Il dibattito in corso nella città dell’Aquila sulla eventualità di nominare un direttore generale del Comune per la nuova consiliatura abbisogna di diversi chiarimenti.
La figura del city manager, per come si è evoluta in Italia a partire dalle “leggi Bassanini”, ha caratteristiche sue proprie che la diversificano da altre esperienze consimili, europee e oltre.
Il direttore generale di Comune in Italia è il vertice amministrativo della struttura, con una precisa responsabilizzazione sull’andamento dei servizi: ha un necessario rapporto fiduciario con il Sindaco, ma non lavora a contatto con il Consiglio, e nemmeno con la Giunta, quanto piuttosto con i servizi comunali.
Il “notaio” di Consiglio e Giunta, garante della legittimità degli atti, resta il Segretario comunale, al direttore invece spetta il compito di somministrare una robusta dose di managerialità alla macchina amministrativa.
Deve perciò avere consapevolezza dei limiti della nostra legislazione, ancora per tanti tratti borbonica, senza lasciarsene paralizzare: sua competenza non è specificatamente quella di disegnare le politiche (i poteri sono e restano separati), quanto le relative strategie attuative. Cioè, garantire non il consenso, ma l’accountability degli uffici.
Nella particolare situazione della Città, nella quale l’accelerazione dello sforzo per la ricostruzione deve coniugarsi con quello del ritorno alla ordinarietà nella gestione dei servizi, il compito per una simile figura sarebbe duplice. Da una parte, collegarsi alle strutture responsabili dei lavori, per iscriverne l’operato in una precisa prospettiva strategica; dall’altra, offrire ai cittadini i servizi comunali ordinari in forma più innovativa, efficace e responsabile.
Due sono dunque i possibili equivoci da fugare circa il direttore generale:
– non può essere un “assessore aggiunto”, un politico la cui opera valga a legittimare e potenziare le capacità di decisione politica della Giunta
– non può limitarsi ad essere un “commissario alla ricostruzione”.
Entrambe queste configurazioni sarebbero per la Città errori madornali nonché enormi occasioni perdute. Spaventa che, invece, nel dibattito in corso i due profili siano invece più volte confusi. E spaventa che perfino un documento di grande respiro, come la relazione dei “saggi” urbanisti nominati dal Ministro Barca, propenda per un disegno molto orientato alla ricostruzione, e arrivi addirittura ad auspicare una estrazione internazionale che rischia di risolversi in un overshooting sia professionale che di contesto (chi, fuori d’Italia, può avere contezza del percorso ad ostacoli rappresentato dall’amministrare la cosa pubblica nel nostro Paese?).
Gli Aquilani hanno diritto (e possono trarne un grande vantaggio) ad una figura di “amministratore delegato” della macchina amministrativa comunale, responsabile nei loro confronti dell’andamento dei servizi; capace di ricostruire un nesso di fiducia, non politica ma gestionale, tra loro e gli uffici, garante dell’appropriatezza ed efficacia delle funzioni pubbliche comunali; abbastanza manageriale e ingegneristico da sfruttare tutte le potenzialità di innovazione amministrativa offerte dalle tecniche gestionali e dalle tecnologie informatiche; adeguatamente orientato alle nuove metodologie di governance con le quali lavorare pazientemente al (ri)disegno della macchina burocratica sulla scorta di un attento ascolto delle necessità concrete della Città, rilevate attraverso adeguati processi aperti e partecipativi.
Dunque, un direttore generale che ripercorra le esperienze di successo che hanno segnato in positivo le stagioni di governo urbano di alcuni dei più celebrati Sindaci della prima stagione di elezione diretta, quella degli anni ’90; Sindaci che molto spesso hanno dato buona prova di sé proprio perché affiancati da direttori generali particolarmente adatti (per formazione, storia ed attitudini) ad imprimere agli uffici comunali una vera e profonda svolta gestionale. Esperienze ad oggi non più riscontrabili laddove alcuni Sindaci, seppur accolti da maggiore favore e da superiori attese, stanno fallendo anche per aver investito del compito di direzione dell’apparato comunale personaggi dalla sicura vocazione politica, vocazione che non ha loro consentito di costruire un rapporto partecipativo con i cittadini.
L’Aquila come numero di abitanti non ha il requisito di legge per la nomina del direttore generale (che spetta solo alle città oltre i 100.000 abitanti). La possibilità di averlo passa dunque per una norma statale, che abiliti il Sindaco alla nomina in considerazione della particolare situazione della Città, ancora in ritardo nei processi di ricostruzione e bisognosa di un nuovo patto tra cittadini e istituzioni.
Occorre allora augurarsi che, se una simile norma verrà scritta, rechi precisi paletti per la nomina del direttore.
Un “uomo macchina” con un preciso pedigree gestionale, come formazione e storia professionale. Che abbia già dato prova di sé in quelle specifiche funzioni che comportano rilevanti consapevolezze ed abilità programmatorie, giuridiche, contabili e operative. Privo di storia ed ambizioni politiche. Capace di rapportarsi alla funzione ingegneristica della ricostruzione senza restarne invischiato. In grado di assumersi un’autonoma, precisa responsabilità nei confronti dei cittadini su innovazione e andamento dei servizi, nella loro imprescindibile, banale quanto preziosa quotidianità.
Dunque, per una chiara percezione dei problemi occorre una semplice soluzione di buon senso e di diritto: le due cose, non a caso, stanno insieme. Da perseguire, però, avendo ben chiari i criteri e quindi i limiti della scelta, per evitare l’ennesima occasione perduta.
Insomma, tutt’altro che un libro dei sogni.
Antonio Cappelli
Direttore Confindustria L’Aquila
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