Ali Nasser Huraikdan, leader di un gruppo tribale locale, parlando al telefono con l’agenzia yemenita Mareb Press, ha detto che Alessandro Spadotto, il carabiniere italiano rapito domenica a Sanaa, “sta bene” e sarà “libero entro due giorni”.
L’uomo, che ha detto di non appartenere a nessun partito politico né organizzazione terroristica, ha aggiunto: “La mia richiesta riguarda me e il governo yemenita e il sequestro rappresenta solo un mezzo di pressione” su Sanaaa perché nessuno – ha aggiunto – ha finora ascoltato le mie richieste”.
Secondo l’AGI, Huraikdan sostiene di essersi visto negare la possibilità di espatriare dal Paese ed ora chiede al governo di Sanaa che cancelli il divieto di viaggio e, come risarcimento, vuole il denaro che – sostiene – le forze di sicurezza gli hanno sottratto in un momento in cui era in carcere, in stato di fermo. Egli ha spiegato di avere interessi commerciali all’estero, ma vuole anche curarsi in un Paese diverso dallo Yemen.
Infine ha aggiunto di non voler nulla dal governo italiano. Intanto la Farnesina conferma la linea del “massimo riserbo”, ma sottolinea che il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, segue “personalmente” la vicenda ed ha parlato più volte con il suo omologo yemenita, Abu Bakr al-Qirbi e si trova in costante contatto con le autorità locali.
Con questo rapimento si è riaperta la polemica sugli italiani rapiti e Marco Ventura sul sito di Panorama, commenta che per una cooperante liberata in Mauritania e altri due connazionali che in pochi giorni rientrano a casa dopo una pessima avventura in mano a uomini mascherati in Siria, vi sono costantemente notizie di rapimenti in varie parti del mondo o ai danni di “professionisti” (come il carabiniere rapito nello Yemen (responsabile della sicurezza nell’Ambasciata in quanto il capo-scorta dell’Ambasciatore) o, molto spesso, turisti.
A finire rapiti, con grande facilità, sono anche volontari e giornalisti e quasi tutti, poi, rientrano pieni di elogi per i sequestratori, soprattutto quando sono “rapiti impegnati”, cioè ideologicamente orientati.
Va ricordato, comunque, che ogni rapimento ha un costo politico ed economico (con o senza riscatto) e non sempre il prezzo (politico e/o economico) che viene pagato è visibile a tutti.
E non sempre chi viene liberato dimostra gratitudine per la decisione di sottostare al ricatto.
Nello Yemen, come in altri Paesi arabi del Medio e Vicino Oriente, la situazione è confusa. Sul campo non c’è una guerra civile conclamata come in Siria., ma la situazione è tutt’altro che pacifica.
Nei giorni scorsi un manipolo di armati delle tribù legate all’ex presidente Saleh, per 33 anni dominus della scena regionale, aveva dato l’assalto al ministero dell’Interno chiedendo un pubblico impiego.
Gruppi di criminali affiliati a clan specifici hanno fatto del sequestro di persona una fiorente attività a fini di lucro.
In altri casi si chiede la liberazione di compagni o parenti in carcere. Complessa si fa la situazione se c’è un coinvolgimento dei gruppi qaedisti che vedono agire in Yemen sauditi, somali, occidentali di varie etnie e yemeniti stessi.
Il governo, assistito dagli americani, combatte una guerra sotterranea a tratti più evidente con il terrorismo integralista islamico.
Poi c’è la lotta per il potere fra le tribù, dopo la rottura del fragile equilibrio garantito dalla dittatura di Saleh.
Certamente lo Yemen è il Paese che più di ogni altro ha attirato maggiormente l’attenzione degli Stati Uniti, Nazione impoverita, attraversato anch’esso, dallo scorso anno, da un massiccio movimento popolare di protesta che, come altrove, si è risolto in una soluzione inoffensiva per gli interessi di Washington.
Le manifestazioni contro il regime trentennale di Ali Abdullah Saleh, già stretto alleato degli USA, sono infatti finite con la deposizione del presidente grazie ad una iniziativa patrocinata da quegli stessi americani che continuano a mantenere uno stretto controllo sulle sorti dello Yemen.
Il presidente Saleh è fermamente deciso a rimanere al potere e dopo lunghe trattative, gli Stati Uniti e i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), con Arabia Saudita in prima fila, qualche mese fa sono finalmente riusciti a trovare un accordo per sbloccare la situazione di stallo.
Così grazie alla cosiddetta “Iniziativa del Golfo”, Saleh ha accettato di farsi da parte, così che lo scorso febbraio sono potute andare in scena elezioni-farsa, che hanno portato al potere il suo vice, Abd Rabbuh Mansour al-Hadi, solo ed unico candidato ad apparire sulle schede elettorali.
In questo modo, lo Yemen appare poco più di un protettorato USA, , come conferma, ad esempio, la vicenda descritta da Al Akhbar del giornalista Abdel Ilah Shaeh, condannato a 5 anni di carcere per aver rivelato che un attacco con un drone americano nel dicembre 2009, che aveva causato la morte di 35 tra donne e bambini.
L’impegno americano a crescere sia in termini di aiuti finanziari sia dal punto di vista militare.
Un articolo del Los Angeles Times del 21 giugno scorso ha ad esempio rivelato che Washington starebbe addirittura valutando la possibilità di inviare per la prima volta nel paese aerei militari americani per facilitare il movimento delle truppe governative nelle zone coinvolte nel conflitto con Al-Qaeda nella Penisola Arabica.
Questo ulteriore sforzo per aiutare il regime a soffocare il dissenso interno arriverebbe in aggiunta alle decine di truppe delle Operazioni Speciali americane da tempo presenti in territorio yemenita.
Ma, poiché Saleh e il suo clan continuano a mantenere un forte ascendente sulla vita politica del paese, la strategia americana e dei paesi del Golfo in Yemen rischia di risolversi in una ricetta che finirà per alimentare sempre maggiore instabilità e malcontento, in un Paese che fa segnare un livello ufficiale di disoccupazione superiore al 40 per cento.
Carlo Di Stanislao
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