Con il suo “Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi” (edito da Mondadori) ha battuto Trevi per soli 2 punti e per meno di venti Carofiglio.
Quindi è stato Alessandro Piperno, dopo una lotta serrata a tre, a vincere la 66° edizione dello Strega: il premio letterario più prestigioso d’Italia, snocciolato sotto la cappa di un caldo africano, con i voti di gesso sulla classica lavagna di scuola, davanti alla solita folla di appassionati e amici, dell’intera filiera, o quasi, dell’editoria italiana, di nomi storici della letteratura e di giovani scrittori in cerca di gloria.
Particolarmente affollato il par terre, ripreso nei dettagli da Rai1, con Dacia Maraini, Alberto Bevilacqua, Inge Feltrinelli, il sindaco Alemanno, Paolo Mieli, Ettore Scola, Citto Maselli, l’ex ministro Giulio Tremonti, Sonia Bergamasco, Francesco Rutelli, Marina Ripa di Meana e Saverio Costanzo (munito di telecamera).
Molto staccati dal terzetto di testa, Marcello Fois con “Nel tempo di mezzo” (Einaudi) e Lorenza Ghinelli (unica donna nella cinquina finale) autrice di “La colpa” (Netwon Compton).
Io tifavo per Gianrico Carofiglio ed il suo noir “ Il silenzio dell’onda” targato Rizzoli e per Emanuele Trevi, che nel suo “Qualcosa di scritto” (Ponte alle Grazie), mette al centro della narrazione (contaminando romanzo e saggio) uno scrittore trentenne che si trova ad esplorare il mondo pasoliniano, preso quasi per mano da Laura Betti, una sorta di strega nell’antro del Fondo e di vestale del culto attorno all’intellettuale ucciso all’idroscalo.
Ma anche il libro di Piperno mi è parso bellissimo (anche se, forse, troppo complesso e barocco nelle sue geometrie), con al centro la saga di una famiglia di ebrei romani (Roma è presente in tre dei cinque finalisti), con due fratelli che, come i pappagallini, non sanno vivere se non stanno assieme, anche se sono profondamente diversi: indolente l’uno, refrattario a qualsiasi attività non riguardi donne, cibo donne e fumetti, determinato e brillante negli studi l’altro, impacciato nell’arte amatoria ed avviato a un’ambiziosa carriera nel mondo della finanza.
In questo suo ultimo romanzo il romano Piperno “ritrova” la famiglia Pontecorvo, già protagonista di “Persecuzione” e chiude il dittico del “Fuoco amico dei ricordi” con un’opera del tutto autonoma che, al tempo stesso, scioglie ogni nodo lasciato in sospeso dal primo libro.
“Inseparabili” è la storia di una famiglia che deve lottare con l’amore e il rancore, il lutto e la solitudine, fino alla resa dei conti. È il racconto verosimile fino al dettaglio di quanto fortuito e inarrestabile sia il meccanismo che genera un grande successo mediatico e insieme il ‘referto’ implacabile, scioccante, degli effetti che una pubblica glorificazione può sortire su chi ne è oggetto: sui suoi desideri, sul suo carattere, sulle relazioni con coloro che ama.
È un libro splendente, ironico, emozionante, percorso da una felicità narrativa che ricorda l’euforia di “Con le peggiori intenzioni”, la cui protagonista, Gaia, fa da guest-star in un velenoso cammeo. Un grande romanzo di oggi, veloce, crudele ma cadenzato dal passo classico di una Commedia umana che senza tempo si ripete.
Quanto a “Qualcosa di scritto”, era dal 1994 e dal suo esordio con “Istruzioni per l’uso del lupo”, che Emanuele Trevi non giungeva a punte di così alto e toccante lirismo, recuperando, in questo ultimo, splendido libro, sia in chiave narrativa che saggistica, l’esperienza contigua a quell’esordio, ossia l’apprendistato al Fondo Pasolini, l’iniziazione alla corte di Laura Betti, La Pazza (l’attrice premiata a Venezia per Teorema), sorretto dalla inossidabile convinzione (peraltro da noi pienamente condivisa) che la letteratura, non è, non può mai essere, un mero recinto di sospensiva ricreazione dall’«altro» della vita.
Ne viene fuori un libro (non ci si lasci ingannare dall’indicazione che recita “romanzo”, in copertina) metà autofiction metà saggio narrativo; l’ibrido tentativo (questa volta pienamente riuscito), di far cortocircuitare vicenda autobiografica ed occasione critica, vita e letteratura.
La rievocazione degli anni di frequentazione del palazzone di via Prati dove si trova il dedalo di carte del Fondo, costituisce così l’opportunità, per il critico-scrittore, di schizzare un trittico di ritratti dove, accanto (com’è naturale) al suo (“zoccoletta”, questo l’appropriato soprannome con il quale lo battezza da subito la Betti), trova posto quello della Pazza, tiranna incontrastata di quel regno, reclusa nel suo cosmo di passione-venerazione, devozione irrimediabilmente insoddisfatta per P.P.P., e che per il nostro diviene da subito un testo «sgradevole» ma «pieno di rivelazioni», nel suo discorso pronto ad esplodere sempre nel turpiloquio improvvisato (“carcere piranesiano di malanimo e disprezzo”); insieme al ritratto del Pasolini estremo, quello più misterioso, della postuma incompiuta (?) cattedrale di scrittura che è Petrolio.
Il moto d’idiosincrasia che istintivamente nutriamo verso quelle assai disturbanti letture della vita e dell’opera di P.P.P. in chiave politico-sociologica o come grimaldello per sondare dinamiche collettive (e personalmente sul primo Pasolini e su certo suo cinema ho più d’una obiezione), mi ha fatto apprezzare, e molto, l’approccio privilegiato dal critico.
E non v’è dubbio che libri come quello di Belpoliti (Pasolini in salsa piccante, 2010) o quest’ultimo di Trevi, non possano non giovare senz’altro a restituire, scevro da incrostazioni e pregiudizi di qualsiasi risma, Pasolini a Pasolini.
Quanto a “Il silenzio dell’onda”, libro dalla lunga incubazione, a cui Carofiglio ha atteso per sette anni, vi si narra di Roberto Marías, che attraversa a piedi il centro di Roma per raggiungere lo studio di uno psichiatra.
Si siede davanti a lui, e spesso rimane in silenzio. Talvolta i ricordi affiorano.
E lo riportano al tempo in cui lui e suo padre affrontavano le onde dell’oceano sulla tavola da surf.
Lo riportano agli anni rischiosi del suo lavoro di agente sotto copertura, quando ha conosciuto il cinismo, la corruzione, l’orrore. Fuori, ma anche dentro di sé.
Di professione fantasma, ha imparato a ingannare, a tradire, a sparire senza lasciare traccia. Una vita che lo ha ubriacato e travolto.
Le parole del dottore, le passeggiate ipnotiche in una Roma che lentamente si svela ai suoi occhi, l’incontro con Emma, come lui danneggiata dall’indicibilità della colpa, gli permettono di tornare in superficie. E quando Giacomo gli chiede aiuto contro i suoi incubi di undicenne, Roberto scopre una strada di riscatto e di rinascita.
Con una narrazione serrata e struggente sui padri e i figli, la mancanza e le assenze e la fragilità degli uomini, Gianrico Carofiglio regala ai lettori un nuovo, indimenticabile personaggio.
Molto interessanti anche gli altri due finalisti: Marcello Fois con “Nel tempo di mezzo” e Lorenza Ghinelli con “La colpa”.
Nel primo, il protagonista Vincenzo Chironi, sardo friulano, per molti anni figlio di nessuno, un uomo che non dovrebbe neppure esistere, quando torna in una terra (la Sardegna) che pare esistere da sempre.
Lì ricomincia a vivere, diventa se stesso, s’innamora dell’unica donna a lui proibita. Finché il tempo e gli eventi non incrineranno le vite di tutti, senza crudeltà, con precisione.
E mentre la storia rotola dal tempo di mezzo a un tempo nuovo, mentre gli amori coniugali nascono e poi muoiono piano, senza far rumore, altre storie sono destinate a non finire, a buttare germogli chissà dove. A gettarsi, spiazzandoci, nel futuro.
Dopo l’epopea di Stirpe, Marcello Fois, con una lingua capace di abbracciare l’alto e il basso e di potenziare lo scorrere del tempo – dipinge un mondo in cui i paesaggi sono vivi come i personaggi che li abitano.
Una Sardegna nitida e soprattutto mai oleografica.
E lo stupore continuo della natura – che osserva impassibile gli amori degli uomini e le loro sconfitte, i dolori dietro ai quali si affannano così come le gioie fugaci – diventa lo sguardo che permette a quelle storie di appartenere a ciascuno di noi.
E ci dimostra che “nemmeno quelli che sembrano cambiamenti improvvisi, improvvisi lo sono veramente. D’improvviso c’è solo il momento in cui ne prendiamo coscienza”.
Quanto a “La colpa”, la Ghinelli insiste sui temi dell’infanzia, imbastendo tre storie di vita violenta, tre personaggi destinati a incontrarsi cambiando un destino all’apparenza segnato.
Tre modi di sopravvivere, nonostante tutto.
Estefan ha diciannove anni e una famiglia “normale”, ma la morte per soffocamento del fratellino ancora neonato non è mai stata dimenticata.
Estefan comincia, a un certo punto, a soffrire di “falsi ricordi”, e in quei terribili momenti è lui ad avere ucciso il piccolo Sebastiano. Greta ha nove anni ed è orfana.
È cresciuta in una campagna accerchiata dalla periferia industriale, e vive col nonno, come barricata. Fino a quando, una notte, Estefan sarà costretto a bussare alla sua porta.
Fra i due nasce qualcosa. Infine c’è Martino, che ha diciannove anni come Estefan ed è il suo migliore amico. La loro amicizia poggia però su un tacito accordo: entrambi hanno un segreto.
Estefan soffre di allucinazioni e Martino, da piccolo, è stato vittima di un abuso da parte dello zio materno. Entrambi sanno dell’esistenza di una ferita che rende storpie le loro esistenze, ma nessuno dei due fa domande, né si confida.
Almeno fino a quando, per impedire che il passato ritorni, si troveranno costretti a infrangere l’accordo.
Un romanzo che, con una lingua preziosa ma al tempo stesso graffiante e diretta, dà voce al dolore dell’infanzia ignorato dal mondo adulto, ma che invita anche a esplorare, con la fantasia, le possibilità di riscatto e di rinascita.
Per concludere sullo Strega 2012, ricordiamo quelli selezionati ma non giunti in finale: Il corridoio di legno” (Voland) di Giorgio Manacorda; “Cosi’ in terra” (Dalai editore) di Davide Enia; “Malacrianza” (Nutrimenti) di Giovanni Greco; “La scomparsa di Lauren Armstrong” (Fandango) di Gaia Manzini; “La sesta stagione” (Cavallo di Ferro) di Carlo Pedini; “La logica del desiderio” (Giulio Perrone Editore) di Giuseppe Aloe e, infine, “La rabbia” (Transeuropa) di Marco Mantello.
Anche in questa edizione, il premio, creato nel 1947 all’interno del salotto letterario di Maria e Goffredo Bellonci, con il contributo di Guido Alberti, proprietario dell’omonima casa produttrice del celebre liquore, ha conservato il suo garbo, la sua sensibilità e, soprattutto, la capacità di esplorare gli orizzonti della comunicazione letteraria, in tutte le sue novità ed i suoi aspetti.
Carlo Di Stanislao
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