Vorrei venisse restituita pace ai poveri resti dell’architetto Luigi Catalani, quella pace che a chiunque è dovuta e che tanto piú spetta all’autore del Comunale dell’Aquila, uno tra i piú belli dei teatri italiani.
Sono trascorsi cento e quarantacinque anni, da quando quelle poche ossa superstiti giacciono nel sottosuolo napoletano, mai prima scosse se non dall’inaudito oltraggio telematico presente nel sito www.fondazionecittaitalia.it. CittàItalia è un’autorevole fondazione che tra le sue finalità annovera quella di «progettare e realizzare interventi di recupero, restauro e valorizzazione del patrimonio artistico e culturale italiano». Guidata da personalità di assoluto prestigio, come Giuseppe De Rita e Alain Elkann, CittàItalia s’è resa promotrice di una raccolta fondi per supportare il recupero di alcuni beni culturali aquilani. Tra questi, c’è il Teatro Comunale, a proposito del quale il sito di CittàItalia afferma: «la facciata del teatro e lo scalone marmoreo sono caratterizzati da un perfetto stile neoclassico; l’edificio, di pregevole fattura, è impreziosito dall’ampia scala di accesso alla sala».
Ora, il buon Catalani, professore di architettura, autorevole storico dell’arte e architetto municipale di Napoli, mai avrebbe potuto concepire un orrore qual è quell’excelsior di marmi da boutique della bistecca o da residenza di un sodale di Al Capone che è lo scalone troneggiante nell’atrio del Comunale. Assolutamente falso! Lo scalone che “impreziosirebbe” l’edificio con quella sua erta di tre algide rampe parallele è un’artificiosa superfetazione, strutturalmente incongrua, artisticamente inconsistente, in alcun modo storicizzabile, sulla quale abbiamo dovuto arrampicare dal 1958, cioè da quando il Comunale venne riaperto dopo i lunghi lavori di restauro e “ammodernamento” finanziati come riparazione di danni bellici.
A spiegare la genesi del Comunale c’è un’estesa e complessa storia connessa alle multisecolari vicende delle sale teatrali aquilane, su cui non è di sicuro necessario soffermarsi in questa sede. Invece, a volerne decifrare il destino con l’astrologia, la cartomanzia o qualsiasi altra tra le innumerevoli pratiche divinatorie, c’è da star sicuri che il Comunale guadagnerebbe i galloni di grande attrattore d’afflizioni, quanto a se stesso, ovviamente, perché invece ne resta solidamente attestato il ruolo di gran dispensatore di fortuna a beneficio di quanti vi hanno esibito sapienza e raccolto applausi nei pressoché centoquarant’anni di vita del suo palcoscenico.
L’avversa sorte prende a imperversare fin dal concepimento del programma edificatorio. Ben prima d’arrivare a metà dell’Ottocento, cominciano a fluttuare conversazioni, appunti e lettere che raccontano della necessità di fabbricare un nuovo teatro. Infatti, il San Salvatore, funzionante fin dal Seicento all’interno dell’ospedale fondato da San Giovanni da Capestrano, futura sede della Scuola De Amicis, risultava inadeguato a fronte delle mutate esigenze sceniche e di capienza, la bellissima Sala Olimpica, ricavata in quella che era stata casa monastica degli Agostiniani e sarebbe poi diventata quartier generale della Prefettura, era sciaguratamente già in via di demolizione. Tra tentennamenti e rinvii di vario genere, s’arriva infine alla scelta dell’ubicazione e a investire della progettazione l’architetto Catalani.
È ormai il 28 Ottobre del 1854, quando si procede all’esproprio del terreno agricolo incassato tra la Basilica di San Bernardino e il fabbricato sorto dov’era la Chiesa di Santa Maria d’Intervera, che poi sarebbe stato sede dei Carabinieri e successivamente di facoltà universitarie. Un esercito di sterratori comincia subito a preparare il sito edificatorio, i cui materiali di risulta vanno a formare la base del terrapieno destinato a sostenere quella bestemmia estetica e urbanistica che sarà la strada di collegamento tra il convento dei Cappuccini, poi sede del Consiglio Regionale, e la spianata antistante la Basilica di Collemaggio. Si procede lentamente, però, e solo nel 1857 giunge l’ora della gran cerimonia per la posa della prima pietra.
L’architetto Catalani segue con cura i lavori, che però stentano sempre piú, fino a impaludarsi negli incombenti eventi epocali: l’Unità d’Italia, con i suoi prodromi e i singulti del primo decennio, blocca tutto e poi ritarda la ripresa. Nel frattempo, il nascente Comunale perde anche il suo condottiero, perché Catalani, sebbene con solo cinquantotto primavere sulle spalle, esce di scena nel 1867. Gli subentra l’ingegnere milanese Achille Marchi, che apporterà qualche marginale modifica al progetto originario. Finalmente, è il 14 Maggio del 1873 che vede il primo levarsi del sipario nel nuovo teatro, all’insegna del Ballo in maschera di Verdi.
Ma, le disavventure edilizie del Comunale sembrano inesauribili. Non trascurabili rimaneggiamenti sopraggiungono nel 1928 per l’installazione del primo impianto di riscaldamento, poi nel 1932 per aggiustamenti di vario genere, ancora – e quanto mai estesamente – nella seconda metà degli anni Cinquanta. Successivamente, la lunga quiescenza del palcoscenico dal 1983 all’inizio del 1990 per la tornata di lavori d’ammodernamento e adeguamento tecnologico vissuta in Italia da gran parte delle sale di spettacolo a seguito del tragico incendio divampato nel Cinema Statuto di Torino. Parallelamente, s’era messa mano all’edificazione, negli anni Sessanta, dell’ossatura del Ridotto e ambienti adiacenti nonché, negli anni Ottanta, al completamento dell’uno e degli altri insieme con la costruzione, sul fianco opposto al Ridotto, della torre per i nuovi camerini degli artisti. Stretta nella morsa del cemento armato, innalzato all’esterno in destra e in sinistra e largamente disseminato all’interno, la solida muratura ottocentesca, che non aveva fatto una piega sotto il botto sismico del 1915, avrebbe mai potuto fare a meno della ciliegina sulla torta delle disgrazie venuta con il terremoto del 2009?
Adesso, gli appena avviati lavori di ripristino appaiono pensati per rimediare anche a diverse delle afflizioni fin qui intervenute. Considerati gli ottimi orientamenti della squadra di progettisti e curatori, si potrà pervenire anche a restituire pace alle ossa dell’architetto Catalani, ripristinando nell’atrio del Comunale la scala che noi antichi ben rammentiamo essere esistita fino ai “modernamenti” completati nel 1958?
La critica riconosce a Luigi Catalani le opere di maggior rilievo nel rifacimento neoclassico del Teatro Mercadante di Napoli e nella successiva creazione del Comunale dell’Aquila, tributandogli inoltre gran lode per «la scala, di bellissima architettura» costruita nell’antica chiesa napoletana della Natività di Gesú quando, nel 1852, ne aveva curato per l’Ordine dei Serviti il rimodellamento in funzione della nuova destinazione a Chiesa dell’Addolorata alla Duchesca. Insomma, Catalani era uno che di scale se n’intendeva, oltre che di teatri. Tant’è che la scala del Comunale, a due rampe convergenti sul ballatoio d’accesso alla platea, impreziosita dalle soavi ringhiere in fusione di cui permane l’esempio nelle superstiti chiocciole di servizio, offriva un armonioso stilema di sobria eleganza.
Se si vorrà ripristinare la scala originaria, risulterebbe poi non meno meritorio il risarcire un altro e, forse, ancor piú fondamentale aspetto dell’egregia opera di Catalani, cioè l’acustica della sala, gravemente manomessa, sempre a seguito degli interventi inaugurati nel 1958, con il cemento armato profuso nell’impiantito e con i pretenziosi tendaggi appiccicati alle paretine di fondo dei palchi.
E il sipario “con tiro in seconda”, cioè “a caduta”? Lo si restaurerà e lo si richiamerà in servizio, dopo decenni d’inerte arrotolamento su se stesso? Non si tratta di una stoffaccia qualsiasi, ma di un’autentica opera d’arte e di un prezioso pezzo di storia. Dipinto dal boemo Franz Hill poco prima del 1820 per la Sala Olimpica, dopo la demolizione di questa, nel 1857 venne espressamente destinato al reimpiego nell’edificando Comunale. Hill non era uno qualunque: apparteneva alla schiera internazionale di raffinati artisti e artigiani che furono di casa nella corte napoletana e fu autore, tra l’altro, di pregiati affreschi nella Reggia di Caserta, come il Minerva che protegge Telemaco dai dardi di Cupido nella volta della prima anticamera di Murat, il baccanale nella volta del salotto di Francesco II e i ritratti reali nella Sala di Compagnia. Nei piú di cento mq del sipario, Hill ha raccontato con delicata maestria un antichissimo episodio di storia patria: la vicenda del Libro VII dell’Eneide riguardante i guerrieri amiternini che s’avviano verso il combattimento.
Con gli interventi in corso, potrebbe finalmente arrivare una svolta che liberi il Comunale dal destino di grande attrattore d’afflizioni su se stesso. Perfino quanto al come chiamarlo non c’è stata requie: nel 1857, alla posa della prima pietra, venne annunciato che il nome sarebbe stato “San Ferdinando”, in ossequioso omaggio al Borbone di turno sul trono napoletano; nel 1860, a Regno d’Italia appena proclamato e a cantiere ancora in sonno, si proclamò il mutamento in “Teatro Vittorio Emanuele”; nel 1873, quando finalmente l’opera era compiuta, si optava per il definitivo “Teatro Comunale”. Poi, nell’infelice stagione dei governi municipali di destra di fine Millennio, la mossa, provvidamente mai acquisita come una cosa seria, d’intitolarlo a Nazzareno De Angelis, superlativo basso lirico, senz’ombra di dubbio, ma persona esente da qualsivoglia civica benemerenza e anzi dell’Aquila reiteratamente sprezzatrice. Reboante fascista, però.
Niente di piú giusto che la denominazione resti semplicemente qual è, seguitando a indicare ex toto corde l’appartenenza del Comunale all’intera comunità di cui è uno dei conclamati simboli identitari. Tanto meglio se i lavori in corso, recuperando la bella scala e la felice acustica inventate da Luigi Catalani, perverranno a demolirne l’avverso destino e a restituire pace a quelle venerabili ossa ricoverate all’ombra del Vesuvio.
Enrico Centofanti
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