico, grazie alle ricerche svolte dal Cnr, dall’Ingv, da centri universitari italiani ed esteri come l’Usgs, e da grandi scienziati. Il lavoro di (in-)formazione svolto da vari professionisti, come i giornalisti scientifici, i geologi, gli ingegneri e gli architetti può contribuire a salvare vite umane. Questo “clima” culturale, ad esempio, ha condotto all’adozione della nuova Carta nazionale del rischio sismico (o di Pericolosità sismica) che è già più che sufficiente, se adottata veramente senza condoni e proroghe di sorta, per evitare catastrofi come quelle di L’Aquila e dell’Emilia Romagna. I terremoti, infatti, non uccidono se “costruisci la tua casa sulla roccia”. Inoltre, come affermano i ben più illustri colleghi, basare le previsioni e le politiche di prevenzione su puri dati storici, statistici, probabilistici e deterministici, non fornisce un’informazione completa su ciò che potrà succedere alle persone. Forse si sarebbe dovuto valutare in modo più attento il grado di sismicità che le Pieghe Ferraresi, il famoso Appennino sepolto che abbiamo sotto i piedi, può comportare. Ciò vale assolutamente anche per la costa adriatica e tirrenica. È noto che la nuova Carta sismica nazionale, elaborata già a partire dal 1997 ed adottata nel 2003, ha anche risentito di pressioni politiche dei vari sindaci che hanno fatto la spola con Roma per “rimuovere” il loro comune dalle zone a rischio, forse a causa dei costi che questo avrebbe potuto comportare. Una vergogna internazionale! Altro aspetto incredibile è l’edificazione di capannoni industriali che ora (Mirandola e Cavezzo) vengono giù come castelli di carte, uccidendo gli operai che vi lavorano durante la più spaventosa crisi economica dal 1929. È semplicemente scandaloso! Se il puro criterio statistico che quantifica la probabilità del Rischio sismico in base a quanto è successo in un passato relativamente recente, non è del tutto soddisfacente, nessuna giustificazione può essere adottata alla luce degli studi scientifici illustrati e in corso d’opera. È come se valutassimo la pericolosità del tracciato di una strada solo in base a quanti incidenti si sono verificati nei vari tratti. Se una strada ha una curva assai pericolosa, anche se fino ad oggi gli incidenti sono avvenuti altrove, quella curva bisogna segnalarla lo stesso, perché possiamo ragionevolmente prevedere un incidente improvviso. In Italia non esistono comuni, come quelli colpiti dalle scosse di questi giorni, che si possano classificare come “meno rischiosi”. Quale sindaco oggi potrebbe sostenere il contrario? La Pianura Padana non è una zona a-sismica. La costa adriatica non è a-sismica. Di “a-sismico” in Italia ci sono solo la Sardegna e una parte della Puglia che poggiano su zattere rigide che si muovono molto lentamente. Anche la liquefazione delle sabbie non può essere una giustificazione alla mancata messa in sicurezza di città e luoghi di lavoro. Il territorio di Ferrara è composto in prevalenza da argille, limi e sabbie che, quando s’inzuppano d’acqua per via delle falde quasi affioranti, sotto la pressione di un sisma si sciolgono. L’acqua si separa dalla sabbia ed “erutta” in superficie trascinando limo e sabbia, producendo una destrutturazione del terreno e danneggiando gravemente gli edifici che vi sono mal-costruiti sopra. Non è un caso che le aree più flagellate dal terremoto come San Carlo, Sant’Agostino e Mirabello poggino su una fascia di terreno sabbioso, depositato in oltre trecento anni dal fiume Reno che passava di lì tra la fine del ‘400 e il 1775. Ad un terremoto simile reagisce bene solo la roccia! Dove la liquefazione non può avvenire. Provate in spiaggia a dare un calcio a un secchiello pieno di sabbia imbevuta d’acqua. Oltre a far piangere il vostro bambino, vi accorgerete che l’acqua viene in superficie. È accaduto in Emilia Romagna. Un bambino cattivo, con la complice indifferenza politica di questi anni, ha dato un calcio al secchiello della Pianura Padana, uccidendo 24 persone. In Pianura Padana le faglie deviano il corso dei fiumi per effetto di strutture geologiche nascoste, le stesse che scatenano i terremoti, secondo lo studio di un gruppo di geologi dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, pubblicato alcuni anni fa su “Annals of Geophysics”, ma che ritorna di stringente attualità. L’individuazione delle strutture sepolte è soltanto il primo passo verso la piena comprensione del fenomeno in atto. “Le strutture sepolte – fa notare Gianluca Valensise, coautore dell’articolo scientifico – sono ben delineate dalle mappature che furono ottenute dall’ENI all’epoca d’oro dell’esplorazione petrolifera in Pianura Padana, ovvero tra gli Anni ‘40 e ‘70 del XX Secolo. Queste mappature utilizzavano la tecnica nota come ‘sismica a riflessione’: in pratica veniva fatto brillare dell’esplosivo e con un gran numero di sismografi disposti lungo allineamenti opportunamente tracciati si misurava il tempo di percorso delle onde sismiche tra la superficie, gli strati rocciosi sepolti che riflettevano parte dell’energia, e l’arrivo dell’energia rimbalzata in superficie. Questo consentiva di ‘disegnare’ il sottosuolo, e in particolare di delineare le cosiddette anticlinali, strutture derivanti dalla compressione degli strati rocciosi simili alle pieghe che si formano su un tappeto spinto contro il muro. Poiché il petrolio tende ad accumularsi nelle anticlinali, conoscere l’esatta posizione di queste ultime consentiva di perforare a colpo quasi sicuro ed estrarre petrolio (o gas naturale). Il paragone con il tappeto è accattivante ma incompleto, perché trascura il fatto che nel mondo reale le anticlinali sono la riposta superficiale ‘morbida’ all’accavallamento delle sottostanti rocce, più rigide, lungo le faglie, i piani di rottura che generano i terremoti”. E in effetti nell’applicazione che stiamo descrivendo sono le faglie, con le loro dimensioni e geometria, a formare l’oggetto della ricerca. “Il movimento della faglia profonda (da 5-10 Km ad alcune decine di Km) dunque genera un’anticlinale che pur essendo, come nella Pianura Padana, completamente ricoperta da un materasso di sedimenti marini e alluvionali, spesso anche molte migliaia di metri, può comunque arrivare a deformare debolmente la superficie topografica, creando blande ma ampie depressioni o inarcamenti. Attraverso il tempo geologico l’attività tettonica finisce per interagire con il reticolo fluviale, attirando i fiumi nelle depressioni e respingendoli dalle zone che sono in crescita”. Le deviazioni dei fiumi influenzano fortemente la rete insediativa, costringendo le popolazioni ad abbandonare le aree depresse, spesso invase dall’acqua, ed a spostare città e linee di comunicazione all’asciutto. “Le stesse deviazioni segnalano a noi geologi del terremoto quali delle numerose coppie faglia-anticlinale che esistono sotto la Pianura Padana sono ancora attive, e quindi sono in grado di generare terremoti”. Gli stusiosi cercano così di capire da quali forze e movimenti terrestri su piccola e grande scala sono determinate queste strutture. “Sia l’Appennino che le Alpi sono due classiche catene montuose, che evolvono spostandosi la prima verso Nord-Est e la seconda verso Sud. Il sottosuolo della Pianura Padana è il luogo di incontro di queste due catene, che idealmente ‘strizzano’ questa grande area depressa ad una velocità che i dati satellitari (GPS) indicano essere dell’ordine del millimetro per anno. In questo grande meccanismo geodinamico bisogna distinguere il sollevamento delle due catene nel suo complesso, ad una scala dell’ordine dei 100-200 km e con una velocità massima di 1-2 metri per millennio, dal sollevamento delle singole anticlinali, misurabile alla scala dei 5-20 km e con velocità che non superano i 50 cm per millennio. Poiché le anticlinali crescono lentamente e poiché invece la pianura tende ad essere velocemente colmata di sedimenti, è molto probabile che queste strutture restino sepolte per sempre, fino addirittura ad essere letteralmente ‘soffocate’ e bloccate dal peso dei sedimenti soprastanti”. Gli studiosi così calcolano l’entità delle deviazioni imposte ai corsi d’acqua. “Le deviazioni fluviali possono essere imponenti. Il Po, ad esempio, fino al XII secolo d.C. passava per Ferrara e si divideva nel Po di Primaro e nel Po di Volano, che sfociavano nell’Adriatico rispettivamente a Sud ed a Nord delle attuali paludi di Comacchio. Con la Rotta di Ficarolo del 1152 il Po abbandonò questo percorso e si riassestò come Po di Goro e Po di Tramontana, parecchie decine di chilometri più a Nord. Tutto questo per effetto della progressiva crescita di un’anticlinale che poi – guarda caso – coincide con la dorsale sepolta che conosciamo come Dorsale Ferrarese e che ha generato il terremoto del 20 maggio 2012. Sul lato meridionale della stessa anticlinale il fiume Reno incontrava la stessa difficoltà a ‘svalicare’ la Dorsale Ferrarese, e questo avveniva proprio tra Finale Emilia, Sant’Agostino e Bondeno, tre tra le località maggiormente colpite dal terremoto del 20 maggio scorso. Con i secoli si è quindi trasformato da affluente del Po a corso d’acqua che – con enorme fatica – tenta di andare verso il mare autonomamente. La Pianura Padana è stata spesso snobbata dai geologi, che la consideravano noiosa (sicuramente meno interessante di un paesaggio dolomitico!), debolmente considerata dai sismologi, che spesso ed erroneamente hanno ritenuto che la sua piattezza indicasse la sua incapacità di generare terremoti, e vista da molti semplicemente come un territorio utile per l’agricoltura e l’industria. Pur nella sua drammaticità il terremoto del 20 maggio ne ha mostrato invece le caratteristiche invisibili a occhio nudo, ma che in realtà ne condizionano profondamente l’evoluzione, creando ponti impensabili tra terremoti, geologia, uso del territorio e sviluppo della rete insediativa. C’è da aspettarsi – conclude lo studioso – che questo terremoto darà l’impulso ad una nuova stagione di studi e ricerca scientifica su questa importante porzione del nostro territorio”. Anche perché l’Ingv non fornisce alcun servizio di previsione sismica. Ed allora che farsene delle insistite domande, dei desideri di polemica sulla prevedibilità di questi fenomeni, del malcelato desiderio di veder accusato qualcuno per non aver previsto la tragedia, quando la soluzione a portata di mano è soltanto una: costruire tutto bene come sulla roccia? Accusare serve solo a distrarre dal necessario esame di coscienza su ciò che è già stato fatto in tutta Italia per vivere in un Belpaese a forte sismicità. Il fatto giuridico, politico, culturale e morale che in Italia la Mappa sismica è facoltativa, invoca Giustizia al cospetto di Dio. Aggiornare la Carta del rischio sismico o della pericolosità sismica dell’area colpita dai recenti terremoti o addirittura di tutta l’Italia, servirà a costruire meglio o piuttosto sottrarrà risorse per evitare di farlo a regola d’arte? I terremoti emiliani sono avvenuti in una zona che non era stata classificata come sismica fino al 2003, a dispetto di molteplici evidenze fornite dagli studi scientifici. La Mappa di pericolosità sismica di riferimento per il territorio nazionale (Ordinanza PCM 3519 del 28/04/2006. Criteri generali per l’individuazione delle zone sismiche e per la formazione e l’aggiornamento degli elenchi delle medesime zone, G.U. n.108 del 11/05/2006), considera la zona a pericolosità media. I parametri dei terremoti avvenuti sono compatibili con le assunzioni che stanno alla base della mappa citata. In particolare, viene ipotizzata per questa zona una magnitudo massima pari a 6.2 Richter. L’assegnazione dei comuni a una delle quattro zone sismiche, sulla base della suddetta mappa di riferimento, è assegnata dalla legge alla competenza delle Regioni, non degli istituti di ricerca. L’applicazione delle norme sismiche del 2003 ha proceduto a rilento, anche perchè era rimasta in vigore la possibilità di applicazione delle normative precedent. Le nuove Norme Tecniche per le Costruzioni, deliberate nel 2008, fanno riferimento ad azioni sismiche ottenute dalla sinergia fra Ingv e Dipartimento della Protezione Civile. Tuttavia, queste norme sono entrate in vigore in tutta l’Italia solo all’indomani del terremoto di L’Aquila del 2009. A causa di questi ritardi, nelle zone colpite in questi giorni si è accumulato un notevole deficit di protezione sismica, che è in parte responsabile dei danni avvenuti. Una situazione analoga interessa un notevole numero di Comuni, localizzati principalmente nell’Italia settentrionale. Secondo l’Ingv la mappa di pericolosità sismica di riferimento è perfettibile, ma l’eventuale aggiornamento che tenga conto solo degli ultimi terremoti non ne determina, complessivamente, variazioni significative. Per la serie: è più urgente che venga assicurato il suo pieno recepimento da parte delle Regioni e che vengano ulteriormente sviluppate le iniziative per la riduzione della vulnerabilità sismica, già avviate in alcune zone del Belpaese. “Non appoggiarti all’uomo: deve morire. Non appoggiarti all’albero: deve seccare. Non appoggiarti al muro: deve crollare. Appoggiati a Dio, a Dio soltanto. Lui rimane sempre!”(san Francesco d’Assisi).
Nicola Facciolini
Da geologo concordo pienamente, occorre un cambiamento drastico nell’approcio al rischio sismico, i “livelli” alti di INGV e Protezione Civile (quindi la parte politica di queste strutture e non i tecnici collocati alla “base”) dovrebbero farsi un’esame di coscienza! Io dico basta alle carte di rischio sismico realizzate con un sistema probabilistico antropocentrico!!! Le carte di rischio sismico devono essere realizzate in funzione delle strutture geologiche presenti. L’Italia DEVE ESSERE considerata TUTTA sismica (forse si salvano Sardegna e Sud della Puglia) e costruire con tecniche fino a 7- 8 di magnitudo. E’ ora di dire BASTA!!!! Occorre modificare tutto il sistema in modo da portare gli Italiani a NON AVER PAURA CHE CROLLI IL TETTO DELLA PROPRIA CASA!!