La tensione fra Siria e Turchia ha raggiunto livelli critici e dopo l’abbattimento dell’F-4 turco da parte della contraerea di Damasco, oggi il giornale arabo al Quds al Arabi, citando il generale Mustafa al Sheikh, capo dell’Esercito siriano libero, scrive che il regime di Bashar al Assad avrebbe concentrato 170 carri armati lungo il confine con la Turchia.
Secondo il generale ribelle, dopo che due giorni fa la stampa di Ankara aveva descritto la creazione di “un corridoio di sicurezza” con lo schieramento di batterie antimissile, il governo siriano avrebbe concentrato carri armati e truppe lungo la frontiera che divide la Turchia dalla Siria, nei pressi della scuola al Masha, nei dintorni del villaggio al Musalamia, a nord est di Aleppo e a soli 30 chilometri dal confine turco.
Qui si troverebbe un ingente numero di carri e di uomini, pronti a respingere un’eventuale offensiva militare proveniente dalla Turchia, dove si trovano i capi dell’Esercito siriano libero dell’opposizione.
Martedì scorso, comunque, il premier turco, il nazionalista islamico Recep Tayyip Erdogan, pur usando toni durissimi verso l’ex-amico e alleato Assad, aveva anche detto che la Turchia non vuole la guerra, ma la sua linea di risposta ‘razionale’ alla distruzione della’F4 Phantom non deve “essere presa per un segno di debolezza, erroneamente”.
Secondo gli esperti ed i commentatori, per ora l’ipotesi di un conflitto con la Siria sembra poco probabile, anche per le conseguenze devastanti che potrebbe avere per tutta la regione e sui fragili equilibri fra sunniti, sciiti e alawiti in tutti i paesi dell’area.
Ma, sempre il 26, in serata, il presidente siriano Bashar al Assad, durante la prima riunione del suo nuovo governo, ha proprio usato – per la prima volta – la parola “guerra”.
“Stiamo vivendo una vera situazione di guerra – ha detto – e tutte le nostre politiche, tutti i settori e tutte le sedi devono essere guidati e indirizzati a vincere questa guerra”. Nessun cedimento e una secca risposta ai Paesi che hanno chiesto che se ne vada.
Secondo quanto riferito poi dal quotidiano di Ankara Vatan, che cita fonti del Dipartimento della Difesa Usa, la Turchia avrebbe chiesto alla Nato di creare una zona di esclusione aerea sulla Siria. La richiesta sarebbe stata avanzata nella riunione Nato di martedì scorso.
Intanto si attende con ansia la riunione del cosiddetto Gruppo di azione, che si terrà domani a Ginevra (sarà presente anche la Russia) e in cui si discuterà la road map messa a punto dall’inviato di Onu e Lega Araba, Kofi Annan.
Mosca, dal canto suo, continua a restare fredda di fronte a ricette proposte dall'”esterno”, ma Annan è ottimista sulla possibile soluzione della crisi.
E continuano le uccisioni di civili da parte del governo di Assad: 139 solo nella giornata di ieri secondo un calcolo dei Comitati di coordinamento locali dell’opposizione. Di questi, aggiunge la fonte, 59 sono morti nei sobborghi di Damasco, in particolare nei continui bombardamenti governativi sulla città ribelle di Duma, dove sono stati uccisi sei membri di una sola famiglia.
Altri 26 morti sono segnalati dai Comitati nella provincia di Homs.
Poche ore fa, in un appello disperato, l’Unicef ha dichiarato di avere urgente bisogno di 14,4 milioni di dollari Usa, per far fronte alle necessità di un numero crescente di bambini e adolescenti rifugiati siriani.
Finora sono 86.000 i siriani registrati come rifugiati in quattro paesi: di questi, il 50% è costituito da bambini e giovani, ma nel Piano di risposta regionale per la Siria coordinato dall’Unhcr si prevede che il totale dei rifugiati salirà a ben 185 mila entro dicembre 2012, e circa 90.000 di questi saranno bambini.
L’Unicef deve raggiungerli entro dicembre con vaccini, istruzione, protezione, acqua potabile e servizi igienici. Il Piano di risposta rivisto, lanciato ieri a Ginevra in una riunione del Forum umanitario sulla Siria, presenta un quadro complessivo di risposta umanitaria per i bambini rifugiati siriani e le famiglie in Turchia, Giordania, Libano e Iraq.
Per quanto attiene alla Turchia, che dal 31 maggio 2010, dopo l’assalto delle truppe speciali israeliane, che bloccò il tentativo di una spedizione di pacifisti, in gran parte di nazionalità turca, di forzare il blocco navale imposto da Israele alla Striscia di Gaza, vive difficili rapporto con Israele, sul piano internazionale gioca un ruolo fondamentale nel sistema di sicurezza occidentale, ma percepisce di non godere dei vantaggi di questo proprio ruolo. I
l processo di adesione all’UE che ormai si trascina da qualche decennio è l’esempio di come i paesi occidentali esitino a dare questo riconoscimento tangibile alla Turchia.
Il governo Erdogan a questo punto sembra voler ampliare il campo delle opzioni a disposizione con un avvicinamento ad altri paesi emergenti quali il Brasile e l’Iran.
Recentemente infatti è stato firmato un accordo nucleare tripartito tra Iran, Brasile e Turchia.
Non sembra ai più plausibile, comunque, interpretare le mosse attuali della Turchia come una messa in discussione della opzione pro-occidentale, a favore di una scelta panislamica. Piuttosto la Turchia vuole vedere dei riconoscimenti tangibili al proprio ruolo ed usa come mezzo di pressione il proprio riavvicinamento all’Iran, l’apertura ad Hamas, l’atteggiamento critico verso Israele.
Da questo punto di vista l’Unione Europea è messa particolarmente sotto-pressione.
Dopo l’assalto alla Mavi Marmara e la reazione turca il segretario alla Difesa USA Robert Gates ha attribuito ai tentennamenti dell’Unione nell’allargamento alla Turchia le motivazioni della virata della politica estera turca e il presidente Obama in un’intervista rilasciata nel 2010 al Corriere della Sera ha detto apertamente che il posto della Turchia è a pieno titolo in Europa.
I rapporti con La Siria si sono guastati, quanto la Turchia, da ex-amico, è diventata uno dei più convinti oppositori del regime di Bashar Assad e da tempo chiede un giro di vite per fermare la carneficina di civili operata dal presidente.
Il Paese della Mezzaluna attualmente ospita 32 mila rifugiati e nei mesi scorsi, una sparatoria iniziata in territorio siriano e continuata oltre la frontiera turca aveva procurato forte irritazione da parte di Ankara. Damasco, il 24 giugno, ha denunciato che alcuni terroristi sono entrati nel Paese dal confine turco, ma ora l’abbattimento dell’F-4 rischia di diventare un vero e proprio punto di non ritorno, anche per la comunità internazionale.
Intanto la Russia continua ad affermare che in realtà, mentre i “Ponzio Pilato” del Consiglio di sicurezza si lavano le mani con il sangue dell’iniziativa di Kofi Annan, il confine della Siria con Libano e Turchia diventa un campo di battaglia, dove migliaia di combattenti stranieri – di Afghanistan, Libia, Bosnia, Cecenia, emirati e sultanati arabi – si infiltrano e diffondono su tutto il confine, sostenuti da migliaia di mercenari arabo-atlantici. Anzi, sta diventando sempre più chiaro che i padroni della guerra imperialista contro la Siria vogliono, a qualsiasi prezzo, rovesciare l’equilibrio di potere a favore del governo siriano, ottenuto a seguito della caduta dell’emirato islamico di Bab Amr, lo scorso marzo.
Tutti i dati sul campo, accumulati di recente, indicano che la crisi siriana si sta dirigendo verso una esacerbazione militare che di certo non porta ad una guerra civile, come desiderato dagli imperialisti, ma al crollo del tempio di Dagon (dio delle sementi e dell’agricoltura nella cultura primigenia locale) sulla testa Sansone e dei Filistei assieme.
Secondo molta stampa Russa, dichiarando che la Siria è in stato di guerra civile, il segretario delle Nazioni Unite crea la falsa immagine di ciò che accade sul campo e mira a raggiungere diversi, sordidi obiettivi.
In definitiva, si sostiene da parte di costoro, che da un anno e mezzo ormai, si è stabilita una nuova “Santa Alleanza”, stretta fra l’imperialismo statunitense, il colonialismo europeo, l’islamismo turco e l’oscurantismo arabo, con principi divini la cui anima vera è, contrariamente a ciò che si crede, l’assolutismo arabo, al servizio dello strapotere economico statunitense.
Resta il fatto che, a marzo, il presidente Bashar al-Assad aveva visitato Homs, inoltrandosi nel quartiere di Bab Amr, dove i takfiristi siriani avevano proclamato, per un mese, un emirato islamico indipendente.
Ed aveva assicurato i residenti sfollati che lo Stato avrebbe ricostruito le loro case “molto meglio di prima”, e che avrebbero potuto presto tornare a casa.
Poi le cose sono andate molto diversamente.
Però c’è ancora chi, in Russia, dice che, su iniziativa del Dipartimento di Stato statunitense, un centro di intelligence è stato incaricato di “raccogliere, confrontare, analizzare” tutte le informazioni disponibili sulle violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità siriane, in vista del loro futuro giudizio da parte di una corte internazionale e che questo centro, ha come compito principale il coordinamento delle ONG già sovvenzionate direttamente o indirettamente da Washington, come ad esempio Amnesty International, Human Rights Watch e la Federazione Internazionale dei Diritti Umani, lavoro per il quale, il Dipartimento di Stato, quello stesso che ha cercato di incolpare Bashar Assad dell’assassinio dell’ex primo ministro libanese Rafik Hariri, mettendo assieme false testimonianze e false prove a carico; ha subito rilasciato 1,25 milioni di dollari e messo a disposizione il personale necessario.
Secondo questo punto di vista, lo scopo di al-Assad è quello di rilanciare l’economia e lo sviluppo del suo paese ed proprio per questo che il gruppo di lavoro co-presieduto dagli Emirati Arabi Uniti e dalla Germania, remano contro.
E, sempre secondo questa visione, fino a nuovo avviso, è che questo gruppo di lavoro debba camuffare il pagamento delle riparazioni di guerra da parte della Francia, in cambio della restituzione dei suoi ufficiali detenuti in Siria.
Alcuni ricorderanno che, alcuni mesi fa, 19 soldati francesi sono stati arrestati in Siria e che tre di loro sono stati restituiti al Capo di Stato Maggiore, ammiraglio Edouard Guillaud, durante la sua visita in Libano.
I negoziati sono proseguiti tra le due parti attraverso gli Emirati Arabi Uniti.
La Francia ha ammesso che i prigionieri sono suoi cittadini, anche se tutti hanno la doppia cittadinanza algerina o marocchina, ma negato che si tratti di militari in missione, sostenendo che si tratta di jihadisti, venuti a combattere su propria iniziativa e a sua insaputa.
Sicché la verità su questa intricata vicenda in cui, comunque, ogni giorno centinaia di innocenti muoiono, è una matassa davvero difficile da dipanare.
Carlo Di Stanislao
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