Il perdono non è un atto immediato, ma è l’esito di un lungo lavoro psicologico, spesso doloroso. La decisione di perdonare dà inizio a un difficile percorso interiore che implica il superamento dei sentimenti negativi e l’assunzione di un atteggiamento positivo nei confronti di chi ci ha fatto del male.
Esso è uno sforzo, una scelta che implica necessariamente un atto di volontà e contemporaneamente un atto creativo, un percorso a spirale attraverso il quale riattraversare i propri ricordi, le proprie matrici psicologiche e relazionali, è una novità, una rivelazione nel presente della cronologia (Jankelevitch, 1967), che nel momento stesso in cui si svela si ri-vela.
Molto spesso, nella incapacità di perdono, entrano conflitti intrapersonali, correlati con il fatto che non riusciamo a perdonare noi stessi per aver dimenticato il proprio potere, per averlo dato a qualcun altro, per aver giudicato le vite e le scelte altrui, di essere caduti nella vergogna, nei sensi di colpa, di aver fallito, di esserci ingannati, di aver perso del tempo, di aver perso consapevolezza, riconoscendoci solo come sofferenza.
Tutte cose accaduteci come singoli e come collettività.
Perdonare non significa pronunciare la parola magica del perdono e magari aspettarsi un effetto istantaneo, anch’esso magico.
Può essere facile pronunciare la parola perdono, ma ha poco valore se non c’è il cuore, se non è coinvolta tutta la persona. L’atto della volontà è necessario (come diceva sant’Agostino) ma non è sufficiente. Sono indispensabili risorse come l’intelligenza, il cuore, la sensibilità, il buonsenso, altrimenti risulta un perdono artificioso.
Il perdono dipende quindi da un’azione umana che parte da una autonoma presa di coscienza.
L’uomo è un essere relazionale ed interagisce con il mondo circostante fin dalla nascita.
Wallon, osservando che il neonato necessita in ogni istante di assistenza, afferma che egli è essenzialmente “sociale”: tutte le sue reazioni hanno bisogno di essere completate, compensate, interpretate; incapace di fare alcunché da solo, è manipolato da altri ed è nei movimenti degli altri che prenderanno forma i suoi primi atteggiamenti. Per l’uomo, dunque, essere “sociale” è un’intima necessità, una condizione genetica.
Le relazioni interpersonali soddisfano i più profondi bisogni umani di affiliazione, ma sono anche la fonte di alcune tra le più dolorose ferite. Quando le offese prendono vita, emozioni negative come la rabbia e il risentimento sono reazioni piuttosto comuni che creano una potenziale rottura della relazione stessa (Fincham, Paleari & Regalia, 2000).
A creare ulteriore disagio è l’esigenza naturale di rispondere, attraverso la vendetta, all’offesa subita, per riparare al diritto oltraggiato. Questo sentimento di vendetta può degenerare in rancore: non è più la semplice riparazione di un diritto violato che viene ricercata, ma il male che, in cambio del torto subito, si può arrecare all’offensore. Il rancore è una passione che, aggiunto alla sofferenza per l’offesa subita, ne accentua il carattere alienanti.
Il perdono si configura, pertanto, come un mezzo che l’uomo ha a disposizione per salvaguardare un rapporto compromesso e per rispondere con fiducia e accettazione all’offesa e al dolore infertogli. E citando San Tommaso, possiamo dire che l’uomo è per natura incline all’armonia ed all’unità tra gli uomini, il perdono ristabilisce il legame perduto, la comunione turbata, esiste un’inclinazione naturale al perdono inscritta nel cuore di ogni uomo.
Ora occorre riflettere sulle molte definizioni di perdono, a partire da quella della filosofa inglese Joanna North (1987): “Per perdonare, dobbiamo superare il risentimento, non negandoci il diritto di provare quel risentimento, ma sforzandoci di vedere il colpevole con compassione, benevolenza ed amore, pur sapendo che egli ha volontariamente abbandonato il suo diritto su di essi”.
La studiosa, pertanto,, assegna al perdono il ruolo di restaurare le relazioni danneggiate e sottolinea come il cambiamento della disposizione d’animo verso l’offensore sia necessario, ma che tale cambiamento debba esternarsi anche attraverso azioni positive rivolte a colui che ha offeso.
Molto recentemente (2002), Rye e Pargament definiscono il perdono come: “lasciare andare le emozioni negative (l’ostilità), le cognizioni negative (i pensieri di vendetta) e i comportamenti negativi (l’aggressione verbale) in risposta ad una considerevole ingiustizia subita e disporsi in modo compassionevole nei confronti del colpevole” e, in generale, è opinione di filosofi, psicologi ed etologi, che, per perdonare, un soggetto, per perdonare, deve prima aver subito una ferita profonda e personale e perché sia reale, in virtù del quale chi è stato ferito rinuncia volontariamente al diritto di risentirsi con il suo offensore. Perdonare non significa semplicemente negare o dimenticare il torto subito, desistere dall’attuare la propria vendetta e comportarsi come se nulla fosse successo. Se così fosse, il perdono favorirebbe il ricrearsi delle stesse condizioni in cui si è generata l’offesa ed agevolerebbe il suo ripetersi.
Va anche detto che, infine, in termini più generali è possibile identificare nel perdono due dimensioni: una intrapsichica ed una interpersonale; la prima riferita a ciò che avviene nella mente e nel cuore di chi si sente vittima, quindi agli stati emotivi e cognitivi che chi è stato ferito, nel momento in cui decide di reagire positivamente all’offesa subita; la seconda focalizzata, invece, sui comportamenti tra vittima ed offensore e le azioni sociali che il perdono comporta e sugli atti a tutela della relazione da esso implicati.
In questo senso il perdono è considerato come un potente fenomeno pro-sociale, una strategia che facilita il mantenimento e la restaurazione delle relazioni interpersonali, offrendo la possibilità di un nuovo inizio, che non è un semplice ritorno al passato, ma racchiude in sé la consapevolezza di quanto accaduto.
E poiché nel terzo anno dal terremoto ancora ci sentiamo vittime offese e rancorose, con spinte centrifughe interne e diffidenza verso l’esterno è , in questi giorni di riflessione e festa celestiniana, che dovremmo, con serietà, riflettere singolarmente ed in gruppo su questi temi.
McCullough ha dimostrato che è l’empatia una delle variabili più influenti nel determinare la capacità di perdonare gli altri, facilitata dalla rinuncia alla “rumination”, ossia i pensieri, le immagini ed i sentimenti intrusivi suscitati dall’offesa, con un ruolo centrale nel perpetuare le difficoltà ed i problemi psicologici seguenti all’offesa e nell’ostacolare l’assunzione di un atteggiamento conciliante, di ampio recupero personale e sociale. Per citare E. Fried, grande esperto del tema: “Ricordare è forse il modo più tormentoso di dimenticare e forse il modo più gradevole di lenire questo tormento”.
E’ in questo modo e solo in questo che potremmo davvero capire come il perdono sia un principio di mobilità e fluidità, a differenza del rancore che principio di staticità e rigidità (caratteristiche che accompagnano spesso la sofferenza psichica), ed un processo di umanizzazione, poiché spinge a fare i conti con i propri limiti e la propria vulnerabilità.
Il perdono, come ci dice Celestino, è un principio di libertà, vera, assoluta, autentica, fatta di consapevolezza di Sé e rispetto degli Altri.
Questi i temi centrali nei due film (entrambi a Piazza Palazzo de L’Aquila, oggi 27 e mercoledì 29 agosto), con proiezione aperta a cura dell’Istituto Lanterna Magica de L’Aquila: “Il vento del perdono”, del 2005, diretto da Lasse Hallström e tratto dal romanzo di Mark Spragg “An Unfinished Life” e “Invictus”, del 2009, diretto da Clint Eastwood, adattamento cinematografico del romanzo “Ama il tuo nemico (“Playing the Enemy: Nelson Mandela and the Game that Made a Nation”) di John Carlin, pellicole in cui, sempre Morgan Freeman, insegna, attraverso storie diverse che “il perdono libera l’anima” e rende ciascuno più sereno e migliore.
Carlo Di Stanislao
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