Il sogno del calcio è morto ieri notte e stamani, l ‘Istat, rende noto che Il tasso di disoccupazione, che a maggio si è attestato al 10,1%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali rispetto ad aprile, è in aumento di 1,9 punti rispetto all’anno precedente, ha raggiunto un tasso, per i 15-24enni, del 36,2%: un record, sia rispetto all’inizio delle serie storiche mensili del 2004, sia di quelle trimestrali del 1992, che, sin’ora erano stati gli indici peggiori di sempre.
Sempre oggi esce la fotografie a fosche tinte del XIV Rapporto di Almalaurea, sulla condizione occupazionale dei “neodottori”, con circa 400mila ragazzi coinvolti e secondo il consorzio interuniversitario, la disoccupazione dei laureati triennali è passata dal 16% del 2009 al 19% del 2010, dato che lievita anche per i laureati specialistici, passando dal 18 al 20%.
Non vengono risparmiati neanche gli specialistici “a ciclo unico” come i laureati in medicina, architettura, veterinaria, giurisprudenza, con, anche per loro, una disoccupazione passata dal 16,5 al 19%.
Incrociando i dati di Istat e Almalaurea, è evidente che l’Italia fa segnare una riduzione della quota di occupati tra i giovani ed i laureati, anche tra quelli con un’alta specializzazione, in controtendenza rispetto ai più importanti paesi Ue.
Un’asimmetria di comportamento che si è accentuata in questo periodo di recessione: mentre al contrarsi dell’occupazione, negli altri paesi è cresciuta la quota di occupati ad alta qualificazione, in Italia è avvenuto il contrario.
Non solo, probabilmente almeno una parte dei laureati che in questi anni sono emigrati all’estero, fanno parte del contingente di capitale umano che è andato a rinforzare l’ossatura dei sistemi produttivi dei nostri concorrenti.
E notizie poco confortanti arrivano anche sul fronte della remunerazione: lo stipendio a un anno dalla laurea (pari a 1.105 euro mensili netti per i laureati di 1° livello, 1.050 per gli specialistici a ciclo unico, 1.080 per gli specialistici), già non elevato, riduce ulteriormente il potere d’acquisto rispetto alle indagini precedenti (con una contrazione compresa fra il 2 e il 6%, solo nell’ultimo anno).
“I problemi della disoccupazione, soprattutto quella dei giovani, sono problemi angosciosi che noi dobbiamo in ogni momento ricordare quando ci troviamo ad agire e ad operare delle scelte”.
E’ uno dei passaggi del discorso che il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha tenuto il 26 giugno a Ravenna, in occasione dell’assemblea annuale dell’associazione provinciale.
Il numero uno di viale dell’Astronomia e’ tornato più volte sulle tematiche legate al lavoro, dicendosi convinto che “non possiamo andare avanti con una disoccupazione giovanile che supera il 35%, a cui si aggiunge la disoccupazione degli ultra 50enni”.
Tutto questo lo si dice spesso e da più parti ma, sin’ora, non si sono né trovate, né intraviste soluzioni.
A fine giugno, il 27, lo studio di Bankitalia “Economie Regionali”, aveva già rilevato cifre molto inquietanti per quanto riguarda la disoccupazione giovanile, specialmente al Mezzogiorno, dove il tasso di disoccupazione under 30 è addirittura il doppio rispetto a quello generale.
Nel 2011, spiegava il rapporto, è proseguito il deterioramento delle opportunità di lavoro nelle fasce di età più giovani. La quota di occupati sul totale della popolazione con meno di 35 anni è calata di 1 punto percentuale nel Nord e 1,8 al Centro, quella di occupati con 55-64 anni è cresciuta rispettivamente di 2,2 e 0,8 punti, anche per effetto del progressivo innalzamento dell’età di pensionamento.
Su “Linkiesta” si può leggere che sedicimila giovani ricercatori italiani se ne sono andati in America, per poter mettere in pratica le idee che in Italia non possono sviluppare.
Se ne parla da tanto, ma non si trova la soluzione.
E anche se tutti si aspettano che ora, con al governo dei professori che capiscono il valore della ricerca, la musica dovrebbe cambiare, in sette mesi non sembra cambiato proprio nulla.
L’8 giugno, nel giorno in cui la produzione industriale crollava del 9,2%, i giovani di Confindustria lanciavano o un appello alla politica, per varare una nuova legge elettorale e tornare a svolgere la funzione cruciale di collegamento tra istituzioni e cittadini.
Alla politica si chiedeva di riconoscere nei fatti e non a parole la centralità dell’impresa, agendo di conseguenza, perché non può essere tutto lasciato in mano alla tecnica e alla economia.
Siamo stanchi di frasi del tipo: l’Euro ci ha salvati dal sottosviluppo; l’Euro senza il Sud-Europa sarebbe una moneta fortissima; la stabilità del valore monetario è la chiave dello sviluppo; senza euro, catastrofi economiche e addirittura possibilità di guerre civili ed altre simili sciorinate da tecnocrati al servizio della sola economia e politici al servizio di loro stessi.
Tutte parole e tesi da dimostrare, il più delle volte indimostrabili, quasi sempre tecnicamente e politicamente superficiali o sbagliate.
L’Euro fu fatto, sostanzialmente, con due obiettivi: come strumento di integrazione europea e come valuta forte, sulla quale far convergere finanze da tutto il mondo, in alternativa a dollaro e yen. Ma, come è evidente ora, dopo 10 anni, i due obiettivi sono stati mancati.
Qualche giorno fa su Internet, un monetarista, guarda caso giovane, è tornato a proporre un serpente monetario: l’Euro resterebbe moneta di riferimento (come lo fu l’Ecu) per gli Euro-nazionali, che potrebbero oscillare su fasce percentuali, anche ampie, attorno ad esso. La politica monetaria tornerebbe agli Stati membri, finché gli Stati-Nazione non abbasseranno le proprie bandiere di fronte al progetto degli Stati Uniti d’Europa.
Tutti hanno parlato di stupidaggine, ma ne siamo proprio sicuri?
Certo è che la disoccupazione giovanile è uno spettro che si aggira anche tra gli altri stati membri dell’Unione Europea, dove la ricerca di un lavoro è altrettanto lunga e difficile, sebbene i giovani si dimostrino più qualificati rispetto al passato.
Il dossier dell’Aer, l’Assemblea delle Regioni Europee, rivela infatti che nei 25 stati membri dell’Unione europea , n media e già da molti anni e senza miglioramenti, il 20% dei ragazzi è disoccupato e molti altri devono accontentarsi di lavori precari e assolutamente inadeguati alla propria formazione scolastica.
Nonostante abbiano studiato di più e meglio, oggi i ragazzi europei mancano di contatti diretti con il mondo del lavoro, di esperienze concrete e di una buona formazione professionale che li immetta sul mercato e li renda davvero competitivi.
I dati più preoccupanti, oltre al caso italiano, sono quelli relativi alla Polonia e alla Grecia, con un tasso di disoccupazione giovanile rispettivamente del 36,4% e del 27,8%.
Ma non se la passano bene nemmeno Francia, Germania, Finlandia e Belgio, ma, in questi ultimi, a differenza de l’Italia, i governi hanno compreso la necessità di attuare politiche ad hoc per abbassare i tassi di disoccupazione e offrire ai giovani che escono dalle scuole e intraprendono i primi passi nel mondo del lavoro strumenti e servizi di sostegno e indirizzo, con politiche (e non tecniche) che puntano a sviluppare e a far emergere nei giovani la creatività, l’innovazione, l’imprenditorialità e l’impegno, tutte qualità fortemente apprezzate dalle aziende che tendono a ‘reclutare’ individui capaci di adattarsi costantemente ai cambiamenti.
Il sistema, fra l’altro, consentirebbe quei meccanismi svalutativi che, secondo gli economisti USA, sono gli unici che garantirebbero per Italia e Spagna una ripresa ed un recupero rispetto alla Germania.
Intanto accontentiamoci dei dati positivi dalle Borse che indicano, per quelle europee, i massimi da due mesi, con investitori che paiono rassicurati dall’inatteso pacchetto di misure deciso la scorsa settimana dai vertici a Bruxelles, come misure che possano contribuire a risolvere la crisi della zona euro.
Il calo dei rendimenti dei bond italiani e spagnoli è un altro segno del clima positivo, aiutato anche dalla revisione al rialzo dell’indice Pmi manifatturiero della zona euro di giugno.
Ma restano nei nostri cuori (e riecheggiano nelle nostre orecchie), le parole di Obama che continua a dire all’Europa “facciamo il possibile per crescere ora, la stabilizzazione dei conti è un piano più di lungo termine”.
Insomma, l’Italia, più ancora di altri Paesi, ha un bisogno straordinario di fare, con intelligenza, buonsenso e determinazione. Il tempo delle analisi, delle riflessioni è inevitabilmente scaduto. Il tempo del fare è già partito, e dobbiamo agganciarci, senza esitazione, alla ripresa “e mettercela tutta, puntando soprattutto sui giovani.
Carlo Di Stanislao
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