Lo scorso 30 agosto, visibilmente emozionato, Michael Cimino, definito dal direttore Alberto Barbera “il più grande regista americano e mondiale”, ha ricevuto a Venezia, in occasione della 69° Mostra Internazionale del Cinema, il premio Persol ed assistito alla prima mondiale del “restaurato” e digitalizzato “I cancelli del cielo”, un film sulla epopea western, realizzato subito dopo i 5 Oscar de “Il cacciatore” e disastroso flop di critica e di pubblico, considerato il suo più grande insuccesso, che lo portò ad avere tante porte chiuse ad Hollywood.
Jeans, giacca di tweed, camicia in tinta e tradizionali occhiali da sole, a proposito delle traversie affrontate dal suo Heaven’s gate (titolo originale del film che quasi fece fallire De Laurentis), ha detto: ”Essere tristemente famoso non e’ divertente, diventa un’occupazione strana”.
La pellicola restaurata ha aperto la sezione Venezia Classici, da lui presenziata e, va detto, che il lavoro su un prodotto lungo e complesso con 32 anni sul groppone, è stato davvero straordinario, ma fare invidia a chi, come lo scrivente, pure di restauro indirettamente si occupa (presiedendo l’Istituto Cinematografico Lanterna Magica de L’Aquila).
Un film che è sembrato uscito oggi, con un autore, lui, Cimino, che con l’aria di un ragazzino ancora pieno di sorprese e di stupore, lo guardava meravigliato.
Ed in molti abbiamo pensato ad un accostamento: quello con un altro grande del cinema di questi anni, Clint Eastwood, anche lui conservatore, ma con straordinarie idee progressiste. E ancora abbiamo inserito nella “relazione” un terzo elemento, Michey Rourke, vero alter ego di Cimino in altri due capolavori incompresi: “L’anno del dragone” (1985) e “Ore disperate” (1990).
Ma, cosa hanno in comune l’ottantaduenne Clint Eastwood – occhi e rughe che dicono di una vita, Leone d’oro alla carriera alla 57ª Mostra del Cinema di Venezia del 2000 – e l’ormai sessantenne Mickey Rourke – corpo disfatto e oversize da pugile in (forzata) pensione, il cui The Wrestler (2008, Darren Aronofsky) è stato Leone d’oro quattro anni fa?
Forse più che di qualcosa, conviene parlare di qualcuno: Michael Cimino, appunto. Se infatti fu Clint – oltre a comparire come attore nella sua folgorante opera di esordio, Una calibro 20 per lo specialista (Thunderbolt and Lightfoot, 1974) – a volere nella sua casa di produzione fondata nel 1968, la Malpaso, il futuro regista e produttore in qualità di co-sceneggiatore insieme a John Milius di Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan (Magnum Force, 1973, Ted Post), secondo film del ciclo dedicato al celebre sbirro impersonato da Eastwood, è altrettanto vero che fu Cimino a fare esordire il bel Mickey nel più celebre flop produttivo – insieme a Un sogno lungo un giorno (One from the Heart, 1982) di Francis Ford Coppola – della storia recente di Hollywood, I cancelli del cielo (Heaven’s Gate, 1980). In seguito l’attore sarebbe stato per lui ancora protagonista ne L’anno del dragone (Year of the Dragon, 1985) e in Ore disperate (Desperate Hours, 1990), rifacimento aggiornato dell’omonima opera del 1955 di William Wyler con Humphrey Bogart.
Cimino, uno dei cineasti statunitensi più amati e più importanti della sua generazione (la cosiddetta “New Hollywood” degli anni Settanta, durante la quale la “politica degli autori” prevalse, anche se per poco, sulla “politica degli studios”), con alle spalle studi di architettura e di arte drammatica, accostatosi al cinema attraverso la realizzazione di documentari, un nome la cui aura pare racchiudere in sé tutta la potenza ed insieme l’“inconsistenza” del mezzo cinematografico, per molti autore di opere “epiche” ma con i piedi di argilla, una carriera racchiusa in poco più di vent’anni e dipanata finora (nel cassetto c’è ormai da tempo il leggendario adattamento de La condizione umana dell’amato André Malraux) all’insegna dei “cacciatori” di senso attraverso la bellezza.
Una bellezza espressa in un lungo monologo di uno dei due protagonisti di “Verso il sole”, il suo ultimo film, “Verso il sole” (1996), presentato in concorso alla 49ª edizione del Festival di Cannes e che recita: “Possa la bellezza essere davanti a me, possa la bellezza essere dietro di me, possa la bellezza essere sopra di me, possa la bellezza essere sotto di me, possa la bellezza essere intorno a me”.
Cimino è stato considerato a lungo un fascista e Nanni Moretti, nel 1981, lo battezza Gigio Cimino” e lo presenta come regista modaiolo e destrorso che si oppone al protagonista del suo “Sogni d’oro”.
In realtà Cimino, come Eastwood, ha un pensiero complesso ed un carico di contenuti difficili da circoscrivere in battute.
In una splendida monografia sul Cinema di Micromega dello scorso anno, ha detto che il cinema non è tecnica, che si impara in poche ore, ma idea, letteratura e contenuti.
Ore disperate” (1990) e “Verso il sole” (1996), faticosamente portati a termine con finanziamenti indipendenti, sono passati totalmente inosservati, ma restano due momenti storici nella storia del cinema recente.
Dopo questo Cimino si è dedicato alla scrittura, pubblicando tre romanzi (il più bello è per me “Big Jane”) e rimanendo totalmente inattivo nel campo cinematografico.
Di recente, trovati nuovi finanziamenti, il regista newyorkese si è caparbiamente imbarcato di nuovo nella lavorazione di un lungometraggio: “Man’s fate” (“Il destino dell’uomo”), che dovrebbe rappresentare la sua rivincita sul mondo del cinema e dovrebbe essere pronto entro un anno.
Siamo certi che vederlo ci cambierà e cambierà qualcosa, nella nostra idea della vita e del bello e ci rammenteremo delle parole di Oliver Stone, che ha lavorato con lui alla sceneggiatura de “L’anno del dragone”: “Lui non dorme mai. È una personalità ossessiva. È il più faraonico dei registi con i quali ho mai lavorato. (…) Il suo sguardo è fisso sul futuro, sulla storia. Non dà importanza alle sottigliezze”.
Dicevamo del suo “Big Jane”, pubblicato nel 2001 da un editore francese e in Italia dalla Fandango Libri nel 2002, dove si esaltano i considerevoli riferimenti culturali dell’autore e ne confermano le doti di narratore abile, soprattutto nel trascinarci in un vortice di emozioni e di immagini.
A prima vista si direbbe che “Big Jane” possa trasformasi sullo schermo in un altro formidabile affresco; è il portato tra l’altro di uno stile asciutto, realistico, e dell’importanza di un dialogo che ci rivela l’anima dei vari personaggi.
Poi ti accorgi che un altro contributo, con altri mezzi, di un vero “cacciatore” di bellezza come salvazione del mondo.
Nata e cresciuta nella periferia, alle dipendenze di un padre disilluso, Jane Kiernan, una bella ragazzona bionda (e pertanto detta “Big Jane”) allo scoccare della maggiore età pianta il suo mondo per via d’una insondabile voglia di libertà. Voglia di libertà e fama che animano l’amico Billy, aspirante cantante, col quale fugge a bordo di una gloriosa Indian, un vero e proprio destriero meccanico fatto per solcare pianure ora gelide, ora aride; nei luoghi in cui si ergono le luminose cattedrali dell’Ovest (le immense highways, Hollywood).
Qualcosa di questo mondo di Cimino fa venire alla mente La rabbia giovane (Badlands, 1973), il film capolavoro di Terrence Malick; ma qui la giovane coppia va a sbattere contro l’invisibile muro che fa della vita una lotta crudele, che genera consapevolezza. I versi delle ballate di Billy di cui il testo è disseminato cantano l’amore per la vita, ma anche la drammaticità del vivere.
Perso il suo compagno Jane ha la forza di ereditarne il sogno; ma questo subito si tramuta nella rabbia disperata che la spinge in Corea, arruolata volontaria in un battaglione femminile.
Pur abbandonando di tanto in tanto la scrittura al vortice dei sentimenti e alla loro facilità, il libro di Cimino conserva un po’ di quella visionarietà che ne ha caratterizzato la miglior parte della filmografia. Pagine che appaiono il nobile gesto di uno di quegli uomini duri ma di buon cuore che s’innamorano di Jane, soprattutto quando questa diviene lo scempiato idolo della vitalità giovanile che ha corso alle radici di un’idea di vita.
Sì, soprattutto questo: il tributo alla forza di questa figura di donna immaginaria, eppure così vera, personificazione del “sogno americano”, disfatto, ma degno di rispetto.
Insomma, dotato di un proprio “umanesimo” autenticamente distante da schemi precostituiti, pur accogliendo la lezione dei grandi autori nordamericani, Cimino si è confrontato con la guerra (Il cacciatore, 1979), con il tema storico dell’integrazione e del rapporto dell’individuo con una società repressiva (I cancelli del cielo, 1980; Verso il sole, 1996); con le immagini e con la parola ed è sempre risultato particolare e grande.
Di lui la mia buona amica Giulia Boschi, che lavorò ne “Il siciliano”, mi ha detto che con lui, nel cinema, si respirava un’aria nuova, una ventata di novità, fatta di autorialità e indipendenza, basata su due fattori determinanti: il modello europeo e la volontà, spesso il coraggio di affrontare la scottante attualità americana e non solo.
Ieri sera, parlando con un grande giovane pittore aquilano, Vincenzo Bonanni, anche lui insofferente alle regole dello show business e con uno straordinario vigore espressivo, mi si chiedeva come mai nessuno ha pensato di portare Erzra Pound sullo schermo ed io rispondevo perché è impresa ciclopica e disarmante, che nessuno si sente di affrontare.
Mentre scrivo queste righe rettifico: Cimino potrebbe davvero farlo, sapendo descrivere davvero e senza preconcetti, la complessa figura di un vero letterato ed un autentico poeta, che di Mussolini diceva che avrebbe voluto educarlo e che era stato distrutto per non aver seguito i dettami di Confucio, un Omero moderno, messo in una gabbia, poi recuperato in modo maldestro e malinteso, elevato a oggetto di un culto a sfondo quasi mistico-esoterico, inserito tra gli antenati ideali, rievocando a mo’ di slogan alcune sue frasi “più o meno fiammeggianti pescate qua e là senza logica”, come ha disse la figlia Mary de Rachewiltz, il 1° Aprile 2010 al Corriere.
In quella stessa intervista ella chiudeva raccontando: “Nei suoi ultimi dieci anni di vita —non parlò più con nessuno, e con noi familiari appena il necessario. Ora, siccome per la legge americana chi sta muto si dichiara innocente, quel silenzio poteva essere interpretato come una dichiarazione d’innocenza. Ma pentirsi di errori di giudizio non significa rinnegare. La realtà era più complessa: mio padre si era reso conto che non riusciva a farsi capire. “Il silenzio è la voce di Dio”, mi disse il prete di San Giorgio dopo aver celebrato il suo funerale. Evidentemente, se continuano a fraintenderlo, quella sua lunga pausa non è bastato”.
Forse Cimino potrebbe riuscire, con un suo racconto, a colmarla quella pausa, rienpendola di chiarimenti e di significati.
Carlo Di Stanislao
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