L’8 agosto 2012 ricorre l’annuale festa religiosa di san Domenico di Guzman, fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori, stella mirabile di santità e virtù insieme a san Francesco d’Assisi come ci ricorda il sommo poeta Dante Alighieri nella Divina Commedia. Siamo alla vigilia dell’ottavo centenario dalla fondazione dell’Ordine che i Domenicani festeggeranno negli Anni del Signore 2016, 2021, 2034 e 2037. Bologna, patria del Diritto con la sua Università animata per secoli dalla sapienza dei Domenicani (che i cittadini di Teramo non hanno saputo e/o voluto preservare!) accoglie da ottocento anni le spoglie mortali del Santo Patrono Domenico. Papa Benedetto XVI nella sua catechesi del 3 febbraio 2010, all’Udienza generale tenuta nell’Aula Paolo VI in Vaticano, ha definito san Domenico “virgulto sempreverde per l’annuncio della Verità del Vangelo a tutte le genti”. Non esiste documento e memoria storica di una sola Università prestigiosa che in Europa e nel mondo non abbia annoverato, in tutti questi secoli, tra i suoi docenti di Diritto (e delle altre “scienze”) un Frate Predicatore. San Domenico è un vero esempio per tutti i giovani che amano la Giustizia e la ricerca della Verità nella Fede e nella Ragione. “Questo grande santo – ha detto il Papa – ci rammenta che nel cuore della Chiesa deve sempre bruciare un fuoco missionario, il quale spinge incessantemente a portare il primo annuncio del Vangelo e, dove necessario, ad una nuova evangelizzazione: è Cristo, infatti, il bene più prezioso che gli uomini e le donne di ogni tempo e di ogni luogo hanno il diritto di conoscere e di amare! Ed è consolante vedere come anche nella Chiesa di oggi sono tanti – pastori e fedeli laici, Membri di antichi ordini religiosi e di nuovi movimenti ecclesiali – che con gioia spendono la loro vita per questo ideale supremo: annunciare e testimoniare il Vangelo!”. Il Papa ha ricordato quando san Domenico fu eletto canonico del capitolo della Cattedrale nella sua diocesi di origine, Osma. “Anche se questa nomina – ha detto il Pontefice – poteva rappresentare per lui qualche motivo di prestigio nella Chiesa e nella società, egli non la interpretò come un privilegio personale, né come l’inizio di una brillante carriera ecclesiastica, ma come un servizio da rendere con dedizione e umiltà. Non è forse una tentazione quella della carriera, del potere, una tentazione da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di animazione e di governo nella Chiesa? Lo ricordavo qualche mese fa, durante la consacrazione di alcuni Vescovi: Non cerchiamo potere, prestigio, stima per noi stessi. Sappiamo come le cose nella società civile, e, non di rado nella Chiesa, soffrono per il fatto che molti di coloro ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per sé stessi e non per la comunità”(Omelia. Cappella Papale per l’Ordinazione episcopale di cinque Ecc.mi Presuli, 12 Settembre 2009). San Domenico, il fondatore dell’Ordine dei Frati Domenicani, brillò per sapienza, verità, integrità, purezza e giustizia. “Il suo successore nella guida dell’Ordine, il beato Giordano di Sassonia – spiega il Santo Padre – offre un ritratto completo di san Domenico nel testo di una famosa preghiera:“Infiammato dello zelo di Dio e di ardore soprannaturale, per la tua carità senza confini e il fervore dello spirito veemente ti sei consacrato tutt’intero col voto della povertà perpetua all’osservanza apostolica e alla predicazione evangelica”. È proprio questo tratto fondamentale della testimonianza di Domenico che viene sottolineato: parlava sempre con Dio e di Dio. Nella vita dei santi, l’amore per il Signore e per il prossimo, la ricerca della gloria di Dio e della salvezza delle anime camminano sempre insieme”. Domenico nasce in Spagna, a Caleruega, intorno all’Anno Domini 1170 da una nobile famiglia della Vecchia Castiglia. Sostenuto da uno zio sacerdote, si formò in una celebre scuola di Palencia. Si distinse subito per l’interesse nello studio della Sacra Scrittura e per l’amore verso i poveri, al punto da vendere i libri che ai suoi tempi costituivano un bene di grande valore, per soccorrere, con il ricavato, le vittime di una carestia. Ordinato sacerdote, fu eletto canonico del capitolo della Cattedrale nella sua diocesi di origine, Osma. “Il Vescovo di Osma, che si chiamava Diego, un vero e zelante pastore – ricorda Papa Benedetto XVI – notò ben presto le qualità spirituali di Domenico, e volle avvalersi della sua collaborazione. Insieme si recarono nell’Europa del Nord, per compiere missioni diplomatiche affidate loro dal re di Castiglia. Viaggiando, Domenico si rese conto di due enormi sfide per la Chiesa del suo tempo: l’esistenza di popoli non ancora evangelizzati, ai confini settentrionali del continente europeo, e la lacerazione religiosa che indeboliva la vita cristiana nel Sud della Francia, dove l’azione di alcuni gruppi eretici creava disturbo e l’allontanamento dalla verità della fede. L’azione missionaria verso chi non conosce la luce del Vangelo e l’opera di rievangelizzazione delle comunità cristiane divennero così le mète apostoliche che Domenico si propose di perseguire. Fu il Papa, presso il quale il Vescovo Diego e Domenico si recarono per chiedere consiglio, che domandò a quest’ultimo di dedicarsi alla predicazione agli Albigesi, un gruppo eretico che sosteneva una concezione dualistica della realtà, cioè con due principi creatori ugualmente potenti, il Bene e il Male. Questo gruppo, di conseguenza, disprezzava la materia come proveniente dal principio del male, rifiutando anche il matrimonio, fino a negare l’incarnazione di Cristo, i sacramenti nei quali il Signore ci “tocca” tramite la materia, e la risurrezione dei corpi. Gli Albigesi stimavano la vita povera e austera – in questo senso erano anche esemplari – e criticavano la ricchezza del Clero di quel tempo. Domenico accettò con entusiasmo questa missione, che realizzò proprio con l’esempio della sua esistenza povera e austera, con la predicazione del Vangelo e con dibattiti pubblici. A questa missione di predicare la Buona Novella egli dedicò il resto della sua vita. I suoi figli avrebbero realizzato anche gli altri sogni di san Domenico: la missione ad gentes, cioè a coloro che ancora non conoscevano Gesù, e la missione a coloro che vivevano nelle città, soprattutto quelle universitarie, dove le nuove tendenze intellettuali erano una sfida per la fede dei colti”. A Domenico di Guzman si associarono poi altri uomini, attratti dalla stessa aspirazione. “In tal modo, progressivamente, dalla prima fondazione di Tolosa, ebbe origine l’Ordine dei Predicatori. Domenico, infatti, in piena obbedienza alle direttive dei Papi del suo tempo, Innocenzo III e Onorio III, adottò l’antica Regola di sant’Agostino, adattandola alle esigenze di vita apostolica, che portavano lui e i suoi compagni a predicare spostandosi da un posto all’altro, ma tornando, poi, ai propri conventi, luoghi di studio, preghiera e vita comunitaria. In particolar modo, Domenico volle dare rilievo a due valori ritenuti indispensabili per il successo della missione evangelizzatrice: la vita comunitaria nella povertà e lo studio”. Domenico e i Frati Predicatori si presentavano come mendicanti, cioè senza vaste proprietà di terreni da amministrare. “Questo elemento li rendeva più disponibili allo studio e alla predicazione itinerante e costituiva una testimonianza concreta per la gente. Il governo interno dei conventi e delle provincie domenicane si strutturò sul sistema di capitoli, che eleggevano i propri Superiori, confermati poi dai Superiori maggiori; un’organizzazione, quindi, che stimolava la vita fraterna e la responsabilità di tutti i membri della comunità, esigendo forti convinzioni personali. La scelta di questo sistema nasceva proprio dal fatto che i Domenicani, come predicatori della verità di Dio, dovevano essere coerenti con ciò che annunciavano. La verità studiata e condivisa nella carità con i fratelli è il fondamento più profondo della gioia. Il beato Giordano di Sassonia dice di san Domenico:“Egli accoglieva ogni uomo nel grande seno della carità e, poiché amava tutti, tutti lo amavano. Si era fatto una legge personale di rallegrarsi con le persone felici e di piangere con coloro che piangevano”(Libellus de principiis Ordinis Praedicatorum autore Iordano de Saxonia, ed. H.C. Scheeben, [Monumenta Historica Sancti Patris Nostri Dominici, Romae, 1935]). Inoltre, “Domenico, con un gesto coraggioso, volle che i suoi seguaci acquisissero una solida formazione teologica, e non esitò a inviarli nelle Università del tempo, anche se non pochi ecclesiastici guardavano con diffidenza queste istituzioni culturali”. Le Costituzioni dell’Ordine dei Predicatori danno molta importanza allo studio come preparazione all’apostolato. “Domenico volle che i suoi Frati vi si dedicassero senza risparmio, con diligenza e pietà; uno studio fondato sull’anima di ogni sapere teologico, cioè sulla Sacra Scrittura, e rispettoso delle domande poste dalla ragione. Lo sviluppo della cultura impone a coloro che svolgono il ministero della Parola, ai vari livelli, di essere ben preparati. Esorto dunque tutti, pastori e laici, a coltivare questa “dimensione culturale” della fede – afferma il Santo Padre – affinché la bellezza della verità cristiana possa essere meglio compresa e la fede possa essere veramente nutrita, rafforzata e anche difesa. Invito i seminaristi e i sacerdoti a stimare il valore spirituale dello studio. La qualità del ministero sacerdotale dipende anche dalla generosità con cui ci si applica allo studio delle verità rivelate”. Come ci ricorda il Santo Padre “Domenico, che volle fondare un Ordine religioso di predicatori-teologi, ci rammenta che la teologia ha una dimensione spirituale e pastorale, che arricchisce l’animo e la vita. I sacerdoti, i consacrati e anche tutti i fedeli possono trovare una profonda “gioia interiore” nel contemplare la bellezza della verità che viene da Dio, verità sempre attuale e sempre viva. Il motto dei Frati Predicatori – contemplata aliis tradere – ci aiuta a scoprire, poi, un anelito pastorale nello studio contemplativo di tale verità, per l’esigenza di comunicare agli altri il frutto della propria contemplazione. Quando Domenico morì nel 1221 a Bologna, la città che lo ha dichiarato Patrono, la sua opera aveva già avuto grande successo. L’Ordine dei Predicatori, con l’appoggio della Santa Sede, si era diffuso in molti Paesi dell’Europa a beneficio della Chiesa intera. Domenico fu canonizzato nel 1234, ed è lui stesso che, con la sua santità, ci indica due mezzi indispensabili affinché l’azione apostolica sia incisiva. Anzitutto, la devozione mariana, che egli coltivò con tenerezza e che lasciò come eredità preziosa ai suoi figli spirituali, i quali nella storia della Chiesa hanno avuto il grande merito di diffondere la preghiera del santo Rosario, così cara al popolo cristiano e così ricca di valori evangelici, una vera scuola di fede e di pietà. In secondo luogo, Domenico, che si prese cura di alcuni monasteri femminili in Francia e a Roma, credette fino in fondo al valore della preghiera di intercessione per il successo del lavoro apostolico. Solo in Paradiso comprenderemo quanto la preghiera delle claustrali accompagni efficacemente l’azione apostolica! A ciascuna di esse – rivela il Santo Padre – rivolgo il mio pensiero grato e affettuoso. La vita di Domenico di Guzman sproni noi tutti ad essere ferventi nella preghiera, coraggiosi a vivere la fede, profondamente innamorati di Gesù Cristo. Per sua intercessione, chiediamo a Dio di arricchire sempre la Chiesa di autentici predicatori del Vangelo”.
Nel volume “Domenico, la grazia della parola” di Padre G. Bedouelle O.P., scopriamo la preghiera evangelica di san Domenico, le sue orazioni notturne, l’ardore e l’intensità con cui ha fatto sua la preghiera della Chiesa. A immagine di Gesù Cristo sono le fondamenta della Famiglia religiosa domenicana. La preghiera rispondeva al desiderio che Domenico aveva di vivere pienamente la liturgia della Chiesa che è ben più di un rituale e di un linguaggio, poiché Parola ricevuta da Gesù. San Domenico con la Predicazione che è Parola data, annunciando il Vangelo, non ha fatto altro che manifestare il legame vivo, vitale e visibile tra Parola ricevuta e Parola data, un legame allentato e disperso che bisognava incarnare in una maniera di vivere significativa, con la vita di Domenico e dei suoi frati mendicanti, con la preghiera personale e comunitaria la cui intensità colpisce tutti coloro che gli sono vicini. Preghiera incessante di Domenico che ha vissuto alla lettera il precetto paolino della “preghiera senza intermissione”, come si legge nella Lettera agli Efesini (6,18):“Vivete nella preghiera e nelle suppliche, pregate in ogni tempo nello spirito; vigilate incessantemente e intercedete per tutti i santi”. Lo testimoniano i suoi frati al processo di Bologna. La preghiera mormorata nel segreto della notte si fa predicazione in Domenico. Una vita di preghiera rappresentata e raffigurata in graziose miniature del XIII secolo nell’opuscolo medievale “Nove modi di pregare di Domenico”, appendice alla “Vita di san Domenico” composta dal domenicano Thierry d’Apoldo. Il testo mette in rapporto i movimenti del corpo con l’espressione della preghiera, illustrando i modi di pregare con brani della Scrittura che Domenico conosceva a memoria. Il più delle volte Domenico frammischia gesti e parole dispiegando lo splendore molteplice della preghiera cristiana, pregando per tutti i peccatori, per la conversione e la protezione dei giovani frati che inviava nel mondo a predicare il Vangelo alle anime. Con il suo esempio ancor più che con le sue parole, Domenico insegnava ai suoi frati questo modo di pregare. “Quando si vuol pregare più intimamente, si deve scegliere un atteggiamento in virtù del quale si può amare Dio maggiormente, sia che si resti seduti o in piedi, prostrati a terra o inginocchiati”(Sentenze, san Stefano da Muret, 104,2). Tutta la persona si esprime nella preghiera. Non si tratta di tecniche o metodi per giungere all’unione con il divino, bensì il riflesso profondo dei movimenti dello spirito. La tradizione domenicana rinnova la potenza dinamica della “grazia della predicazione”, riferendosi alle figure che nel Vangelo ne sono le portatrici privilegiate: per questo venera il Precursore, Giovanni Battista, il primo Predicatore; e i primi frati riconoscono in Santa Maria Maddalena l’“apostola degli apostoli” e l’“ambasciatrice degli ambasciatori”, per aver annunciato la Buona Novella della Resurrezione di Gesù ai primi discepoli. Domenico medita sul ruolo pasquale della “portatrice di profumi”, che durante la vita pubblica di Gesù si era prostrata ai piedi del Maestro. Ma è soprattutto la Vergine Maria, la “Regina dei Predicatori”, ad essere invocata in tutta la Chiesa. Ed è a Maria la “Vergine di misericordia”, mediatrice attenta, che Domenico affida il suo Ordine di predicazione “per la salvezza del genere umano”, insieme a san Francesco d’Assisi. La Vergine non può abbandonare quell’Ordine Domenicano che ha ottenuto di far nascere: di persona lo assiste, lo protegge e ne cura i più piccoli particolari, “inventandone” anche l’abito di luce e di ombra (cf. “Fioretti domenicani” e “Vite dei frati” di Gerardo di Frachet). Maria prega con i Domenicani soprattutto al momento della processione solenne della “Salve Regina” che chiude la giornata dopo Compieta e durante l’agonia dei frati. Domenico prescrive ai frati di recitare le “Ore della Vergine Maria” prima dell’Ufficio canonicale. Maria si fa così presente in tutta la vita dei frati e le litanie della Vergine (devozione attinta nel XVI sec. dalle fraternite laiche del Rosario) esprimono chiaramente il patrocinio familiare che l’Ordine di san Domenico intende ricevere da Maria, Vergine della misericordia, Madre dal manto che protegge. Domenico e i primi frati recitano in ginocchio l’Ave Maria. Fin dal secolo XI si faceva uso solo della salutazione angelica, ossia delle parole dette dall’Angelo dell’Annunciazione (Luca 1,28). Ave Maria! Solo nel secolo seguente si aggiunge l’esclamazione di Elisabetta nella Visitazione (Luca 1,42). Giordano di Sassonia recitava, l’uno dopo l’altro, il Magnificat e quattro salmi, le cui iniziali componevano insieme la parola Maria. Alla fine di ciascuna preghiera biblica recitava l’Ave Maria facendo una genuflessione, come si vede fare dall’angelo nelle antiche rappresentazioni dell’Annunciazione (Vitae Fratum, III, 23). Dal 1266 i testi dei capitoli generali prescrivevano ai frati conversi di aggiungere la salutazione angelica a ciascuno dei Pater, che per loro sostituivano l’Ufficio corale. Si utilizzano le corone, chiamate allora “paternostri”, per contare debitamente il numero delle parole alle quali si era tenuti, servendosi di uno strumento di devozione che la maggior parte delle grandi religioni già conosceva. Per assimilazione ai 150 salmi di Davide, si prescrivevano tre cinquantine di Pater. Nel XIII secolo si va sviluppando il “Salterio di Maria”, composto di 150 Ave Maria. Diffusa era una cordicella a nodi sulla quale i frati domenicani contavano le Ave Maria recitate a migliaia, un abbozzo del nostro rosario attuale. Ci si atteneva al numero aureo delle tre cinquantine: all’inizio del XV secolo si arriva a enumerare i Misteri della vita della Madre di Dio, orientando la preghiera allo spirito della devozione dei giorni nostri. Vi si incorporano le 15 gioie di Maria e i 7 dolori della Vergine, predetti da Simeone (Luca 2,35). Il rosario si diffonde nel popolo grazie al domenicano bretone, il beato Alario della Rupe (1428-1475) che propaga la devozione al Salterio della Vergine nel nord della Francia e nelle Friande, organizzando ovunque Confraternite del Rosario per “essere liberati dalla morte subitanea e dai malvagi assalti del nemico infernale”(A. Wilmart). Il beato Alario della Rupe sembra attribuire l’invenzione del rosario al patriarca del suo Ordine, san Domenico. Tuttavia, testimonianze imprecise, racconti leggendari abbondano, si intersecano e si contraddicono nelle varie rappresentazioni che si possono trovare a migliaia nelle chiese della Riforma cattolica, nelle cappelle curate dalle confraternite del rosario. Fonte di queste leggende è il “Rosarium”, un lungo poema mariano composto da un domenicano verso la metà del XIV secolo. Se per alcuni l’assenza totale di testi non permette di attribuire al fondatore dei Predicatori l’invenzione della pia pratica mariana, geniale nella sua semplicità. Ma nessuno può negare il rapporto speciale, nel corso dei secoli, tra il rosario e i Domenicani. A Giacomo Sprenger (1436-1496) è da attribuire la ripartizione in misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi, facendo del rosario una vera preghiera della Chiesa. Papa Pio V, domenicano austero e pio, attribuì alla preghiera del rosario la Vittoria di Lepanto (1571) che fermò l’avanzata dei turchi mussulmani in Europa. Il Senato di Venezia riconobbe e fece iscrivere la vittoria a “Maria del rosario” celebrata come “Nostra Signora della Vittoria”. La liturgia domenicana ha incorporato la promessa del fondatore, pregandolo di realizzarla, con un responsorio che data a una ventina d’anni dopo la morte di Domenico:“Quale meravigliosa speranza hai dato a coloro che ti piangevano nell’ora della morte: tu hai promesso di venire in aiuto dei tuoi frati: compi dunque la promessa…”. Domenico è stato “araldo della salvezza quando scese la sera del mondo”, come afferma un inno di celebrazione della festa nel 1232. Domenico è “la stella della sera che si illumina quando il mondo già declina verso la fine; è il precursore del secondo Avvento del Signore e il testimone dell’imminenza della venuta del Giudice Sovrano”. La preghiera di Domenico è la vittoria contro la morte, è il sollievo nel trapasso, è la garanzia della “grazia della predicazione”. Domenico lasciò ai frati quanto possedeva:“abbiate la carità, conservate l’umiltà, praticate la povertà volontaria”. Umiltà, sobrietà, disprezzo delle cose del mondo. Il “testamento di Domenico”, come quello di Francesco, ha svolto un ruolo non piccolo anche nella polemica sulla povertà comune nell’Ordine, nei secoli XV e XVI. Gli storici hanno rinunciato a vedervi un vero “testamento” ma le prescrizioni ivi contenute corrispondevano e si identificavano alla vita e ai desideri di san Domenico. In realtà, l’eredità di Domenico è la sua opera, i suoi frati, le sue suore, i suoi laici. E per continuarla Giordano di Sassonia ne fu l’esecutore testamentario. L’intelligenza e il discernimento spirituale di Domenico gli avevano fatto presentire in Giordano di Sassonia, maestro in lettere e filosofia, uno di quegli esseri che, per natura e per grazia, congiungono santità di vita, profondità di dottrina spirituale, efficacia di comando e non comuni doti di tatto, sensibilità tanto viva quanto dominata. Animatore di giovani studenti, nella sua immensa attività di predicazione, di fondazione di comunità, di legislazione dell’Ordine, non meno che nei suoi innumerevoli viaggi (l’ultimo, in mare, gli costa la vita lungo le coste siriane, nel febbraio 1237) Giordano non solo continua l’opera di Domenico ma si appoggia incessantemente sul padre Domenico “già arrivato presso il Signore per essere il nostro avvocato. Sì, sì, buon maestro, sì, così sia, io ti supplico, illustre guida, padre sostentatore!”. Nella Chiesa Cattolica la paternità è legata al ministero, al Vangelo. “Io, mediante il Vangelo, vi ho generati in Gesù Cristo” (1 Corinti 4,15; Galati 4,19; Efesini 3,15). Non esiste “una” scuola domenicana di spiritualità: sono molti i grandi spirituali domenicani che hanno rispecchiato il modo di essere, di vivere e di pregare di Domenico. E non esiste neppure “un” metodo domenicano di orazione. L’irradiamento di Domenico si opera soprattutto su tutti coloro che, in un modo o nell’altro, richiamandosi a lui, vogliono “predicare”. Frati, suore e laici domenicani, in una specie di microcosmo del popolo di Dio, si rifanno alla fecondità del loro e nostro Padre Domenico, e la manifestano. In realtà, la grazia di Domenico si estende ben al di là del suo Ordine. L’esempio più prestigioso è quello di santa Teresa d’Avila. La Santa il 30 settembre 1574 fece visita alla “grotta” di san Domenico, nel convento dei Predicatori di Segovia, dove la tradizione riferisce che il Padre dei Predicatori era venuto a pregare. Nella cappella della Santa Croce ebbe per due volte la visione di Domenico. La prima volta le promise di “favorirla e aiutarla senza tregua nella riforma del Carmelo e dei carmelitani”. Nella seconda il Signore le apparve con Domenico e le disse, mostrandogli il santo:“Rallegrati col mio amico”. “Totalmente domenicana di cuore”, Teresa ebbe il sostegno di non pochi figli di san Domenico. Non bisogna stancarsi di ripetere che il fascino di Domenico è quello del Vangelo, della sua Grazia, della sua Parola. Domenico non ci ha lasciato nessuno scritto. Ma tutta la sua vita come è stata raccolta, il suo insegnamento come è stato trasmesso e la speranza che lui stesso ha promesso, pronunciano questa Parola di grazia, capace di toccare i cuori di tutti. Certamente certa “cultura” letteraria e cinematografica di libertaria e libertina made in Europe, non è affatto generosa con l’Ordine Domenicano. Per non parlare del cinema italiano. Sono state confezionate pellicole scandalose contro i Domenicani sulla falsa riga di romanzi medievali altrettanto ingiuriosi e niente affatto fedeli alla verità storica di fatti e persone. Si è romanzato fin troppo male, alterando fatti e circostanze per puro spettacolo e compiacente odio alla Chiesa di Cristo, senza però avere il pudore di inventare anche i nomi dei personaggi protagonisti. Forse è giunta l’ora di fare Giustizia con grandi “produzioni” letterarie e cinematografiche per far conoscere a tutti la figura vera di san Domenico e dei suoi santi frati predicatori, autentici Apostoli della Verità del Vangelo, nei secoli, tra i popoli della Terra.
I laici domenicani d’Abruzzo, consapevoli dell’urgenza e dell’attualità della carisma di San Domenico per la predicazione della Verità e l’annuncio del Vangelo nella società, ringraziano il Padre Alberto Viganò dell’Ordine dei Predicatori, il Promotore Nazionale delle Famiglie Laicali Domenicane. La Famiglia Domenicana si compone di frati, chierici, cooperatori, monache, suore, fraternite sacerdotali e laicali, e membri di Istituti secolari (cf. LCO I,9). Le Fraternite Laicali Domenicane d’Abruzzo, riunite lunedì 25 giugno 2012 per gli esercizi spirituali e la santa messa celebrata nella cappella dell’oasi comunitaria “Casa Maria Immacolata” di Giulianova (http://www.casamariaimmacolata.net/casa.asp) da Padre Alberto Viganò OP, che ringraziamo di cuore per la speciale intervista esclusiva concessa, sono consapevoli dell’urgente necessità di una sincera riscoperta del carisma domenicano nel XXI Secolo, in ogni ambito della vita: nella fede, nella famiglia naturale, nella cultura, nella politica, nell’economia, negli affari, nello sport, nella medicina rigenerativa, nella ricerca scientifica e tecnologica al servizio della Verità. In primis, occorre porre al primo posto il Vangelo. La vera sfida per il Domenicanesimo, alla vigilia del Grande Giubileo di fondazione dell’Ordine dei Frati Predicatori nel 2016, è la Fede, ossia la riscoperta dei “gesti” autenticamente Domenicani per esorcizzare e combattere eroicamente le mille sfaccettature della “eresia” nella storia e nella fede. L’attualità e l’urgenza del carisma domenicano (Ordine “benedetto e prediletto” da Maria Santissima) per l’annuncio della Verità nella società e per l’autentico rinnovamento cristiano sulle orme del Santo Padre Domenico, passa necessariamente per la vita, la storia e la responsabilità di ogni domenicano. Padre Alberto Viganò, la “Famiglia Domenicana” è un’espressione di conio che risponde “ai segni dei tempi”? Che significa realizzare nel mondo la Famiglia Domenicana? “Il Vaticano II e il movimento che ne è seguito, hanno richiesto che ai Laici ed alle Donne venga affidata, nella Chiesa, quella vera responsabilità che loro compete. Per noi, realizzare la Famiglia Domenicana significa creare attorno alla figura di San Domenico un’attiva e fraterna collaborazione tra confratelli e consorelle, religiosi e laici. La fedeltà ai “segni dei tempi” è presente, come in germe, nello stesso progetto di San Domenico. La sua predicazione riunì, inizialmente, una comunità di donne, poi delle comunità di frati, chierici e laici, e di suore. La Parola vi veniva annunciata nella sua verità, meditata e celebrata con fervore. Sulla testimonianza evangelica che da lì scaturiva, si appoggiò la predicazione missionaria di Domenico e la sua diffusione apostolica”. Padre Alberto Viganò, oggi come allora? “Oggi tutta la Famiglia Domenicana partecipa attivamente del Carisma di Domenico, dell’amore alla Parola di Dio ascoltata nella sua radicalità. Parola di salvezza per tutti gli uomini:“Dio mio, misericordia mia, che ne sarà dei poveri peccatori”. Con questa Parola ci confrontiamo insieme (vita comune), la studiamo, la celebriamo (Liturgia) e la testimoniamo”. Padre Alberto Viganò, che cos’è la Vocazione Domenicana? “Dare testimonianza di Gesù Cristo con la predicazione e con la vita, rendere a Dio un culto in spirito e verità: se questa è la Vocazione Domenicana nella sua essenza, essa non è qualcosa di diverso dalla stessa Vocazione della Chiesa nel suo insieme: si comprende così, come a im¬magine delle diversità di ministeri nella Chiesa, esistano pure diversità di rami della Famiglia Domenicana. Né in un caso né nell’altro la diversità contraddice l’unità”. Padre Alberto Viganò, cosa fa sì che un domenicano sia Domenicano del Santo Padre Domenico? “Domanda altrettanto difficile da rispondere. Al di là delle chiamate individuali e collettive, delle forme di vita storicamente definite, dei temperamenti personali, si verifica da molti secoli una reale interazione dovuta alla nostra devozione comune a San Domenico ed ai sentimenti fraterni che professiamo tra noi confratelli e consorelle, chierici e laici. Come in ogni famiglia c’è un’appartenenza reciproca, anche se è difficile specificarla con esattezza. Ci sono certamente dei “gesti” che non sono esclusivamente domenicani ma che, messi insieme, possono caratterizzare la Famiglia Domenicana”. Padre Alberto Viganò, quali sono i “gesti” domenicani? “C’è innanzitutto un’apertura alla missione universale. Non si è domenicano o domenicana per soddisfare le proprie esigenze di domenicano, ma per essere al servizio di tutti. Il servizio è quello della Verità, specialmente della Verità rivelata. I domenicani sono chiamati soprattutto a prendere posizione a favore della integrità della vita cristiana, resistendo alle tendenze ad esagerare in punti particolari, virtù o qualità. Testimoni dell’interiorità e della preghiera contro una pietà formalistica (Caterina o Savonarola), della preghiera vocale e liturgica contro gli illuminati (soprattutto i grandi teologi spagnoli del XVI secolo). Testimoni della necessità della vita contemplativa contro gli attivisti (Giovanni Dominici) e della pratica della carità e delle virtù contro coloro che esagerano la superiorità della vita contemplativa (San Tommaso, Santa Caterina, Bartolomeo de Las Casas, San Luigi Bertràn). I domenicani, nella tensione “naturale-soprannaturale” insistono più sulla continuità che sulle separazioni. L’atteggiamento domenicano aiuta la stima per la libertà, l’onestà e la responsabilità personale, più che i conformismi o le convenienze esteriori”. Padre Alberto Viganò, in che modo l’unità e la diversità caratterizzano l’universo laicale domenicano in Italia, in Europa e nel mondo? “Parlare di Famiglia Domenicana non significa designare un’associazione puramente formale. Si tratta di qualcosa di più profondo e di più esigente. Si tratta della convinzione che non si realizza solamente all’interno di ciascun ramo e, dunque, ancor meno individualmente il Carisma. Perché esso si sviluppi e dia tutti i suoi frutti, è necessaria la collaborazione di tutti. La comunione che unisce tutti i fratelli e le sorelle di San Domenico deve superare, attraverso la preghiera, l’apostolato e la testimonianza della vita, i limiti delle nostre comunità, in modo che ognuno dia all’insieme l’apporto della propria ricchezza, perché il Carisma possa essere vissuto pienamente nel ramo a cui appartiene. Un unico Carisma ed una missione comune, vissuti da gruppi diversi che conservano, nell’ambito di una reale collaborazione, i propri orientamenti specifici e la propria autonomia giuridica. All’interno di questa Famiglia Domenicana ci sono diversi lavori non orientati direttamente alla predicazione, però molto necessari per la stessa proclamazione della Parola di Dio”. Padre Alberto Viganò, i laici sono in prima linea con i frati predicatori per annuncio della Parola di Dio nella diversità dei carismi? Oggi l’insegnamento di San Domenico come può essere vissuto dai laici nella società secolarizzata e scristianizzata? “Il Terz’Ordine Domenicano fu fondato ufficialmente nel 1285, per rendere formali i legami che esistevano già tra vari Conventi domenicani e gruppi di uomini e donne appartenenti all’ordine della Penitenza. Il Maestro Munio diede loro un’organizzazione chiara ed una legislazione concreta, collocandoli direttamente sotto l’autorità del Maestro Generale affinché potessero godere dei benefici dell’Ordine. La Regola venne approvata da Innocenzo VII con una Bolla del 1405 promulgata nel 1439 da Eugenio IV. I laici domenicani non sono dei religiosi. La loro spiritualità non è una specie di versione della spiritualità monastica o conventuale, è una vita spirituale propria dei laici, che li abilita a realizzare come persone cristiane l’Istituzione del Matrimonio, della Famiglia, degli Affari, della Politica e delle Relazioni sociali ed economiche, secondo il Carisma di San Domenico, per la salvezza del mondo. La famiglia è la cellula della Chiesa e la missione che i laici compiono nella casa paterna è una testimonianza irriducibile ed importante del significato di San Domenico. Non cercano tuttavia di essere un ghetto, ma di essere aperti a tutti. Nei confronti degli uomini, come San Dome¬nico, desiderano fare il cammino insieme con loro ed accompagnarli nelle loro necessità, angustie, vacillamenti e dubbi: anche con coloro che si allontanano da Dio. Sempre con amicizia, ma senza fare violenza alla libertà interiore. La loro parola ed il loro esempio devono rappresentare l’amore di Gesù per gli uomini”. Padre Alberto Viganò, per annunciare Cristo al mondo senza lasciarsi contaminare dal mondo? “I nostri laici non ricevono solamente. Sono anch’essi attivi nella vita religiosa e apostolica. Come consigliere, il laico può essere colui su cui si posa lo Spirito per il servizio della comunità, per l’aiuto al prossimo. Il contatto intimo con il mondo attuale fa sì che il ministero dei laici possa essere talvolta più importante, sotto questo aspetto, che lo stesso ministero dei sacerdoti e dei religiosi. L’orientamento ed il governo delle Fraternite sono determinati dalla Regola, secondo la quale i laici si associano, uniti nello spirito apostolico di San Domenico, e fanno professione di vita evangelica secondo la forma di vivere adatta e conveniente approvata dall’Ordine, conforme al loro proprio stato nel mondo (cf. LCO 149). I laici si attendono che tutta la Famiglia Domenicana sappia che essi sono dei compagni che condividono solidalmente gli stessi diritti. I Frati non devono sentirsi superiori agli altri, né le Suore devono credere di occupare un posto più elevato. Tutti, come fratelli, siamo nello stesso rango e godiamo degli stessi diritti e delle stesse grazie, gli uni e gli altri. Ci sono inoltre delle Fraternite di Sacerdoti che intendono confor¬mare la loro vita ed il loro ministero allo spirito di San Domenico (cf. LCO 149). Essi si associano alla spiritualità domenicana e richiedono di tenere un contatto più profondo con i Frati nei loro Conventi, per con¬dividere con essi la ricchezza della famiglia. La struttura ed il regime di queste Fraternite si determinano nella loro stessa regola (cf. LCO 151)”. Padre Alberto Viganò, perché una “Famiglia Domenicana”? “Il concetto di famiglia parla di una comunità derivante da un ceppo unico e legata da vincoli strettissimi in riferimento a questo ceppo, più per un’inclinazione istintiva fondata sulla comunione del sangue e degli affetti, che non per una convenzione o un accordo di convivenza e collaborazione sociale. Il “noi” più intimo e più solido che ci possa essere, sia a livello coniugale sia a livello parentale. Trasferito nel campo delle istituzioni religiose, il concetto di famiglia conserva la sua validità, naturalmente in modo analogico, ma in un ordine nuovo di vincoli, di affetti, di inclinazioni, di rapporti, che non escludono, ma implicano e producono – e semmai consa¬crano – ciò che nella famiglia secondo la carne e il sangue è più importante, consistente e attraente: appunto la comunione e la solidarietà. Solo che alla radice di questo tipo nuovo di famiglia vi è – vi deve essere – un principio creativo di natura spirituale, operante sotto l’azione dello Spirito Santo con il ministero del Fondatore o dell’Ordine stesso che da lui ha origine. Infatti non si fa parte di questa famiglia, non si è fratelli e sorelle, non si riconosce un padre comune per ragioni di parentela naturale e nemmeno semplicemente di simpatia, di attrazione affettiva, di affinità culturale e sociale, di prestigio storico (quantunque questi ultimi elementi possano svolgere un certo gioco nel concreto determinarsi della chiamata e della scelta); ma per il vincolo della carità divina che lega in un “noi” intimo e profondo in Cristo coloro che si sentono attratti e decidono di lasciarsi aggregare, formare, condurre dall’Ordine di San Domenico, secondo gli esempi, le leggi, lo spirito del Fondatore e della tradizione storica (si può dire della progenie spirituale) che da lui deriva. A questa comunanza di origine corrisponde la comunanza della finalità. Ci si unisce infatti in questa famiglia per uno scopo conosciuto e condiviso, e in relazione al quale si entra sotto l’azione dello Spirito Santo, che vuole farlo raggiungere da questo Ordine. Per quello scopo si organizza la famiglia, si vive la vita di famiglia”. Padre Alberto Viganò, qual è lo scopo della Famiglia Domenicana, e quindi il cardine sul quale essa, oggi, può fondare la propria consistenza e la stessa nuova coscienza di sé stessa? “Non ci può essere dubbio sul fine dell’Ordine: l’Evangelizzazione. L’Ordine è nato dal cuore di San Domenico che provava lo struggente bisogno di lavorare per la salute delle anime, e sospirava con queste parole:“Signore, che ne sarà dei poveri peccatori?”. Si sa che Onorio III, nella bolla di approvazione dell’Ordine, scriveva a Domenico e ai suoi primi compagni:“Colui che incessantemente feconda la Chiesa con nuovi figli, volendo rendere questo nostro tempo simile ai primi tempi e propagare la fede cattolica, vi ispirò il pio proposito di abbracciare la povertà e professare la vita regolare per consacrarvi alla predicazione della parola di Dio, evangelizzando attraverso il mondo il nome di Nostro Signore Gesù Cristo. Settecentonovantasei anni dopo quell’atto pontificio del 1216, la Costituzione fondamentale dell’Ordine ribadisce la stessa idea in conformità anche alle Costituzioni primitive:“L’Ordine dei Predicatori, fondato da San Domenico, fu istituito specificamente fin dal principio per la predicazione e la salvezza delle anime”(n. II)”. Padre Alberto Viganò, qual è il Progetto di Vita contemplativa in San Domenico? “In relazione a questo scopo è stato concepito e strutturato l’Ordine nella sua complessità, secondo un progetto che è già di San Domenico, dei suoi primi compagni e dei suoi primi successori, e che rispecchia lo spirito apostolico del Fondatore. Tutta l’organizzazione dell’Ordine è finalizzata e deve servire all’attuazione dell’ideale di vita contemplativa attiva, che i testi del processo per la canonizzazione di San Domenico scolpirono come sintesi della sua vita con questa fortunata espressione:“non parlare che con Dio o di Dio”. Per questo il Beato Giordano di Sassonia, intimo collaboratore e primo successore di San Domenico, a chi gli chiedeva quale fosse il programma del suo Ordine, rispondeva con un’altra geniale espressione sintetica in tre verbi:“ honeste vivere, discere, docere”(cfr. Gerardo Di Frachet, “Vitae Fratrum”, MOFPH, 1896, p. 138). Il Beato parlava dello Studio (discere), sia di quello scientifico che dai seguaci di San Domenico veniva compiuto nelle università e negli altri istituti superiori, sia di quello spirituale che consisteva negli esercizi della vita contemplativa e specialmente nello svolgi¬mento solenne della liturgia, della scuola di orazione e di dottrina. Parlava dell’Insegnamento (docere) impartito a livello sia pastorale sia scolastico, sia teologico sia catechistico, sia con la predi¬cazione popolare sia con quella dotta. Parlava di quella Onestà della vita (honeste vivere) che si sviluppa dalla radice della Carità (amore di Dio e del prossimo) come ramificazione di virtù che raggiungono la loro perfezione nell’ambito dei consigli evangelici per mezzo dell’osservanza regolare e della vita comune. Questa originale e tradizionale impostazione della vita religiosa domenicana in ordine all’evangelizzazione, è confermata dalla Co¬stituzione fondamentale dell’Ordine, che mette bene insieme vari testi dei primi tempi: “Dal momento che siamo partecipi della missione degli Apostoli, ne imitiamo dunque anche la vita secondo il modo ideato da San Domenico, mantenendoci unanimi nella vita comune, fedeli alla professione dei consigli evangelici, fervorosi nella celebrazione comune della liturgia, soprattutto dell’Eucaristia e del¬l’Ufficio divino, e nella preghiera, assidui nello studio, perseveranti nell’osservanza regolare…”(n. IV). Padre Alberto Viganò, qual è il pregio dell’equilibrio spirituale domenicano? “La complessità delle componenti potrebbe determinare nella vita e nella spiritualità domenicana certe tensioni difficilmente superabili se il gioco delle preferenze dovute a condizioni psicologiche dei singoli o all’influsso di fattori ambientali, sociali, ecclesiastici, legati ai tempi e ai luoghi, si spingesse fino a opposti estremismi, producendo eccessi, esclusioni, divisioni che finirebbero col defor¬mare le fattezze dell’Ordine creato “a immagine e somiglianza” di San Domenico. Questo pericolo è sempre stato presente nella nostra storia ed oggi pure minaccia coloro che, nelle loro concezioni e scelte al di dentro dell’Ordine, possono prevaricare: o con un certo assolu¬tismo che può anche diventare fanatismo di visuali, interpretazioni e giudizi (o pregiudizi) sempre parziali; oppure cadendo troppo facilmente nello scoraggiamento dinanzi al prevalere di idee che non condividono, perché le ritengono lesive dell’autenticità dell’Ordine, e quindi rifugiandosi in un voluto isolamento rinunciatario e scon¬tento. Forse la situazione odierna va attentamente riesaminata sotto questo profilo, come va ripetuto e ribadito ciò che si è sempre detto, cioè che la vocazione domenicana impegna in cose difficili: tra le quali, la più difficile è il giusto equilibrio tra le componenti della nostra vita. La storia ci attesta che l’Ordine, nel suo insieme, ha sempre salvato questo equilibrio e lo ha trasmesso di generazione in gene¬razione attraverso tre principali veicoli”. Padre Alberto Viganò, quali sono i tre principali veicoli dell’equilibrio spirituale domenicano? “La sua Legislazione, che bisognerà sempre rispettare e se¬guire nei suoi filoni fondamentali, da non compromettere mai, ma anzi da rafforzare con i necessari adattamenti e aggiornamenti delle norme secondarie; l’Esempio dei suoi Santi, dei quali bisognerà sempre stu-diare la vita, onorare la memoria e ripetere le gesta, auspicando, pregando e operando perché l’Ordine ne generi altri nel nostro secolo; la Dottrina di San Tommaso, che bene assimilata e fedel¬mente trasmessa ha permesso all’Ordine di godere, nel suo insieme e in molti suoi membri fedeli a quella scuola, non solo di un’eccezionale robustezza di pensiero, ma anche di una sorprendente caratterizzazione unitaria nell’armonia della spiritualità e dell’aposto¬lato. Meno notevole, invece, forse per un riflesso negativo dei grandi pregi posseduti, sembra sia stato storicamente il successo nell’orga¬nizzazione pratica e nel governo”. Padre Alberto Viganò, quali sono i punti salienti dell’armonia domenicana? “I punti sui quali si può meglio scoprire l’equilibrio raggiunto nella sintesi domenicana di pensiero e di vita, sembrano essere specialmente i seguenti: una vita d’orazione libera da ogni formalismo pietistico, come da un intimismo egocentrico che potrebbe essere la traduzione religiosa del solipsismo, del narcisismo: la buona teologia – vera¬mente teocentrica – salva da queste forme di patologia spirituale; una contemperanza e quasi un concatenamento della pre¬ghiera personale (orationes secretae) con la preghiera corale e litur¬gica, che salva dalle tentazioni (o illusioni) dell’ispirazionismo pseudo-carismatico e del soggettivismo, quale si può manifestare – e si è manifestato – nelle pretese sia del “libero esame” protestante sia dell’esperienza interiore degli “atumbrados”, come più tardi – e non senza collegamenti e derivazioni da quelle esperienze religiose – nelle filosofie illuministiche e immanentistiche; una vita conventuale che non si esaurisce nella sfera del¬la osservanza monastica, pur nobilissima e in parte necessaria anche per l’Ordine domenicano, né ammette di essere praticamente elusa dall’indisciplinato e incontrollato gettito di sé nel vortice dell’azione. Secondo il genuino concetto di San Domenico, il convento costituisce la base o il punto di concentrazione dove la cura della crescita personale nella somiglianza e nella comunione con Cristo secondo il modo del Fondatore (“induite Domincum ut induatis Christum Jesum”, come si legge sulla porta del noviziato di Chieri e nella basilica di S. Maria sopra Minerva di Roma) va di pari passo con l’addestramento, la formazione permanente, la continua rigenerazione o il ricupero delle energie spirituali, psichiche e fisiche necessarie per l’apostolato; lo studio inteso come mezzo di formazione, di vita spi¬rituale e di apostolato, e quindi non esaurito nell’ambito delle ricerche e delle elucubrazioni aridamente scientifiche, peraltro ap¬prezzabili e necessarie, ma incluso nella più ampia sfera della vita sapienziale di pensiero e di azione; e tuttavia praticato con impegno di serietà, di coerenza e di fedeltà specialmente nella teologia e nella filosofia alla scuola dell’intramontabile maestro San Tommaso d’Aquino; l’apostolato della verità in tutte le forme e con tutti i mezzi tradizionali e moderni che possono servire alla sua propaga¬zione, ma ricordando che la Verità è una carità da offrire, da fare e da testimoniare anche con le opere di misericordia spirituale e corporale verso i bisognosi, come hanno fatto tanti nostri confratelli di ogni tempo; la soprannaturalità dell’ispirazione, dei fini, della stessa sostanza della vita religiosa e apostolica, che è tutta uno sviluppo del germe della grazia deposto nell’anima col battesimo, ben lungi dal naturalismo del pensiero e della spiritualità; la valutazione positiva e una grande apertura di mente e di cuore per gli autentici valori – cultura, lavoro, spiritualità, amore, socialità, politica, scienza, sport – espressi o prodotti dalle facoltà umane che la grazia non elimina, ma suppone, esige, perfeziona e potenzia nella stessa loro capacità connaturale, oltre ad elevarle per renderle partecipi della vita intima di Dio, in Cristo, mediante la fede e la carità; l’armonia tra il rispetto della libertà, come espressione della persona che deve compiere responsabilmente il suo percorso di vita spirituale e di apostolato, e le esigenze dell’obbedienza come supplemento della coscienza personale e coefficiente indispensabile della vita comune. Di qui anche l’equilibrio nei rapporti tra sudditi e superiori, che, pur essendo difficile, si può raggiungere abbastanza facil¬mente nell’Ordine, almeno nella sua forma fondamentale, cioè nella vittoria sopra gli opposti pericoli del conformismo o dell’indipen¬denza, e quindi nell’obbedienza consapevole da una parte, e dal¬l’altra nell’esercizio prudente dell’autorità in comunione d’amore con le persone, e pur sempre in ordine al bene comune. Per tutte queste ragioni appare così vero, così appropriato all’Ordine ciò che scrive Santa Caterina da Siena, cioè che San Domenico volle e fondò una religione larga e spaziosa, somigliante ad un giardino “dilettosissimo in sé”, e che bisogna guardarsi bene dall’“inselvatichire”(cfr. Dialogo, c. 158). Di questo giardino delizioso fanno parte i quattro gruppi di membri della Famiglia Domenicana, che si alimentano dello stesso humus e vivono in unità di spirito e in varietà di modi nell’armonia dell’unico Tutto”. Padre Alberto Viganò, qual è oggi il vissuto delle Fraternite domenicane alla luce del Carisma di San Domenico? “Le Fraternite laicali e sacerdotali di aderenti all’Ordine, come oggi si preferisce chiamarle, costituiscono l’antico Terz’Ordine, che come istituzione risale al 1285, quando fu ufficialmente eretto dal maestro generale Munio da Zamorra. Ma la genealogia di tale ramo della Famiglia Domenicana si può far risalire allo stesso San Domenico, che riuniva intorno a sé, con varie denominazioni, come quella di “milizia di Gesù Cristo”, gruppi di laici per la difesa spirituale e temporale della Chiesa e in definitiva per l’apostolato. Nei secoli, il Terz’Ordine, più o meno florido secondo i luoghi e i tempi, non ha cessato di riunire uomini e donne, laici e sacerdoti che trovavano nello spirito di San Domenico e nella Regola ispirata ai suoi principi ed alle sue istituzioni, una guida per vivere cristianamente e tendere alla perfezione nel proprio stato. Nei periodi di maggiore fioritura, il Terz’Ordine ha promosso anche forme collettive di lavoro nei campi della pietà, della carità, della collaborazione all’apostolato. Oggi le Fraternite laicali cercano di elaborare progetti e di prendere iniziative di partecipazione alla vita della Famiglia Domenicana sia con la testimonianza evangelica e con una più stretta unione con i frati nell’apostolato, sia con un maggiore inserimento – se è possibile – nelle comunità e specialmente nei conventi, ben oltre le riunioni periodiche di preghiera e di istruzione che si tenevano un tempo per i terziari e specialmente per le terziarie. Vi è nelle Fraternite un bisogno più sentito di azione e di apporto attivo alla vita dell’Ordine. Vi è anche il desiderio di accentuare gli aspetti laicali della vita spirituale e dell’impegno apostolico, sempre nell’ambito della Famiglia Domenicana”. Padre Alberto Viganò, esiste davvero una “parità” dei diritti e dei doveri ecclesiali all’interno della Famiglia Domenicana? “A volte si fa anche il discorso (ma forse da parte più di alcuni frati che non delle Fraternite) su di una ipotetica parità di diritti nell’ambito della Famiglia Domenicana, come viene accennato anche nel Progetto di costituzione. Si ha l’impressione che questo discorso sia piuttosto difficile e che venga basato su qualche confusione di termini o di idee. Forse è l’ultimo discorso da fare nell’avvio di una nuova vita di “famiglia”. Non sembra che i laici schiettamente dediti alla vita spirituale e all’apostolato secondo il modello domenicano, facciano questo discorso. Tuttavia è certo che se nell’organizzazione del lavoro si ponessero problemi che comportino attribuzioni di diritti, o di qualcosa di simile, essi dovranno essere affrontati con saggezza e lealtà, tenendo conto della personalità dei laici (ma anche delle monache e delle suore) nella Chiesa e quindi nella Famiglia Domenicana”. Padre Alberto Viganò, per attuare la Famiglia Domenicana sempre meglio e per assicurarle la vita, quali iniziative sono in progetto e in programma? “Il ‘che fare’ è la questione concreta a cui bisogna cercare di dare delle risposte concrete. Sembra che per formulare un piano d’azione a medio ed a lungo termine, si debba prendere come punto di partenza la conoscenza – se possibile acquisita anche con i metodi scientifici della statistica e della sociologia religiosa – della reale situazione in cui ci si trova come Ordine e come Chiesa. Qui basti fare qualche accenno ai dati emersi dall’osservazione ed analisi compiuta ormai da molti, e che sono di comune dominio. È un buon segno, senza dubbio, il risveglio della Famiglia Domenicana, che va considerato nel quadro della Chiesa in questa ora straordinaria della sua storia. Nella Chiesa si rafforza sempre più la coscienza del ruolo delle famiglie religiose; della nuova chiamata dei laici ad essere presenti e operanti nelle comunità cristiane; della comunione come valore fondamentale nel quale le persone e i gruppi devono riporre il cardine della loro esistenza ecclesiale; della varietà dei carismi, quali si manifestano specialmente negli Ordini religiosi, in rapporto con i ministeri e le istituzioni che costituiscono la struttura portante di tutta l’organizzazione ecclesiale. Alla ripresa della coscienza ecclesiale corrisponde un crescente slancio operativo ed associativo specialmente da parte dei giovani e dei giovanissimi, particolarmente capaci di impegno e di entusiasmo, anche quando è meno sentito – ed è un difetto che si deve correggere quanto si può – e la necessità di una rigorosa disciplina di pensiero e di azione. In questo contesto le famiglie religiose potranno forse riscoprire la propria capacità di aver presa e di rispondere a molte richieste di spiritualità e di apostolato. Specialmente gli Ordini che hanno meglio attuato nella loro costituzione, spiritualità e storia, su base teologica, la conciliazione e quasi la fusione dei ministeri e dei carismi (come nelle chiese apostoliche) potrebbero essere in grado di contribuire in modo decisivo alla nuova “edificazione del Corpo di Cristo, che è la Chiesa”(Efesini 4,12) ed all’avvento del Regno di Dio”. Padre Alberto Viganò, il problema focale pare alimentarsi dall’inarrestabile “crisi” di vocazioni sacerdotali e religiose in Occidente, una grave emorragia per la Chiesa, i conventi chiudono e, in alcuni casi, vengono trasformati in musei: qual è il vero volto della crisi vocazionale tra i giovani? “Purtroppo dura da anni in non pochi istituti religiosi, anche nei grandi Ordini, una mancanza di vocazioni, anzitutto, che è in rapporto reciproco di causa ed effetto con altri coefficienti di una crisi piuttosto grave: che è di identità, come spesso si è detto, e quindi di fede e di fiducia nel proprio carisma e nel proprio ministero ecclesiale, di fedeltà alla propria tradizione, alla propria origine, ai propri Santi e persino al proprio Fondatore, del quale, per ben che vada, si cerca di trasformare l’immagine adattandola ai nuovi modelli preferiti. Per queste e per altre ragioni sembra di cogliere in taluni settori di non pochi istituti, specialmente tra i più antichi, un certo senso di stanchezza, una mancanza di entusiasmo, a volte persino un certo fatalismo: tutti fattori di una pesantezza istituzionale a cui non si può rimediare con iniziative estemporanee e con progetti impossibili. Ancor meno si può sperare di riuscire se mancano, o non si sanno valorizzare (quando addirittura non si bersaglino o si emarginino) delle spiccate personalità dotate dei carismi, per dir così, della persuasione, della credibilità, del contagio psicologico e spirituale. Peggio se, esistendo queste personalità di un certo calibro, manca però in loro un vero spirito domenicano, con l’equilibrio che esso comporta, con la capacità, oggi così necessaria, di moderare le varie richieste e proposte, di contemperare le varie esigenze, di contenere le spinte a volte contrastanti. Può anche avvenire, allora, che l’influsso da esse esercitato senza superiore controllo e con abili manipolazioni delle intelligenze e coscienze più deboli, finisca col produrre deviazioni e contrapposizioni intorno a idee e ad esperienze nelle quali si sciupano molte energie e si indebolisce ulteriormente la vitalità di una famiglia religiosa”. Padre Alberto Viganò, quali sono le principali minacce “moderne” alla Chiesa ed agli Ordini sacri? “Sarà bene riflettere sugli opposti pericoli che minacciano le particolari iniziative e le stesse programmazioni più geniali ed a volte autorevoli: l’eccesso di fiducia nel nuovo, nel “progettato”, nel “pubblicizzato”; la pretesa di programmare senza aver prima misurato le forze disponibili e curato la loro preparazione sulla base di una attenta valutazione del rendimento prevedibile a corto, medio e lungo periodo; l’abbandono all’estro anche notevole e lodevole di una personalità di spicco, senza preoccuparsi di creare un clima di solidarietà e comunitarietà, e di garantirsi sulla misura di costanza che accompagna l’intraprendenza; l’illusione sul successo terreno del Regno di Dio, sui risultati dell’attivismo umano, sull’utilità dell’impiego dei metodi del mondo in imprese che, come quella della Redenzione, attuata nel segno della Croce, esigono ben altri mezzi, ben altre impostazioni di lavoro; oppure un ingiustificato pessimismo sui valori umani; sui mezzi terreni messi al debito posto al servizio del Regno di Dio; sul¬la intelligenza, la volontà, la libertà, la bontà degli uomini che si è chiamati ad accostare, ad accogliere, a servire, e con i quali si deve condividere la responsabilità del lavoro apostolico; peggiore di tutti gli altri errori e difetti sarebbe l’insincerità oggettiva, cioè non necessariamente intenzionale, ma emergente da fatti, decisioni, piani, che includessero anche senza colpa formale di qualcuno, una mancanza di rettitudine, di purezza di cuore, di ricerca genuina del Regno di Dio, di spirito di fede e di oblazione religiosa: in casi simili, si costruirebbe sul vuoto”. Padre Alberto Viganò, quale deve essere il piano di lavoro della Famiglia Domenicana? “Stabilito, o per dir meglio conosciuto e valutato, il punto di partenza, sembra che si debba concepire e formulare, con la colla¬borazione di tutti i competenti, un disegno ampio e organico, da realizzare man mano con la grazia di Dio, a fasi e in momenti successivi secondo le indicazioni da Lui date attraverso le circostan¬ze che, lette in chiave cristiana, potranno rivelarsi come segni del suo volere. Il disegno, aderente allo spirito e alla missione dell’Ordine, non potrà non avere come chiave di volta il cardine stesso della Famiglia Domenicana: l’Evangelizzazione come impresa comune. In aderenza alle direttive della Chiesa e in rispondenza ai bi¬sogni del tempo presente, l’evangelizzazione domenicana, senza trascurare nessuno, mirerà specialmente ai lontani dalla fede, ai poveri, agli ambienti (per esempio, dei tecnici, dei dirigenti, degli operai, degli scienziati, degli emarginati), a coloro che lottano per la giustizia e per la pace, agli operatori e agli utenti dei mezzi di comunicazione sociale (specialmente stampa e radiotelevisione) con intenti di assistenza, affiancamento, orientamento etico ed animazione spirituale. Ma in ogni caso l’apostolato dovrà svolgersi con un’inequivoca e convinta finalizzazione all’avvento del Regno di Dio, con mezzi appropriati ed adatti a questo scopo, con serietà e sulla base di una adeguata preparazione spirituale, pastorale e professionale. Naturalmente ciò non significa voler sacralizzare o, peggio, clericalizzare il profano (oggi si direbbe il mondo laico) né strumentalizzare uomini e istituzioni: ma piuttosto aiutare a scoprire le “ragioni supreme” e offrire un “supplemento d’anima”. Questo piano è senza dubbio a lungo termine, non si può attuare con delle improvvisazioni e tentando la fortuna. Pur potendo e dovendo lanciarlo e poi richiamarlo e riproporlo continuamente come impegnativo per la Famiglia Domenicana in quest’ora storica, bisognerà studiare le vie migliori e organizzare le forze per attuarlo gradualmente, secondo le possibilità. Intanto sarà bene fare il censimento delle forze disponibili e poi appellarsi ad esse tutte, perché si concentrino in alcuni campi dove sia possibile condurre esperimenti di evangelizzazione con la cooperazione di tutta la Famiglia Domenicana: monache, frati, suore, Fraternite laicali e sacerdotali, Istituti secolari, altri aderenti e amici”. Padre Alberto Viganò, gli esempi non mancano nella Chiesa fecondata dallo Spirito Santo in quanto i Domenicani sono chiamati a collaborare con gli altri Ordini sacri: in che modo? “L’esempio di altri Ordini, anche molto inferiori al nostro come numero, che hanno saputo concentrare le forze giovanili più valide su alcune iniziative, senza naturalmente trascurate i conventi, è significativo. Penso per esempio ai Frati Minori Conventuali (per riferirmi a un Ordine antico) con i loro Studi Generali per laici, le loro riviste di Padova (Il Messaggero e Credere oggi), le loro Cittadelle dell’Immacolata con relative associazioni e organi. Nello stesso tempo bisognerà curare la buona preparazione di altre forze – specialmente giovanili – secondo le esigenze strategiche e tattiche del piano che si è delineato: preparazione spirituale, pastorale e scientifica, che abbraccia gli studi teologici, filosofici, sociali, ecumenici, missiologici, antropologici, e le tecniche del dialogo e della comunicazione sociale. Questa preparazione seria ed accompagnata il più possibile da una buona formazione religiosa e comunitaria (il che significa, alla vita di comunità ed al lavoro fatti insieme) è indispensabile anche per evitare le improvvisazioni, i dilettantismi, gli sprechi di parole a vuoto. Penso, ad esempio, all’uso improprio che si fa nel nostro mondo di parole come: comunità, socialità, sessualità, carisma, testimonianza, memoriale, ecc., per citare solo le parole meno difficili che si hanno spesso in bocca; oppure alla faciloneria con cui tante volte si usa il linguaggio delle scienze moderne dandovi il significato che certi termini avevano in altri contesti storico-culturali e in sede metafisica: qualcosa di stridente! Con le forze man mano disponibili si potrà procedere nell’esecuzione del piano, cercando di evitare la dispersione degli uomini e dei mezzi; la tentazione delle imprese clamorose ma utopistiche e insostenibili da persone non idonee; la prevalenza di tendenze e preferenze personali sulle esigenze oggettive del bene comune; l’emarginazione di coloro che oppongono a tempo debito fondate obiezioni o riserve su quanto viene progettato; la condanna di tutto ciò che viene fatto dagli altri o perché non combacia con le proprie vedute o anche solo perché è fatto da altri; il disprezzo per tutto ciò che già si fa nei conventi e negli altri centri di lavoro ad opera di religiosi, religiose e laici esemplari che ritengono non si debba eliminare tutto l’antico, anche quando non si vede bene in che cosa consista o quale validità presenti il nuovo. Sembra che buona norma da seguire continuerà a essere quella offerta dalla massima di estrazione evangelica, secondo la quale è opportuno fare certe cose, anche nuovissime, senza omettere le altre (Mt. 23, 23). Si dovrà dunque, essere molto cauti prima di negligere e mettere in pericolo ciò che già esiste e che è proporzionato alle possibilità degli uomini che si hanno a disposizione, mentre non si sa bene se si è in grado di affrontare le novità progettate. Anche questa è una massima evangelica (Lc. 14, 31)”. Padre Alberto Viganò, quale sarà il futuro della Famiglia Domenicana? “Forse si dovrà adottare il criterio di una politica dei “piccoli passi” o, per parlare in termini evangelici, delle “piccole cose” sulla “piccola via” necessaria per entrare nel Regno dei cieli (Mt. 18, 3) per far avanzare l’impegno della Famiglia Domenicana sul terreno della realtà con l’impiego delle forze esistenti e con una garanzia di validità in ciò che si progetta e si fa, salvo a tentare anche grandi imprese appena sia possibile. Nello stato attuale noi (i più), come Famiglia Domenicana nel suo insieme, non possiamo proporci grandi cose, fare grandiosi programmi irrealizzabili. Alcuni membri della Famiglia, sì, sono eccellenti in vari campi, alcuni nostri centri di studio e di apostolato godono di notevole prestigio e, ciò che più conta, fanno molto bene. Noi dobbiamo pregare e ringraziare il Signore per tutto questo, e dare tutto l’aiuto che possiamo a quei nostri confratelli, a quei nostri centri, istituti, organi che svolgono ad alto livello il ministero dell’evangelizzazione: quanto meno non ignorarli, non posporli ad altri che operano negli stessi campi. Ma la Famiglia Domenicana nel suo insieme non è in grado, per ora, di fare grandi cose. Sarà saggio e onesto proporsi di fare dei “piccoli passi” o delle “piccole cose” nei campi dove già si lavora con frutto, dove si può migliorare, correggere, rinnovare ciò che viene fatto, e naturalmente cercare e impiegare nuovi mezzi, aprire nuove vie”. Padre Alberto Viganò, quali sono le possibilità di lavoro che si offrono alla Famiglia Domenicana nelle condizioni presenti? “Incrementare la liturgia con la partecipazione attiva dei membri di tutta la Famiglia Domenicana; far partecipare i laici alla vita comunitaria dei frati, nel debito modo come in casa propria, soprattutto per quelle attività di tipo culturale ed editoriale; i ritiri spirituali o i giorni di incontri comuni; riattivare in alcune case di suore o monasteri o conventi, delle biblioteche costituendo dei centri di spiritualità e di cultura religiosa per la Famiglia Domenicana e i simpatizzanti; a livello nazionale sarebbe auspicabile un incontro annuale di formazione tipicamente tomasiana e cateriniana; sarebbe utile un Bollettino nazionale, anche in ciclostile almeno per la Famiglia Laicale Domenicana, che possa unire non solo tutti i laici del territorio tra loro, ma anche il CNFLD con tutta la Famiglia Domenicana italiana; scambi ed integrazione tra case e provincie; ci si può chiedere se nel quadro organizzativo e operativo della Famiglia Domenicana possono sussistere gruppi, Istituti, Fraternite e persino conventi che si potrebbero chiamare specializzati oppure di categoria (si pensi all’apostolato, alle missioni al popolo, agli studi, alle scuole, alle redazioni, alle vocazioni)”. Padre Alberto Viganò, naturalmente si comincia dall’autentica preghiera del “Padre Nostro”: qual è il suo significato, oggi, per tutti noi? “La preghiera del Padre Nostro è il Salmo che Gesù ci ha lasciato. Ci sono due redazioni del Padre Nostro: quella di Luca (Lc 11,1-4) e quella di Matteo (Mt 6,7-13). La redazione di Luca è più breve. Luca scrive per le comunità che venivano dal paganesimo. Cerca di aiutare le persone che stanno iniziando il cammino della preghiera. Nel Vangelo di Matteo, il Padre Nostro si trova nella parte del Discorso della Montagna, dove Gesù orienta i discepoli nella pratica delle tre opere di pietà: Elemosina (Mt 6,1-4), Preghiera (Mt 6,5-15) e Digiuno (Mt 6,16-18). Il Padre Nostro fa parte di una catechesi per i giudei convertiti. Loro erano abituati a pregare, ma avevano certi “vizi” che Matteo voleva correggere. Nel Padre Nostro, Gesù riassume tutto il suo insegnamento in sette preci rivolte al Padre. In queste sette richieste, riprende le promesse dell’Antico Testamento e ordina di chiedere al Padre che ci aiuti a realizzarle. I primi tre si riferiscono al nostro rapporto con Dio. Gli altri quattro hanno a che vedere con il rapporto comunitario che abbiamo con gli altri. In Matteo 6,7-8 troviamo l’introduzione al Padre Nostro. Gesù critica le persone per le quali la preghiera era una ripetizione di formule magiche, di parole forti, rivolte a Dio per obbligarlo a rispondere alle loro richieste e necessità. Chi prega deve cercare in primo luogo il Regno, molto più degli interessi personali. L’accoglienza della preghiera da parte di Dio non dipende dalla ripetizione delle parole, bensì dalla bontà di Dio che è Amore e Misericordia. Lui vuole il nostro bene e conosce i nostri bisogni, prima ancora delle nostre preghiere. In Matteo 6,9 scopriamo le prime parole:“Padre Nostro, che sei nei cieli!”. Abbà, Padre, è il nome che Gesù usa per rivolgersi a Dio. Esprime l’intimità che Lui ha con Dio e manifesta il nuovo rapporto con Dio che deve caratterizzare la vita della gente nelle comunità cristiane (Gal 4,6; Rm 8,15). Matteo aggiunge al nome del Padre l’aggettivo “Nostro” e l’espressione che “sei nei cieli”. La vera preghiera è un rapporto che ci unisce al Padre, ai fratelli e alle sorelle, alla natura. La familiarità con Dio non è intimista, ma esprime la consapevolezza di appartenere alla grande famiglia umana, a cui partecipano tutte le persone della razza umana, di tutte le etnie e di tutti i credi: Padre Nostro. Pregare il Padre ed entrare nell’intimità con Lui, è anche mettersi in sintonia con le grida di tutti i fratelli e le sorelle. È cercare il Regno di Dio in primo luogo. L’esperienza di Dio Padre è il fondamento di fraternità universale. In Matteo 6,9b-10 scopriamo le tre richieste per la causa di Dio: il Nome, il Regno, la Volontà. Nella prima parte del Padre Nostro, chiediamo di restaurare il nostro rapporto con Dio. Per farlo, Gesù chiede: (a) la santificazione del Nome rivelato nell’Esodo in occasione della liberazione dall’Egitto; (b) la venuta del Regno, atteso dalla gente dopo il fallimento della monarchia; (c) il compimento della Volontà di Dio, rivelata nella Legge che stava nel centro dell’Alleanza. Il Nome, il Regno e la Legge, sono i tre “assi” tratti dall’Antico Testamento che esprimono come deve essere il nuovo rapporto con Dio. Le tre richieste indicano che bisogna vivere nell’intimità con il Padre, facendo conoscere il suo Nome, facendolo amare, facendo in modo che il suo Regno di amore e di comunione diventi realtà, che si faccia la sua Volontà così in terra come in cielo. Nel cielo, il Sole e le stelle obbediscono alla Legge di Dio e creano l’ordine dell’Universo. L’osservanza della Legge di Dio “così in terra come in cielo” deve essere sorgente e specchio dell’armonia e del benessere per tutta la Creazione. Questo rapporto rinnovato con Dio diventa visibile solo nel rapporto rinnovato tra di noi che, da parte sua, è oggetto di altre quattro richieste: il pane quotidiano, il perdono dei debiti, il non cadere in tentazione, la liberazione dal Male. In Matteo 6,11-13 scopriamo le quattro richieste per i fratelli: Pane, Perdono, Vittoria, Libertà. Nella seconda parte del Padre Nostro chiediamo di restaurare e rinnovare il rapporto tra le persone. Le quattro richieste indicano come devono essere trasformate le strutture della comunità e della società in modo che tutti i figli e le figlie di Dio vivano con uguale dignità. “Il Pane quotidiano” (Mt 6,11) ricorda la manna di ogni giorno nel deserto (Es 16,1-36). La manna era una “prova” per vedere se la gente era capace di seguire la Legge del Signore (Es 16,4). Cioè, se era capace di accumulare cibo solamente per un giorno in segno di fede che la provvidenza divina passa per l’organizzazione fraterna. Gesù invita a camminare verso un Nuovo Esodo, verso una nuova convivenza fraterna che possa garantire il pane per tutti. La richiesta del “perdono dei debiti” (6,12) ricorda l’anno sabbatico che obbligava i creditori a perdonare tutte i debiti ai fratelli (Dt 15,1-2). L’obiettivo dell’anno sabbatico e dell’anno giubilare (Lv 25,1-22) era disfare le disuguaglianze e ricominciare di nuovo”. Padre Alberto Viganò, è di forte attualità la preghiera:“Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. “I paesi ricchi, tutti cristiani, si arricchiscono grazie al debito esterno. La richiesta di “non cadere in tentazione” (6,13) ricorda gli errori commessi nel deserto dove la gente è caduta nella tentazione (Es 18,1-7; Nm 20,1-13; Dt 9,7-29) per imitare Gesù che fu tentato e vinse (Mt 4,1-17). Nel deserto, la tentazione spingeva la gente a seguire altri cammini, a ritornare indietro, a non intraprendere il cammino della liberazione ed a esigere da Mosè che la guidava. La liberazione dal Male: il male è il Maligno, Satana, che cerca di deviare e che, in molti modi, cerca di portare le persone a non seguire il cammino del Regno, indicato da Gesù. Tentò Gesù ad abbandonare il Progetto del Padre ed essere il Messia secondo le idee dei farisei, scribi e altri gruppi. Il Maligno allontana da Dio ed è motivo di scandalo. Entrò anche in Pietro (Mt 16,23) e tentò anche Gesù nel deserto. Gesù lo vinse (Mt 4,1-11)”.
© Nicola Facciolini
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