“A ciascuno è affidato il compito di vegliare sulla solitudine dell’altro” ha scritto Lia Valeri e questo affidamento, attraverso un gioco di rimandi , è il tema delle 15 magnifiche tele, delicate e potenti, del giovane pittore Vincenzo Bonanni, in mostra a L’Aquila dal 24 agosto al 30 settembre, nella personale “Solitudini/loneliness”, presso Palazzo Valentini in via dell’Arcivescovado.
Lavoro durato anni e terminato nel marzo del 2009, alla vigilia del terremoto. Lavoro di scavo entro un sentimento che domina questi anni, affollati di rumori, ma con solitudini che sembrano non trovare mai sollievo.
Un problema che tocca drammaticamente milioni di persone e che è molto più della banale “assenza di compagnia”.
E, a guardarli i grandi quadri del giovane Bonanni, una risposta scaturisce fra le linee e le tinte, forte, prepotente: il vero problema nell’attuazione delle strategie esistenziali antisolitudine, è l’amore e la consapevolezza che per avere molti oggetti d’amore, per essere avidi di vita, occorre avere una grande capacità d’amare.
La narrazione pittorica appare concepita, secondo le avanguardie, nell’area di un filone romantico, dove la solitudine diviene il marker esistenziale che mette in luce il fallimento del tentativo di realizzare una perfetta fusione fra se stessi e ciò che si ama.
Pier Paolo Pasolini, Alda Merini, Beethoven, Fabrizio De Andre’ sono solo alcuni degli interlocutori con cui Vincenzo Bonanni intrattiene un dialogo infinito, ‘ripresi’ e impressi nelle sue opere, con una sensibilità che sembra emergere, ogni volta diversa, dalle singole opere.
Guardando i quadri in mostra, partiti con La Perdonanza e che saranno visibili ancora questo mese, vengono in mente le atmosfere di Irène Némirovsky ne “Il vino della solitudine “(Adelphi, 2011), con una ricerca inesausta che è feconda creatività, segno ispirato e sublimato di un gran vuoto interiore, un malessere che richiede di essere ascoltato, conosciuto e consciamente colmato attraverso l’espressione, l’arte e la sua rappresentazione grafica e visiva.
“Dagli uomini”, disse il Piccolo Principe, “coltivano cinquemila rose nello stesso giardino… e non trovano quello che cercano” “E tuttavia quello che cercano potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un po’ d’acqua”… “Ma gli occhi sono ciechi. Bisogna cercare col cuore “
Queste parole del Piccolo Principe, che traducono le immagini della solitudine in forma scritta, potrebbero fornire l’incipit di questa mostra, dove il tema è trattato quasi etimologicamente, con rimandi alla parola “separare”, composta da “se” e “parare”; la prima che indica “divisone”, la seconda “parto”.
Sicché, ogni singola opera, con vigore creativo e ricerca ponderosa, rimanda alla separazione del nascituro dalla madre, con la conseguente perdita di uno stato particolare di grazie e rammenta a ciascuno o la perdita che ha vissuto, in quanto ne rappresenta l’evento avvenuto.
Ma vi è un messaggio etico e positivo nell’opera di Vincenzo Bonanni ed è questo il dato più importante “in mostra”.
La solitudine, nonostante offra all’uomo innumerevoli opportunità per maturare e divenire un soggetto autonomo, è spesso ricettacolo di valenze negative.
È una condizione spiacevole, a volte spaventevole, che spesso diventa un nemico da fuggire a qualsiasi costo.
Tutto ciò visto come il risultato di un vivere caotico aggravato anche dall’eredità biblica, conseguenza delle azioni peccaminose compiute dall’individuo: perfino Adamo ed Eva perdono il paradiso celeste e sono condannati ad una vita di sofferenze e di dolore. Il dolore della perdita, della separazione.
La solitudine, dunque, esiste prima dell’uomo. L’ovulo, al momento della fecondazione, è solo. Assunto il patrimonio genetico del partner, le reazioni fisico-chimiche dell’organismo separano l’ovulo dagli altri spermatozoi e lo isolano definitivamente dalla popolazione cellulare materna. È un organismo estraneo che conserva l’eco della madre e del padre. La fecondazione stessa è fautrice di separazione. A partire dalla quattordicesima settimana, l’embrione, che si chiamerà feto, è sperduto nell’oceano del ventre materno, è solo.
In futuro, la nascita, la crescita, l’adultità rievocano la solitudine originaria.
E Bonanno descrive tutto questo, in modo forte e diretto, con infinite sfumature e modi originali, per dirci infine, che la solitudine può renderci anche forti e autonomi e, nelle sue infinite sfumature, può anche essere voluta e cercata, come nel caso dell’asceta o del creativo, o di chi, nella quotidianità, sente il bisogno di ricercare un momento suo, per recuperare le energie disperse nel mondo, per ritrovare quella parte soffocata dall’affanno della vita, quando, invece, non è altro che una fuga dalle situazioni che non riesce a gestire.
Solitudini diverse da quelle imposte dalla società, con i mezzi di comunicazione, i mass-media, gli slogan pubblicitari che invitano ad isolarsi, a distinguersi esprimendo modi di vita “unici” che accentuando l’individualismo. In realtà la meta proposta è solo illusoria, dato che è raggiungibile solo con comportamenti ed oggetti uguali per tutti.
Questi messaggi, per loro natura contraddittori, alimentano la fuga e la ricerca di un rifugio che, visto come un luogo d’opposizione all’esterno, limita la crescita e lo sviluppo dell’autonomia individuale.
Dostoevskij, trovando in sé risorse spirituali che gli permisero di sopportare la prigionia, scrisse memorabili opere. Beethoven, la cui sordità l’ha portato ad isolarsi dal mondo, ha potuto sviluppare una grande sensibilità interiore, le sue opere più belle hanno visto la luce nel silenzio.
Bonanni, in una solitudine compresa e vissuta, ci dice che la creatività, è il mezzo si per esprimere le proprie attitudini e ,nei casi più alti (come il suo), il modo con cui “dal fango è potuto nascere un fiore di loto”.
Carlo Di Stanislao
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