Da tempo non passa domenica in Nigeria, che la comunità cristiana non sia vittima di un qualche attentato, perpetrato in nome di un dio senza pietà, in una guerra vile e irragionevole, che ha già causato 600 morti dall’inizio dell’anno.
L’ultimo ieri, con un kamikaze alla guida di un’autobomba fatta esplodere in una chiesa, durante la funzione domenicale, con almeno quattro morti e una cinquantina di feriti, anche molto gravi.
Dall’inizio degli anni 90, dietro le quinte d’una guerra tra minareti e campanili, si fronteggiano senza tregua gli hausa-fulani e i birom, le due etnie che rivendicano il controllo del territorio.
I primi, prevalentemente musulmani, vengono discriminati dal governo locale in mano ai rivali cristiani, che li classifica “settlers” e nega loro i diritti concessi agli indigeni.
Dopo l’attentato di ieri, l’ultimo di una sanguinosa serie senza fine, avvenuto a Jos, nel Centro del Paese, nella chiesa di Christ Chosen, Padre Matthew Kukah, vescovo di Sokoto, città del Nord-Ovest a prevalenza mussulmana, dice i suoi parrocchiani non hanno paura in quanto comunità, perché i cristiani nigeriani non sono una minoranza religiosa isolata e minacciata, “ma vivono nell’angoscia in quanto cittadini guidati da un governo incapace di garantire la sicurezza in chiesa e in nessun luogo”.
Dopo l’attentato alcuni giovani cristiani inferociti hanno circondato la zona tentando anche d’impedire l’accesso alle forze dell’ordine, ha raccontato alla Reuters il testimone Emanuel Davou.
In serata si mormorava di due persone linciate dalla folla, “una situazione non ancora chiarita” secondo il responsabile della polizia del Plateau (la regione di Jos), Emmanuel Ayeni.
Jos e le città vicine sono una delle zone più instabili della Nigeria. Migliaia di persone sono state uccise negli ultimi anni in scontri tra etnie cristiane e musulmane.
Gli attacchi sono in aumento nel centro della Nigeria, zona a maggioranza musulmana, e nel sud, dove si trova il petrolio e a dominanza cristiana. I fondamentalisti islamici dei Boko Haram hanno rivendicato una serie di attentati mortali negli ultimi mesi, soprattutto nel nord della Nigeria.
Il gruppo ha già preso di mira i cristiani in diverse occasioni: l’attacco più grave è quello avvenuto il giorno di Natale quando un’autobomba è esplosa in una chiesa di Abuja provocando 44 morti. I Boko Haram rivendicarono l’attentato minacciando altre rappresaglie.
Su La Stampa lo studioso nigeriano Ibrahim Pam, consulente della International Criminal Court dell’Aja, si è detto molto preoccupato ed ha aggiunto che: “da quando nel 1999 la politica si è trasferita nelle moschee e nelle chiese la situazione è degenerata. Non dimenticherò mai il mio ingresso a Jos all’indomani degli incidenti del 7 settembre 2001, i corpi massacrati per la strada, i luoghi di culto distrutti, l’inferno”.
All’alba del nuovo attacco (una settimana fa un’autobomba aveva ucciso 12 persone a Yelwa) le domande si moltiplicano in assenza di risposte.
E torna in mente la profezia dello storico israeliano Benny Morris di fronte al referendum per l’indipendenza del Sudan meridionale: “Lo scontro finale tra Oriente e Occidente si giocherà in terra d’Africa”.
Nonostante una crescita del 7,4% e un forziere pari all’80% delle risorse africane di gas e petrolio, la lotta per il potere camuffata da guerra interconfessionale ha ucciso, in Nigeria, oltre 13 mila persone in dieci anni, 2 mila solo nel distretto Plateau (dove si trova Jos).
Sempre ieri, nella stessa Nigeria, è stato liberato da un blitz della polizia, il centrocampista del Lecce Christian Obodo, rapito sabato nella città di Warri.
Obodo, giocatore di proprietà dell’Udinese, si trovava in vacanza in Nigeria, suo Paese natale.
Secondo quanto riferito da Charles Muka, portavoce della polizia dello Stato del Delta dove è avvenuto il sequestro, diversi suoi sequestratori sono stati arrestati.
Muka non ha voluto aggiungere dettagli sull’operazione, soprattutto su come le autorità siano riuscite a trovare e liberare il giocatore. In passato, però, le agenzie di sicurezza nigeriane hanno seguito le trasmissioni dei telefoni cellulari per trovare sospetti sequestratori. I rapitori, che non si sono mossi dallo Stato del Delta mentre tenevano Obodo in ostaggio, avevano contattato la famiglia del calciatore subito dopo il sequestro, chiedendo un riscatto di 187.500 dollari.
I calciatori nigeriani e le loro famiglie sono più volte stati oggetto di rapimenti.
Lo scorso agosto due soldati e altri uomini prelevarono il padre di John Obi Mikel, giocatore del Chelsea, sempre nella città di Jos. Fu richiesto un riscatto di 4 miliardi di dollari ma, anche in quel caso, il rapito venne liberato.
Ancora, nel 2008, alcuni banditi rapirono il fratello minore del difensore dell’Everton Joseph Yobo, all’uscita di un night di Port Harcourt, la città più grande del Delta.
Il ragazzo venne poi rilasciato due settimane dopo, senza che avvenisse alcun pagamento.
Tornando alla difficile situazione dei Paesi africani compresi nell’area definita “Gheddafistan”, che comprende Libia, Mali, Nigeria e Burkina Faso, anche se l’Occidente fatica a comprendere la caotica situazione, resa più grave da un governo inisrtestente e diviso dopo la morte di Gheddafi, nel Sahel al Qaida ha trovato un nuovo santuario in cui impiantarsi, crescere e diramarsi.
Questo santuario è arroccato nella regione del Mali dell’Azawed (“la terra dove c’è il pascolo”, in tamasheq, la lingua tuareg) che recentemente ha proclamato una sua fantomatica secessione e autonomia. Le tre province dell’Azawed sono state spartite tra Mokhtar Belmokhtar, il leader locale di al Qaida che si è impadronito con i suoi combattenti della città di Gao, mentre Timbuctù è stata occupata dal movimento Ansar Eddin e il Mnla si è impadronito della provincia di Kidal.
A marzo l’esercito maliano si è ritirato in disordine da queste province, è rientrato nella capitale Bamako, ha effettuato un golpe deponendo il presidente Amadou Toumani Tourè e ancora oggi la comunità internazionale non ha chiaro chi controlli capitale e paese.
Come scrive l’espero di fatti africani Carlo Panella su L’Occidentale, è facile intravvedere la formazione di una “faglia di frattura tellurica” dalla spiccata matrice islamista e qaidista, che parte della Mauritania e dal sud dell’Algeria, attraversa il Mali, si protende verso la Nigeria.
Per ora è isolata verso est dal fragile schermo del Niger e del Ciad, ma trova un nuovo campo d’azione e d’impianto nel Darfour e soprattutto nel Sud Sudan, ormai in stato di guerra col Sudan.
Il fatto è che, come spesso accade, le notizie concernenti l’Africa e l’Africa sub-sahariana in particolare, scompaiono ben presto dai titoli dei principali organi di informazione internazionali, tanto più da quelli italiani.
Sicchè della crisi del Mali si sa poco o nulla, anche se rischia di incendiare quella zona già ad altissimo rischio.
Lo stallo della situazione politica nel Paese africano non lascia intravedere possibili soluzioni nel breve termine, soprattutto considerato il basso profilo tenuto delle principali potenze mondiali.
L’aggressione dello scorso 21 maggio al presidente ad interim Diouncounda Traoré ha evidenziato la fragilità del recente accordo di transizione tra la giunta militare, frutto del putsch militare dello scorso 22 marzo, e l’ECOWAS (CEDEAO in francese), ovvero la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale.
A fronte dell’intricato puzzle maliano, la sostanziale inattività e le blande e prudenti dichiarazioni delle grandi potenze hanno sinora mostrato lo scarso interesse per una situazione che appare suscettibile di condurre a scenari imprevedibili e preoccupanti nel Sahel e, più in generale, nell’Africa centro-settentrionale: una chiara esemplificazione della recente attitudine delle potenze mondiali (e in particolare delle potenze occidentali) rispetto al continente africano caratterizzata dal sostanziale disimpegno, pur a fronte di situazioni rilevanti sul piano strategico.
L’incertezza sul futuro assetto istituzionale del Mali e il concreto rischio di secessione del Nord, già controllato da gruppi separatisti, hanno già prodotto una serie conseguenze sul piano umanitario e su quello delle violazioni dei diritti umani, come denunciato nel rapporto “Mali: Retour sur cinq mois de crise – rébellion armée et putsch militaire”, pubblicato pochi giorni or sono da Amnesty International.
Carlo Di Stanislao
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