Ogni società ha i personaggi che merita e quella attuale, caratterizzata da una perdita dichiarata di valori di riferimento e da uno stato confusionale sempre più preoccupante è in grado di sfornare, nella migliore delle ipotesi, delle pseudo-novità a forte impatto mediatico ma, quanto a contenuti, dalla difficile valutazione. Checco Zalone è uno di questi, un simpatico ragazzo dai trascorsi artistici alquanto discordanti, con un esordio nel mondo della canzone targato mondiali 2006 e, dopo una serie di andirivieni riflessivi sulle proprie vocazioni future, l’approdo vincente nello spettacolo che lo ha consacrato comico del momento e, artisticamente parlando, personaggio a tutto tondo; e a ben guardare una certa versatilità è presente nelle performances del nostro Checco, in grado di traghettare disinvoltamente dal tutto esaurito delle sue oramai famose esibizioni serali ai più recenti successi cinematografici, che hanno sbancato i botteghini superando perfino i cinepanettoni. L’impressione dunque è quella di trovarsi al cospetto di una sorta di Re Mida dello spettacolo ma, e la domanda è d’obbligo soprattutto di questi tempi, è oro puro quello che vediamo splendere o, piuttosto, siamo in presenza di un classico prodotto “di plastica”, così di moda in questo disastrato periodo? Le perplessità al riguardo appaiono più che fondate, corroborate come sono dal repertorio dell’artista pugliese, a detta di chi scrive molto modesto quanto ad originalità e che, al di là di una carica di simpatia indubbiamente contagiosa, lascia spesso a desiderare sul piano dell’innovazione e dello spirito critico; non a caso le sue esibizioni, a dispetto di un pubblico straripante e di una critica grosso modo compiacente, rivelano un tormentone ricco di volgarità sciorinate con un minimo di garbo ma che alla fin fine, ripetute senza soluzione di continuità, danno una spiacevole sensazione di fastidio, quasi a voler mimetizzare una vena artistica elementare quanto ad inventiva e tendente a solleticare i peggiori istinti dello spettatore, non certo le sue facoltà intellettive. E’ in quest’ottica che trovano spiegazione le battute comiche (per chi riesce a trovarle tali) ma prive di autentica ironia ed il ricorso ad esternazioni da bettola, ottime per entusiasmare le turbe ma che, avendo il fiato dannatamente corto, vengono sorrette da un repertorio musicale scurrile cui il furbo comico barese attinge a piene mani, memore di un passato da jazzista; la comicità di Zalone mira alla pancia del pubblico, non certo al cervello, e la fantasia (requisito indispensabile per un artista degno di questo nome) rimane allo stato latente, sommersa da un profluvio di citazioni tutto sesso e corporalità che fanno di lui una sorta di “er monnezza” del palcoscenico, non certo un Proietti o un Luttazzi ai quali alcuni lo hanno sciaguratamente accostato. Zalone sfotte, si compiace delle sue battute e preme sull’acceleratore della demenzialità, forte degli applausi che stuzzicano a dovere il suo orgoglio plebeo e che sanciscono il successo di questo saltimbanco dalla parolaccia facile, cui non riesce a sottrarsi non per esigenze artistiche quanto per pochezza sconfortante di idee. Luttazzi, ma anche Aldo Busi, hanno costruito il loro successo su un talento cristallino e sul coraggio delle loro opinioni, tradotti in una satira pungente come poche e che, non a caso, entrambi hanno pagato con l’ostracismo dal piccolo e grande schermo; Zalone, per contro, che di satirico non ha nulla, finge di attaccare i poteri ma, alla lunga, se ne rende gradito complice, ben accetto non a caso da entrambi gli schieramenti che, all’unisono, plaudono le performances di questo tamarro (traduzione barese di “che cozzalone”) politicamente corretto, conseguenza scomoda di un’epoca di crisi nera anche in fatto di coraggio e talento. Che i politici e le caste in generale dormano sonni tranquilli, dalla vena artistica di Zalone non avranno mai nulla da temere.
Giuseppe Di Braccio
Lascia un commento