Non fa molta differenze se, da morto, ti rubricano in cardinali o ordinali: resti la 51° vittima italiana in terra afgana, un’altra vita immolata nel tentativo sempre più irrisolto di portare la pace in un territorio tormentato e lontano.
Avevi trent’anni, un soffio di vita appena ed una lunga esistenza a cui pensare.
Il tuo nome Manuele Braj, carabiniere scelto, nato a Galatina, in provincia di Lecce, con moglie ed un figlio di solo otto mesi, in servizio a Gorizia, nel 13esimo reggimento.
Domenica mattina, alle 6,20 ora italiana (le 8,50 locali) un razzo sparato contro la base di Adraskan, dove con altri tuoi compagni dell’Arma stavi addestrando la polizia afgana, ti ha ucciso, ferendo gravemente due tuoi commilitoni.
C’è chi ha pensato ad un errore fatale ma poi, in serata, come una gelida lama penetrata nella carne, è giunta la rivendicazione da parte di un portavoce degli insorti: “È stata un’operazione condotta dai nostri mujaheddin”.
La tua morte, come quella degli altri cinquanta prima di te, ha scosso politica ed istituzioni.
Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha inviato un messaggio di cordoglio ai tuoi familiari, così come anche i presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani. Il premier Mario Monti ha ricordato che “il nostro Paese sta facendo uno sforzo molto grande in Afghanistan a sostegno della stabilità e della sicurezza contro il terrorismo internazionale”.
“Siamo stanchi di mandare i nostri soldati a morire, siamo stanchi di assistere inermi a questo massacro quotidiano” ha detto invece Antonio Di Pietro e credo, tanti (io fra questi) la pensano come lui.
Oggi, come da canovaccio, il Governo sta riferendo alla Camera, mentre la tua salma rientrerà in Italia domani mattina.
I due tuoi compagni sono stati operati per le fratture riportate alle gambe. Stanno abbastanza bene e torneranno a casa non appena le loro condizioni ne permetteranno il trasferimento.
Ma restano, intanto, tutti i lati oscuri di una guerra crudele e infinita, che nessuno vince e che perdono in tanti e da ambo le parti.
Ed anche nel mondo che pare lontano dai campi di battaglia si combattono guerre non meno crudeli, con vittime in numero crescente, presi da scoramento totale (a volte suicidiario), in un universo che non esce dalla una crisi tanto globale quanto infinita.
Ieri, a poco più di 48 ore dal vertice dei capi di governo che deciderà delle sorti dell’Europa, la Merkel ha gelato i mercati (con maglia nera a Piazza Affari, che ha bruciato in un giorno 12 miliardi), ribadendo che lei non ha cambiato idea: gli Eurobond sono negativi ed occorre soltanto incentivare il rigore.
Oggi, poi, anche Cipro chiede aiuto all’Europa, per 2-4 miliardi, per far fronte alle esposizioni bancarie.
In Grecia, inoltre, l’aria non migliora, con il premier eletto che si opera agli occhi e il ministro dell’economia che dà forfait, accampando problemi di salute.
Cresce la febbre dello spread e si tocca il valore soglia del 6% sugli interessi relativi ai nostri titoli di stato, mentre la tenuta di Monti e sempre più in discussione e la sua figura indebolita, dalle pantomime dei vari partiti.
Oggi, il presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella, apre la sua prima relazione annuale dedicando alcune considerazioni alla crisi, alla necessità di superare i corporativismi per uscire dal tunnel e insistere sulla crescita e sottolinea, anche, come la concorrenza, in tali periodi, sia essenziale.
Di fronte alla crisi, da un lato c’e’ bisogno di Europa, osserva Pitruzzella, ma dall’altro, visto che l’austerity da sola non basta, “l’imperativo dei nostri giorni e’ rilanciare la crescita economica”, anche perché “se non facciamo ripartire il motore della crescita non sarà neppure possibile mantenere la coesione sociale”. In questo scenario, per il presidente dell’Antitrust, la concorrenza può svolgere un ruolo di motore, veicolo alla crescita, e quindi, “resta forte la necessità di mantenere ferma, anche in periodi di crisi, la rigorosa applicazione della normativa a garanzia della concorrenza e continuare ad assicurare una decisa repressione degli illeciti anticoncorrenziali”.
“In periodi di recessione – sottolinea Pitruzzella – acquistano forza le sirene del protezionismo e della tutela delle imprese più deboli contro il pericolo della loro estromissione dal mercato. Non e’ questo il modo per perseguire gli obiettivi di coesione sociale”.
E tutti, nei vari giornali, ha proporre formule e dettare strategie: sull’unità economica, su quella politica o addirittura (Sartori sul Corriere) doganale.
Contrariamente al parere di Pitruzzella, l’anziano politologo, che già nel 1993 scriveva che la globalizzazione economica – non quella finanziaria, che è cosa diversa – è un errore per la semplice ragione che a parità di tecnologia i Paesi a basso costo di lavoro avrebbero messo in disoccupazione i Paesi benestanti; ora dice che sarebbe esiziale tornare alla lira o alla dracma, mentre l’unica via d’uscita e l’unione doganale dell’eurozona, con nessun dazio, nessuna dogana, all’interno di eurolandia; ma, all’occorrenza, come fanno Inghilterra ed USA, dazi e protezioni per salvare quel che non ci possiamo permettere di perdere.
Una idea nuova, leggendo la quale, chissà per quali strani giochi associativi, mi è venuta in mente la posizione di Pino Aprile, espressa in “Terroni” e che dice, pressappoco, che la pesante considerazione che vuole i terroni tutti sporchi e cattivi e che portano via il lavoro ai locali, sono maleducati, cafoni e rumorosi è in parte anche vera.
Ciò che ha cambiato, per un poco almeno, le cose, è stato, nel 1861, non solo i grandi ideali di politici e pensatori che aspiravano a un’unica, grande patria, ma, soprattutto, il fatto che il Nord era indebitato, con i Savoia che erano stati poco oculati nell’amministrazione e spendaccioni, mentre al Sud, Ferdinando di Borbone, aveva impostato il suo regno con un modello socio economico efficace e produttivo, a cui tutti avrebbero dovuto ispirarsi. E sono cambiati per serietà i terroni e per dignità i polentoni del Nord del Paese.
Riportando questo ai nostri giorni, poiché, come ci dicono gli storici, la storia si ripete,con mutamenti di ambiti e scenari, perché non immaginare che l’oculata e ricca Germania non possa cedere un po’ della sua ricchezza ai terroni spendaccioni, che però mostrino ravvedimento e volontà di cambiare condotta?
Ma, allora, ci vogliono segnali chiari e niente risse politiche o divisioni di quartiere e neanche emendamenti bocciati dallo stesso governo, che si dice innovatore e serio, ma che esprime parere sfavorevole, alla Camera, nella parte, della spending rewiew, che riguarda il massimale di 6.000 Euro per le pensioni degli alti dirigenti dello Stato.
Strana serietà per coloro che limiti alle tasse e riforma delle pensioni l’hanno applicate e in modo svelto, per tutti gli altri, con durezza e migliaia di esodati.
Carlo Di Stanislao
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