Fra le molte preoccupazioni c’è n’è una nuova a turbare le giornate di Mario Monti e si chiama default siciliano e siccome di gatte da pelare ne ha già abbastanza (la Merkel che cambia idea ad horas sul salva-stati, i politici che provano a frenare su tutto, dalla riduzione delle Provincie in poi), non intende, il premier, tergiversare sui bilanci della Trinacria e prima di programmare un intervento di risanamento contro la bancarotta – magari attraverso il commissariamento – lancia un diktat a Raffaele Lombardo, chiedendogli conferma sulle sue annunciate dimissioni.
Il governatore ripete da giorni di avere fissato la data in cui lascerà la carica: il 31 luglio prossimo, con un anticipo di oltre un anno rispetto alla naturale scadenza della legislatura, a causa delle sue vicende giudiziarie e dopo il ritiro del sostegno in aula del Pd.
Dopo l’ultimatum del professore, comunque, Lombardo ha chiesto di essere ricevuto a Palazzo Chigi. L’incontro pare sia stato fissato per il 24 luglio.
”Ho parlato al telefono con Monti – ha detto Lombardo alla stampa – rassicurandolo del fatto che, nonostante le criticità segnalategli, gli rassegnerò tutti gli elementi utili a dimostrare la sostenibilità della finanza regionale. Al premier parlerò anche della scelta di dimettermi per consentire agli elettori l’esercizio al diritto democratico di scegliere un nuovo governo e un nuovo parlamento”.
Una sorta di risposta a quanto il premier gli ha scritto: ”Facendosi interprete delle gravi preoccupazioni riguardo alla possibilità che la Sicilia possa andare in default a causa del proprio bilancio”.
Ciò che è certo è che la Sicilia ha un indebitamento certificato dalla corte dei conti di cinque miliardi di euro e l’intervento di Monti arriva, in ordine di tempo, dopo la richiesta di commissariamento della Regione da parte dell’Udc ”per evitare il default” e l’allarme lanciato nei giorni scorsi dal vicepresidente di Confindustria, Ivan Lo Bello che aveva chiesto proprio l’intervento del governo perche ”la Sicilia rischia di diventare la Grecia del Paese”.
E mentre la Lega esulta affermando ”la Sicilia va commissariata”, proprio stamane e’ arrivata una conferma al rischio default da uno dei componenti della giunta regionale: Andrea Vecchi, ex presidente dei costruttori catanesi, nominato in uno degli ultimi rimpasti di governo ed oggi assessore alle infrastrutture che ha detto: ”La Sicilia sull’orlo del crac? Io penso di si. Temo che presto non si riescano a pagare gli stipendi dei dipendenti”. Un giudizio che non è condiviso dal vicepresidente della Regione e assessore alla Salute, Massimo Russo, che definisce la richiesta di Palazzo Chigi ”anomala” e tenta di smorzare le polemiche sul bilancio: ”La Sicilia non e’ in default, voglio tranquillizzare coloro che rappresentano questa terra come isola canaglia governata da pirati”.
E sempre dalla Sicilia altre due notizie calde su uno stesso tema, con i pm di Palermo che convocano Berlusconi per essere interrogato come persona informata dei fatti nell’ambito dell’inchiesta sulle trattative Stato-mafia e la ministra Severino che dice che le due telefonate fra Napolitano e Mancino, vanno tenute segrete, ed anzi distrutte, facendo andare su tutte le furie la sorella di Borsellino, alla vigilia della triste ricorrenza della strage di via d’Amelio.
“Quelle intercettazioni sono lesive delle prerogative del presidente della Repubblica”, si legge, come ricostruisce Il Messaggero, in uno dei passaggi chiave del decreto con cui Giorgio Napolitano ha sollevato conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale nei confronti della procura di Palermo per l’inchiesta sulle trattative Stato-mafia, affidando all’avvocato generale dello Stato l’incarico di tutelare gli interessi del Quirinale.
Le intercettazioni si riferiscono – come è noto – ad alcune telefonate private (sembra due) tra il capo dello Stato e il senatore Nicola Mancino, indagato dai giudici palermitani per falsa testimonianza nell’inchiesta sui fatti del 1992-93.
Di fronte ad una situazione per cui – anziché essere immediatamente distrutte – quelle intercettazioni sono state prima sottoposte ad una valutazione sulla loro rilevanza e quindi – malgrado gli accertamenti in proposito – sono rimaste agli atti dell’inchiesta con una prossima riunione di una camera di consiglio per deciderne in contraddittorio con gli avvocati la loro eventuale cancellazione, il Quirinale ha deciso di agire.
Il decreto con cui Napolitano ha sollevato il conflitto di attribuzione è infatti molto articolato e preciso in punta di diritto, anche se non manca un significativo richiamo politico-costituzionale all’insegnamento di Luigi Einaudi laddove esso sottolinea che “alla determinazione di sollevare il conflitto il capo dello Stato è pervenuto ritenendo un dovere, secondo l’insegnamento di Luigi Einaudi evitare che si pongano nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”.
Raffinatezze che, comunque, sono spiaciute a molti ed in primo luogo al leader dell’Idv Di Pietro e poi ancora la sinistra che si riconosce nel Manifesto.
Duro e polemico il Fatto Quotidiano, mentre Scalfari su La Repubblica attacca Ingroia e difende il Capo dello Stato ed Enrico Deaglio che attacca il pm Nino Di Matteo, che proprio su Repubblica non aveva smentito l’esistenza delle telefonate del capo dello Stato con l’ex ministro Mancino.
Come scrive Geri Steve su AgoraVox, vent’anni fa fu ucciso Salvo Lima, il fiduciario di Andreotti in Sicilia. Il vignettista Forattini sintetizzò la faccenda con un’immagine rimasta famosa: Andreotti con una lima piantata nella schiena. Il significato fu chiaro a tutti: i mafiosi intendevano vendicarsi con i loro politici che non li avevano protetti quanto dovevano nel maxiprocesso voluto da Falcone e Borsellino. Il Presidente del Consiglio era allora Giulio Andreotti, ministro degli interni Vincenzo Scotti e della giustizia Claudio Martelli.
Come si ricorderà, il cambiamento fu immediato: Presidente del Consiglio divenne Giuliano Amato, ministro degli interni Nicola Mancino e (nel febbraio 1993) ministro della giustizia Giovanni Conso.
Chi probabilmente ha avuto notizia della “trattativa stato-mafia” ed era intenzionato ad opporsi è stato fatto saltare in aria (Falcone e poi Borsellino), l’agenda rossa su cui Borsellino aveva scritto di quanto man mano scopriva e del suo incontro con Mancino (e che lui invece nega) è stata sottratta dopo la sua uccisione, il 41bis revocato a tanti mafiosi dal ministro Conso, e anche dopo (l’ultimo, Antonino Troia: un uomo chiave della strage Falcone).
La mafia ha poi rinunciato a costruire il suo partito tipo “lega del Sud” mentre Dell’Utri ha costruito con Berlusconi “Forza Italia” che ha fatto il pieno di voti.
Questo dovrebbe essere l’idea che il pm di Matteo deve essersi fatto e di questo voleva parlare con il di nuovo unto dal signore Silvio Berlusconi, invitandolo a comparire a Palermo.
Ma lui ha opposto “legittimo impedimento”, a causa di una riunione con alcuni economisti e politici durante la quale si è discusso di euro, di crisi e di Europa, incontro a porte chiuse, promosso dall’ex ministro Antonio Martino, che si è effettivamente svolto a villa Gernetto, una dimora settecentesca situata a Lesmo, in Brianza, ed è durato circa 8 ore.
Secondo i pm di Palermo, all’inizio degli anni 90, Salvo Lima si mise a fare pressioni sui vertici dello Stato per ottenere concessioni di varia natura.
Tali pressioni non trovarono rifiuti, tutt’altro: ci furono contatti tra il 1992 e il 1994. con “pubblici ufficiali ed esponenti politici di primo piano”, disposti a concessioni pur di allentare la pressione della criminalità organizzata. In questo quadro andrebbero inseriti, sempre secondo l’ipotesi di accusa, l’attentato di via d’Amelio in cui furono uccisi Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta e le stragi dinamitarde di Firenze (maggio 1993, 5 morti) Roma (luglio 1993) e Milano (luglio 1993, 5 morti).
Queste bombe furono proprio la feroce risposta dei corleonesi di Totò Riina all’inasprimento del carcere per i boss e alla trattativa che non andava avanti.
Gli indagati, al termine dell’inchiesta durata 4 anni, sono 12, tra boss mafiosi, politici e rappresentanti delle istituzioni.
Ed ora, nel quadro già orrendo, si dispone, inquietante, il clamoroso dissidio tra il Quirinale e la Procura di Palermo, sulle intercettazioni del Capo dello Stato.
Carlo Di Stanislao
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