“Chi e orfano della casa dei diritti difficilmente sarà figlio della casa dei doveri”
Propulsore dell’ecumenismo e del dialogo con le altre religioni, a cominciare dall’ebraismo, grande biblista e un uomo di profonda cultura, autore di molti libri e scritti, capace di parlare alle folle e di attirare i giovani, il cardinale Carlo Maria Martini più di ogni altro ha incarnato quel cristianesimo che amo e che è aperto al cambiamento.
E’ morto oggi a 85 anni, nella sua Milano, dopo essere dovuto rientrare per problemi di salute, tre anni fa, e lasciare i diletti studi nella diletta Gerusalemme: non un vezzo, ma un ritiro per tornare “dove ciascuno è nato” e per riprendere l’analisi dei testi biblici, uno studio infaticabile e continuo con, a 75 anni suonati, la traduzione del papiro Bodmer, uno dei più antichi manoscritti sacri, contenente la Prima e la Seconda lettera di Pietro.
E poi per pregare, intensamente e per la pace, nel periodo più duro per quella terra martoriata.
Ci sarebbe rimasto fino alla fine in Terra Santa, se non si fosse reso conto che – con l’avanzare della malattia – avrebbe potuto essere di peso. Così decise di tornare in Italia, a Gallarate e, ai milanesi che erano venuti a festeggiare i suoi ottanta anni, disse in che modo si stava preparando alla morte.
“Provo la sensazione – disse – di essere giunto nella lista di chiamata e sento viva la tensione tra le cose che si vivono ogni giorno e le cose dell’eternità”.
Non è morto a Gerusalemme, come avrebbe voluto, ma, certamente, anche nell’ultima ora terrena ha sentito sul suo corpo malato e sull’anima leggera per aver compiuto intero il suo mandato, la pace della terra di El Gib.
Ed un ultimo insegnamento, grande, ce lo ha dato morendo, poiché, come ha spiegato questa mattina Gianni Pezzoli, direttore dell’unità di Neurologia del Centro Parkinson di Milano, dove era stato ricoverato, ha rifiutato “l’accanimento terapeutico”.
Come ha ricordato Pisapia, nel suo messaggio di cordoglio, forse l’insegnamento maggiore che questo grande ci lascia, è la capacità di accogliere, di integrare il nuovo e il vecchio, perché l’accoglienza, come categoria generale, non è per i cristiani e gli altri esseri umani solo un affare di buon cuore e di buon sentimento, ma uno stile organizzato di integrazione che rifugge dalla miscela di principi retorici e di accomodamenti furbi e si alimenta soprattutto ad una testimonianza fattiva.
Entrato nella Compagnia di Gesù a 17 anni, studiò con grande vigore, filosofia e teologia e il 13 luglio del 1952, venne ordinato sacerdote.
Nel 1958 si laureò in teologia fondamentale alla Gregoriana di Roma, con una tesi dal titolo “Il problema storico della Risurrezione negli studi recenti”, in cui era già presente, in embrione, tutto il suo pensiero: credere nel messaggio di Cristo, soprattutto come prosecuzione continua nel presente.
Nel 1960 curò la nuova edizione del “Novum Testamentum graece et latin” di A. Merk e divvenne membro del comitato per la pubblicazione del “The Greek New Testament”: uno dei cinque editori, l’unico cattolico.
Il 18 luglio 1978 Paolo VI lo nominò Rettore Magnifico della Pontificia Università Gregoriana e, per la quaresima, lo invitò a predicare durante il ritiro quaresimale in Vaticano: l’ultimo di quel Papa, prima della morte.
Giovanni Paolo II lo elessee il 29 dicembre 1979 alla cattedra episcopale di Milano e dall’anno dopo, diede a inizio all’esperienza della Scuola della Parola: le meditazioni tenute in Duomo, per accostare la gente alla Scrittura secondo il metodo della lectio divina, insegnando a “leggere un testo biblico usato nella liturgia, per gustarlo nella preghiera e applicarlo alla propria vita”.
L’11 aprile 2002 ricevette la laurea honoris causa in Scienze dell’Educazione dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e, lo stesso anno, il Pontefice accettò le sue dimissioni.
Nel giugno 2006 forse la sua gioia più grande, appena due anni prima il suo definitivo rientro in Italia: la Laurea honoris causa in filosofia dall’Università ebraica di Gerusalemme.
Ha scritto numerosi libri il Cardinale, intervenendo sui temi attuali e diversissimi. L’ultimo, uscito a marzo: “Credere e conoscere”, frutto di una conversazione avvenuta a più riprese con il chirurgo e senatore Pd Ignazio Marino, dove affronta con coraggio una riflessione su alcuni dei temi più spinosi per la Chiesa di oggi: l’inizio della vita umana, la fecondazione artificiale e la donazione degli embrioni, la sessualità e l’omosessualità, il celibato per i sacerdoti, il fine vita e l’ eutanasia.
Ma il mio preferito, che tengo sul mio comodino e che rileggo molto spesso, è del 2009: “Qualcosa di così personale. Meditazioni sulla preghiera”, in cui, anche per chi non è cristiano, vi un Magnificat sublime verso il riconoscimento della spiritualità, singola e collettiva.
In quelle pagine, scritte a 82 anni, trovo la freschezza di una linfa intatta, che sa pregare come ha pregato l’anziano Simeone alla vista di Gesù bambino nel Tempio, come ha pregato Gesù nell’esultanza e nel dolore.
Ho trovato e trovo il motivo per credere che ogni esperienza di fede, anche quella che compiamo di fronte ad un paziente difficile, sia preghiera che è, innanzitutto, capacità di formulare un dialogo profondo con Dio, “quando ci mettiamo di fronte alla verità dell’essere”.
Ma la parte che rileggo più spesso è quella dedicata all’importanza dei gesti nel vissuto della preghiera, perché nel momento in cui si prega si è interamente davanti al Padre ad affidargli la propria vita.
E anche quella in cui, Carlo Maria Martini, che ben conosce l’uomo e le sue debolezze, chiarisce: “La pietra di paragone dell’autenticità della preghiera è il non ripiegamento su di sé o il gusto intimistico che ci spinge a trovare delle soddisfazioni personali, ma la franca e chiara messa a disposizione della nostra vita per tutti coloro che hanno bisogno di noi, per chi soffre, per i più poveri, per i più bisognosi”.
Carlo Di Stanislao
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