“Concorso in omicidio premeditato con l’aggravante della crudeltà”.
Questa l’accusa con cui i magistrati di Trapani, che ne hanno disposto il fermo, eseguito nella notte, cambiandone la posizione di semplice persona informata sui fatti, nei confronti di Giovanna Purpura, l’amante di Salvatore Savalli, già in carcere per il delitto della moglie, Maria Anastasi, al nono mesi di gravidanza, uccisa e poi carbonizzata, una settimana fa.
Pare che, dopo l’ultimo interrogatorio, Savalli avrebbe scaricato ogni responsabilità sulla donna, trentanovenne come la moglie, dicendo che è stata lei a colpirla con un piccone e poi, cosparsa di benzina, a carbonizzarla.
I carabinieri di Trapani hanno eseguito il provvedimento di fermo su disposizione del procuratore Marcello Viola, dopo che la donna era stata interrogata come persona informata sui fatti e non aveva affatto negato la sua presenza sul luogo del delitto., ma affermato “ha fatto tutto lui ed io sono rimasta impietrita mentre la colpiva e poi le dava fuoco”.
Savalli aveva cercato di depistare le indagini denunciando ai carabinieri la scomparsa della moglie, ma a far naufragare la sua fragile e contraddittoria ricostruzione, era poi stato il racconto dei tre di figli della coppia di 17, 15 e 14 anni che, hanno racconto della terribile situazione familiare, con il padre che maltrattava la moglie e che da tempo aveva imposto in casa anche la presenza di “quella li”: l’amante Giovanna Purpura.
Quando, nella tarda serata di martedì scorso, Savalli aveva denunciato ai carabinieri la scomparsa della moglie, aveva detto che erano usciti per un giro un macchina quando lui si era fermato per orinare e al suo ritorno Maria Anastasi non era piu’ nell’auto.
I carabinieri hanno riscontrato che quel pomeriggio i tre avevano acquistato un ricevitore tv, poi si erano diretti nelle campagne attorno a Trapani e qui Maria Anastasi era stata uccisa, con un piccone, che Savalli aveva comprato nei giorni scorsi e che teneva in macchina.
Era stata poi rintracciata Giovanna Purpura, che aveva ammesso di essere stata presente al delitto, accusando il suo amante di aver agito da solo.
Ma ora Savalli ha rovesciato le stesse accuse su di lei e, in ogni caso, per gli inquirenti e’ chiaro che i due erano entrambi sul posto in cui Maria Anastasi ha trovato un’atroce fine, proprio nel giorno del suo compleanno e un paio di settimane dal parto del quarto figlio, che sarebbe stato uno femmina.
Lo scorso 21 giugno, la Corte di Assise d’Appello di Roma ha pronunciato un verdetto durissimo per uno dei due amanti diabolici di Gradoli, Paolo Esposito, 42 anni, accusato di aver ucciso volontariamente e occultato i cadaveri di Tatiana Ceoban, 36 anni e della figlia Elena di appena 13 anni, con una durissima sentenza che segna un punto di non ritorno per la coppia, lei sorella della vittima nonché zia della ragazzina, accusata di favoreggiamento, lui patrigno di Elena e compagno infedele di Tatiana, oltre che suo carnefice.
Pena ridotta per lei, giunta una decina di anni fa dalla Moldavia in cerca di fortuna, “che dalla relazione con Esposito, un elettricista-informatico con il pallino dei video pedo-hard, aveva avuto una figlia, Erika, di otto anni; già condannata all’ergastolo in primo grado a maggio ed con una condanna di soli otto anni di reclusione per aver favorito l’omicida della nipote e della sorella maggiore.
E comunque una storia agghiacciante, con due donne barbaramente uccise in un tranquillo paesino sul lago di Bolsena, massacrate senza pietà, in quanto ostacolo alla relazione tutt’altro che segreta degli imputati.
Sono scomparse, in quel caso, una donna e sua figlia, una ragazzina di appena 13 anni e a distanza di tre anni i parenti non hanno nemmeno un posto, una tomba, su cui piangere”.
Nel caso di Trapani i parenti possono piangere su una tomba che porta un corpo carbonizzato e, dentro, un altro corpo già pieno di vita, ma ucciso nel grembo della madre.
Ucciso e carbonizzato fu anche, il 7 dicembre del 2003, Giuseppe Petrilli, bruciato nella sua Fiat Panda, in una scarpata al chilometro 8 della strada provinciale 84, tra Roccaraso, dove lavorava come cameriere.
Ad ucciderlo ed incendiarne il corpo, la moglie Rita Guerra e il suo ex amante Antonio Di Bucci, condannati in via definitiva e senza le attenuanti generiche per l’estrema crudeltà con cui hanno portato a compimento il loro disegno criminoso, messo in atto per eliminare l’unico ostacolo che intralciava la loro relazione d’amore, nell’ottobre dello scorso anno.
Tornando al’efferato omicidio di Trapani, si fa fatica ad immaginare una donna crudele assassina.
Eppure Rudyard Kipling ha scritto che la femmina di ogni specie animale è più implacabile del maschio,mentre F. Tennyson Jesse ha paragonato la donna alla pantera: “Può inseguire la sua preda inesorabilmente giorno dopo giorno, può aspettare il momento giusto, può giocare con la sua vittima e torturarla per puro capriccio, e può uccidere per pura crudeltà come fa la pantera e mai il leone”.
Il 14 giugno 1779, nel sestiere Dorsoduro, i pezzi di un cadavere vennero ritrovati in un paio di pozzi e in due diversi canali di Venezia.
Dapprima, fu rinvenuto a galleggiare nell’acqua del pozzo sito presso la chiesa dei santi Gervasio e Protasio un busto e un paio di braccia. Quindi, in un secondo pozzo presso la chiesa di Santa Margherita, ecco che spuntarono due gambe.
Già questi ritrovamenti sarebbero bastati per suscitare in città una curiosità davvero morbosa, ma il peggio si ebbe solo l’indomani allorquando nel Canale di Santa Chiara si trovò una testa umana, e i pescatori che transitavano nel Canale della Giudecca recuperarono nelle loro reti, tra calamari e branzini, alcuni visceri umani.
La capigliatura del cadavere aveva ai lati della fronte due ciocche di capelli che terminavano in due riccioli, com’era d’uso presso le classi meno abbienti. Per ottenere questi riccioli, i capelli venivano unti d’olio e quindi arrotolati attorno ai cosiddetti rolò, rotolini di carta che venivano mantenuti in loco durante tutta la notte.
Il cadavere presentava i riccioli ancora avvolti nel rolò, il che significava che il povero assassinato era stato ucciso durante la notte, e quando si sciolse il rolò, si scoprì che era stato realizzato con delle vecchie lettere, sulle quali si leggevano ancora chiaramente le iniziali V.F.G.C.
Tutte queste informazioni furono riportate sulle gazzette pubbliche, una delle quali giunse fino a Este tra le mani di un tale Giovanni Cestonaro, che insospettito dalle iniziali si recò in fretta a Venezia.
Qui con orrore riconobbe nella testa decapitata e imbalsamata quella del proprio fratello Francesco, al quale scriveva sempre formandosi con l’acronimo V.F.G.C.: Vostro Fratello Giovanni Cestonaro.
Fu a quel punto facile ricostruire la vita dell’irrequieto Francesco, che aveva lasciato ben presto la casa paterna per andare a cercar fortuna all’estero, girando i più svariati paesi ed esercitando un’infinità di mestieri. Ad un certo punto del suo peregrinare, dopo aver lasciato incinta una giovane olandese e non avendola voluta sposare, era approdato in Sicilia, pare a Catania, dove aveva sposato Veneranda Porta da Sacile, vedova trentenne madre di due bambini.
I sospetti degli investigatori caddero subito sulla moglie, che non aveva certo una condotta irreprensibile. Numerose lettere che Francesco aveva inviato alla moglie testimoniavano infatti come egli fosse al corrente della tresca che Veneranda portava avanti da tempo con un giovane di nome Stefano Santini, originario di Udine.
Le indagini, che fino a quel momento erano state totalmente infruttuose, subirono improvvisamente una svolta.
Il 26 giugno Veneranda Porta venne arrestata e sottoposta a interrogatorio.
Una tradizione popolare vuole che la donna si fosse ribellata contro i giudici con forza, negando ogni addebito, e anzi prendendosi gioco di loro, sicura che non vi fossero prove a suo carico. Quando però le fu mostrata la testa mozzata del marito, Veneranda ebbe un improvviso crollo. La stessa tradizione dice che, inspiegabilmente, gli occhi di Francesco si aprirono da soli allorquando la testa fu posata sul tavolo davanti alla donna e fu proprio questo evento che costrinse Veneranda a confessare il delitto.
Veneranda puntò su quella che oggi potrebbe definirsi “legittima difesa”, raccontando come il marito l’avesse più volte minacciata di morte, e come avesse anche tentato di assassinare sia lei che Santini.
Nel proseguo del processo i due si accusarono ignobilmente e reciprocamente e, alla fine, vennero condannati entrambi alla decapitazione, condanna che fu eseguita il 12 gennaio 1790, ponendo così fine a uno dei casi più sanguinosi dell’epoca.
Dopo la decapitazione, il Santini fu preso e squartato, allo stesso modo in cui lui stesso aveva fatto a pezzi il cadavere di Francesco ma alcuni osservarono che, in questo modo, la giustizia diveniva ingiusta e la condanna assumeva il sapore di una vendetta.
Carlo Di Stanislao
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