Ieri è stata una grande giornata per il cinema italiano alla Mostra Internazionale di Venezia. Prima il Leone D’Oro alla carriera a Francesco Rosi, consegnato il Sala Grande da Giuseppe Tornatore e con proiezione della copia restaurata di “Il caso Mattei”.
Poi la proiezione del primo di film di Lo Cascio come regista: “La città ideale”.
“Il cinema civile non è una mia invenzione – ha spiegato Francesco Rosi visibilmente commosso – ma trova la sua origine nella gloriosa stagione del neorealismo italiano, che ha influenzato poi negli anni successivi la cinematografia di tutto il mondo, Stati Uniti compresi”.
E proprio grazie agli Stati Uniti, nello specifico la Film Foundation di Martin Scorsese (con il sostegno di Gucci), è stato possibile ammirare Il caso Mattei nella versione restaurata.
Messaggi a Rosi dal Presidente Napolitano, suo compagno di studi all’Università e da Martin Scorsese, che annovera Rosi fra gli autori (con Lizzani, Vancini e Petri), che lo hanno maggiormente influenzato.
L’influenza del cinema di Rosi è evidente anche in altri autori, come, ad esempio da noi, Matteo Garrone (presente in sala) e Paolo Sorrentino.
Francesco Rosi, 90 anni il prossimo 15 novembre, non realizza un film dal 1997 (La tregua) ed ha così sinteticamente commentato la sua carriera: “Con i miei film ho anticipato certe necessità di conoscenza sulle questioni economiche e politiche del nostro Paese. Ho fatto la mia parte, bisogna fare i conti con la propria forza, energia e volontà: Manoel de Oliveira, che di anni ne ha 103, ancora ce la fa”.
Quanto a Tornatore ha rivelato che, con Rosi, sta lavorando alla preparazione di un libro (ci prenotiamo, come Lanterna Magica, per presentarlo a L’Aquila), che racconti tutti i suoi film, dagli esordi fino a “Baaria”.
A proposito del premio a Rosi, il direttore della Mostra Alberto Barbera ha dichiarato: “Con una lunga benché non troppo prolifica carriera, Rosi ha lasciato un segno indelebile nella storia del cinema italiano del dopoguerra. La sua opera ha influenzato generazioni di cineasti in tutto il mondo per il metodo, lo stile, il rigore morale e la capacità di fare spettacolo su temi sociali di stringente attualità. Ragione per la quale è stato ripetutamente accostato al Neorealismo dell’immediato dopoguerra e indicato come il padre nobile di quel filone di cinema impegnato che segnò in particolare gli anni Sessanta e Settanta della nostra produzione nazionale. Rispetto al Neorealismo, che pure contribuì in maniera decisiva alla sua formazione culturale, il cinema di Rosi rappresenta una decisa istanza di superamento, per la precisa volontà di mescolare una fortissima propensione a raccontare eventi, persone ed ambienti reali con quella che Fellini definì la grande lezione artigianale del buon cinema americano. Nei confronti del cinema politico a lui successivo, Rosi vanta invece un indiscutibile merito: quello di aver sempre preferito alla semplificazione ideologica di molti suoi epigoni il durissimo lavoro di ricerca e documentazione che sta alla base di suoi formidabili capolavori come Salvatore Giuliano, La sfida, Le mani sulla città, Il caso Mattei, Lucky Luciano. Una puntuale lezione di storia che coincide con un’altissima lezione di stile, capace di fornire linfa e sostanza per gli altri suoi indimenticabili lavori, tra i quali non si possono non ricordare Cristo si è fermato a Eboli, Cadaveri eccellenti e Tre fratelli”.
Un altro Leone D’Oro Rosi lo aveva vinto nel 1963, con “Le mani sulla città” (una copia in perfetto stato è presente nella Cineteca de L’Aquila), film-denuncia delle speculazioni e degli scandali durante gli anni della ricostruzione e del boom economico.
Rosi torna alla Mostra di Venezia nel 1970 con un altro film di forte impegno civile, Uomini contro, tratto da Un anno sull’altopiano di Lussu, fornendo uno sguardo privo di retorica sulla prima guerra mondiale.
Credo che alcuni suoi film siano stati fraintesi e sottovalutati. Ad esempio Cadaveri eccellenti (1976), premio David di Donatello per il miglior film e la miglior regia, tratto da Il contesto di Sciascia, che con grande forza evocativa si sofferma sulla spirale del terrorismo e le compromissioni del potere e Carmen, da Bizet, anche lui Davide per film e regia, nel 1984.
Ieri, poi, al Lido, presentazione (apprezzata) del primo film, come regista di Luigi Lo Cascio (come attore per la decima volta alla Mostra): “La città ideale”, con, fra gli altri, lui stesso e lo zio: l’attore teatrale Luigi Maria Burruano, che lo consigliò a Marco Tullio Giordana per il ruolo di Peppino Impastato ne I cento passi. Vincitore della Coppa Volpi, a Venezia 2001, come miglior attore per Luce dei miei occhi di Giuseppe Piccioni, nel 2005 ha firmato la sua prima regia teatrale: Nella tana, un monologo tratto dall’ultimo racconto di Franz Kafka, La Tana, di cui ha curato anche la riscrittura e l’adattamento.
La città ideale può essere definito un “giallo ecologico” con atmosfere kafkiane, oniriche, molto vicine allo stile di Roman Polanski, dove l’ideologia e il modo di vivere di Michele, il protagonista ossessionato più che attento agli stili di vita, si scontra con una società ormai compromessa, che non fa più caso alle cose per cui lui si batte o che difende.
Lo Cascio ha dichiarato di aver scelto il tema dell’ecologia perchè gli permetteva di creare un personaggio in bilico tra la ricerca dell’armonia tra se stesso e l’ambiente, con il rischio di perdere entrambe le cose da un momento all’altro. E l’operazione, a leggere i commenti della critica, gli è pienamente riuscita.
Nel cast, oltre a lui, Roberto Herlitzka, Luigi Maria Burruano, Catrinel Marlon e Massimo Foschi.
La sceneggiatura, molto fluida, è stata da lui stesso scritta insieme a Massimo Gaudioso, Desideria Rayner e Virginia Borgi.
Straordinaria la descrizione di Siena, luogo in cui si ambienta la vicenda, città ideale dove vivere, che Lo Cascio ha così commentato: “Le vicende attuali non tolgono che Siena, anche per la sua storia, resti l’archetipo della città-stato. È una città a misura d’uomo dove la separazione per contrade per assurdo ha cimentato l’unione cittadina”.
Quanto allo stile, debitore certo di Polanski, sembra essere più prossimo a quello allusivo e sognante di Tornatore (che lo ha diretto in “Baaria”), che a quello realistico di Giordana con cui ha lavorato anche in “Romanzo di una strada”.
Oggi è la volta di Ciprì, con “E’ stato il figlio”, che segna il suo esordio in un lungometraggio di fiction e vede protagonista Toni Servillo, un ritratto di famiglia cinico e grottesco, che si evolve attorno alle vicende dei Ciraulo, a cominciare dalla morte tragica e improvvisa della piccola Serenella, uccisa da un proiettile vagante nel corso di una sparatoria tra mafiosi.
Ricordiamo che i film italiani in concorso sono tre (più quello di Lo Cascio a “La settimana della critica”): “Bella addormentata” di Marco Bellocchio; “È stato il figlio” di Daniele Ciprì; “Un giorno speciale” di Cristina Comencini.
Sempre oggi e in concorso, uno dei favoriti: “The Master” di Paul Thomas Anderson, dato come punta dagli scommettitori inglesi in questa kermesse che non ha il glamour della gestione Muller, ma vive di grande cinema.
Il maestro del titolo è un carismatico intellettuale interpretato da Philip Seymour Hoffman, che dà vita ad un culto religioso e raccoglie attorno a sè diversi adepti, tra cui un giovane vagabondo (Joaquin Phoenix) che diventa il suo braccio destro. Nel cast della pellicola figurano anche due interpreti femminili di grande fascino come Amy Adams e Laura Dern.
Fuori concorso, invece, tre titoli che non potrebbero essere più diversi tra loro: il documentario Witness: Libya, che è stato prodotto dal presidente della giuria di questa edizione, Michael Mann e attraverso il quale seguiamo il viaggio di ritorno di un fotoreporter di guerra in Nordafrica; la commedia francese Cherchez Hortense di Pascal Bonitzer, con Kristin Scott Thomas ; il dittico autobiografico di Amos Gitai formato da Lullaby to My Father e Carmel.
Tra le voci narranti di entrambi i film spicca quella di Jeanne Moreau, mentre tra le voci di Carmel c’è anche quella del nostro Enrico Lo Verso.
La proiezione di questo film sarà preceduta dal corto Clarisse, diretto da Liliana Cavani.
A completare il carnet delle pellicole fuori concorso – e a stravolgerne un po’ lo spessore altrimenti troppo intellettuale- arriva il b-movie australiano Shark, ambientato in un supermercato sommerso dall’acqua a causa di uno tsunami, tra voraci squali bianchi e altri pericoli. Il film, in 3D è un omaggio del giovane regista Kimble Rendall a “Lo squalo” di Steven Spielberg, caposaldo di un genere che con il passare del tempo ha fatto scuola. A differenza di diverse pellicole simili prodotte negli Stati Uniti, Rendall, in questo suo primo lavoro australiano, ha lavorato con un budget importante, concentrandosi, grave alla buona sceneggiatura di Russell Mulcahy e John Kim, sui personaggi per costruire una storia corale di sopravvivenza che parla della natura stessa degli uomini.
Infine, tra i film presentati nella sezione Orizzonti, spicca l’egiziano Winter of Discontent che esplora le dinamiche delle proteste iniziate nel Cairo nel gennaio 2011, attraverso le storie di un attivista, una giornalista e un pubblico ufficiale.
Ieri, poi, il regista austriaco Ulrich Seidl, così come aveva fatto a Cannes con il suo Paradise: ., ha sconvolto il Festival con Paradise: Faith dove, come nel film precedente, si racconta, in modo molto crudo e diretto, di una ricerca di fede fortissima, sincerissima, dolorosissima, per cercare di riempire un vuoto esistenziale totale ed angosciante.
La fede di Anna, la protagonista va oltre la Chiesa, il Papato, la devozione e diventa unico orizzonte possibile e plausibile, ossessiva, totale e totalizzante.
Trascorre il suo tempo liberodurante in giro per i quartieri più poveri di Vienna una statua della Madonna di circa mezzo metro e bussa alle porte delle persone per tentare di convincerle a pregare con lei, a convertirsi, a vivere secondo i comandamenti e la volontà di Dio e della Chiesa (in una lettura assai rigida). Quando ha finito il suo giro, poi, Annna torna a casa,indossa il cilicio e attraversa tutta la casa in ginocchio recitando il rosario; dopo di che, si flagella.
La sua fede, per quanto possa sembrare spaventevole, non è cattiva: solo è molto rigida e timorata, concentrata ossessivamente sui concetti dicolpa e penitenza.
La sua routine morbosa, fatta di preghiera e penitenza, con la sola compagnia del ‘suo’ Gesù, verrà interrotta dall’improvviso ritorno a casa, dopo due anni di assenza, dell’ex marito.
La presenza dell’uomo, inevitabilmente, porrà Anna di fronte alle debolezze della carne e alle difficili richieste del tipo di fede esigentissima che ha scelto per sé. L’esito dello scontro tra le due forze che combattono dentro di lei (la devozione morbosa per Gesù Cristo e l’urlo della sua carnalità repressa) esplodono in un modo che è facile intuire sin dalla prima scena del film che contiene un amplesso blasfemo in cui lei si dà piacere da sola, usando un crocifisso, che ha scandalizzato (io credo a torto) la Mostra.
Ma il Cardinal Martini è morto e con lui si spegne, fra i cristiani, la capacità di comprendere che, in fondo, il dramma di Anna è il dramma esistenziali di tutti, che inseguono, in vario modo, spesso morbosamente, un barlume di felicità.
Ai cinefili, poi, vogliamo ricordare che questa 69° Mostra porta, grazie alle nuove tecnologie, i film fuori dalle sale.
Tutti sanno, infatti, che la distribuzione dei film è ormai al centro di una forte contesa per via dei nuovi formati digitali. La legislazione prevede la possibilità di noleggiare legalmente un film in formato digitale ma, chissà perchè, il catalogo non è ricchissimo e l’Italia è di nuovo il paese nel mondo che rimane al palo di fronte alle novità e agli sviluppi tecnologici. Su questo problema l’Anica, che rappresenta la categoria di distributori cinematografici più grande, riunisce tutti gli operatori del settore in una sala aperta al pubblico e risponde a tutte le domande sul tema.
In definitiva tutti i film in proiezione nella sezione Orizzonti, ben 10 lungometraggi e 13 corti, saranno visibili anche in streaming e in contemporanea con l’evento in sala.
Il biglietto virtuale di può acquistare al costo di soli 4 euro sul sito internet della Biennale di Venezia e i primi 500 acquirenti (fra cui lo scrivente) hanno potuto assistere alla proiezione comodamente da casa. E non mi sembra una cosa da poco.
Nel manifesto (curiosissimo) di quest’anno un omaggio al rinoceronte, animale ormai raro e da sempre particolare, che, per la prima volta, vedemmo, noi europei, il 20 maggio del 1515, quando entrò nel porto di Lisbona su una nave, carica di spezie e merci preziose, proveniente da Goa e dono favoloso da parte di un sultano indiano per il re Manuel del Portogallo. Il re ne fu estasiato e chiamò a esaminarlo artisti e scienziati da tutta Europa. In suo onore, fu organizzato un combattimento con un elefante, il solo che sembrava stargli alla pari, per dimostrare che era il più forte degli animali, l’unico degno della corte di un re. L’elefante, troppo giovane e impaurito, scappò immediatamente, confermando la fama di invincibilità del rinoceronte, subito esaltato come il più potente animale mai visto. Qualche mese dopo, Manuel I decise di farne dono al papa Leone X che sapeva appassionato di animali esotici. Fu organizzato un viaggio per mare e un altro re, Francesco I di Francia, approfittò di una sosta della nave a Marsiglia per andare a vedere quel portento della natura. Prima di arrivare a Roma, all’altezza di Porto Venere, la nave fece naufragio e il rinoceronte sparì tra i flutti. Quando la carcassa riaffiorò, fu impagliata e inviata al pontefice.
Lo stesso anno, Albrecht Dürer, già celebre all’epoca, dedicò al rinoceronte un’incisione su legno (una xilografia) che ottenne un successo enorme.
Nella sua bottega a Norimberga aveva ricevuto, una lettera da Lisbona con uno schizzo e la descrizione dello straordinario animale. Ma, il mitico rinoceronte, accolto come un dono privilegiato dal re Manuel, il rinoceronte guerriero di Dürer, oggi non esistono più e, come è accaduto al cinema, la meraviglia e lo sbigottimento sono diventati spettacolo: l’esotico, l’alieno è stato addomesticato, e il nobile animale, oggetto di uno svagato interesse, è ridotto a un fenomeno da baraccone.
Dalì voleva fare un film sul rinoceronte e ne discusse la basi teoriche e la filosofia alla Sorbona. Ciò che del progetto, anch’esso naufragato, resta è una monumentale scultura, eseguita nel 1956 per Marbella, in cui la corazza dell’animale, tratta da Dürer, sembra quasi evocare un rivestimento di pizzo, una rivincita sulla gravità e sul peso ed insieme su un destino da circo, se non da giardino zoologico o da documentario del “National Geographic”.
Ad Elisabeth Street, oggi China Town, allora Little Italy, a pochi numeri civici da dove è nato Martin Scorsese, oggi vive un monaco e medico taoista che si chiama Jeffrey Yuen e che, del mondo occidentale, ha una sola passione: il cinema. Quando gli ho chiesto il perché mi ha risposto: “è l’unico luogo che mi porta lontano”.
Girando per New York capisci perché il cinema-rinocerionte scomparso con i suoi pizzi sia nato ai Five Point, mentre quello di oggi, concorrenziale solo in apparenza ad Hollywood, lo si prepara a Tribeca.
Chiudo con un’ultima raccomandazione al “mio uomo sul campo” a Venezia: non perdersi per nessun motivo il documentario di Monica Strambini che racconta la passione del grande Bertolucci, tornato dietro al macchina da presa per il film “Io e te”, tratto dal libro di Niccolò Ammanniti, trionfatore a Cannes e che sarà nelle sale il 25 ottobre.
Carlo Di Stanislao
tanti tanti auguri allo splendido film di Luigi Lo Cascio, che venga presto e BENE distribuito nelle sale!!!