Pubblicato oggi sulla pagine umbre dello stesso quotidiano, un sondaggio de La Nazione, su come i perugini vedono la loro città, gioiello di arte e cultura, lentamente scivolato, in dieci anni, lungo il crinale del degrado e della violenza.
Per quanto concerne le cause, l’80% dei residenti punta il dito contro lo spaccio di droga e il mercato della prostituzione, piaghe che “vanno combattute con forza, perchè così non si vive più”, si legge nelle risposte.
Il 30 agosto mi ha colpito la notizia della morte inspiegabile di uno studente originario di Chieti, trovato nell’auto del padre, in via XX settembre, con l’acropoli sullo sfondo, non lontano da uno dei parchi, la Verbanella, dove i tossici fanno affari e i disperati organizzano vita e morte attorno ad un buco.
Ma nell’auto, né una bustina, nè una siringa, solo la stranezza che il giovane serrava fra i denti un accendino e che, in passato, aveva avuto problemi di droga e di recenti altri, psicologici, tanto che, per maggiore tranquillità abitava in un centro non lontano da Assisi e non più a Perugia.
Tra le altre cause del degrado perugino— secondo il sondaggio —, c’è la troppa apertura agli stranieri, con tantissime persone che hanno tirato in ballo “la guerriglia urbana” andata in scena in primavera in pieno centro storico, quando alcuni extracomunitari assaltarono anche le forze dell’ordine seminando il panico tra la gente. Altri, invece, non dimenticano le rapine in villa finite nel sangue a Ramazzano e Cenerente.
“Episodi del genere — si legge su un commento — non devono più succedere. Non ci sentiamo sicuri neanche a casa nostra”.
Come ai miei tempi (quaranta anni fa ho studiato a Perugia, respirandone grazia e cultura), i punti di riferimento restano Corso Vannucci e piazza IV Novembre, seguita dalla Città della Domenica e dal Percorso verde a Pian di Massiano; mentre tra le mete culturali le più frequentate sono la Fontana Maggiore, il Duomo e l’Arco Etrusco. Il punto di ritrovo resta il proprio quartiere: è lì che soprattutto i più giovani si danno appuntamento. Ma nessun quartiere è più visto come tranquillo e sicuro.
Tra gli svaghi, come ai miei tempi, prevalgono teatro (il magnifico Morlacchi, con vellutti e stucchi che compongono un canto alla bellezza) ed il cinema (ai miei tempi sei sale meravigliose, oggi solo una ed una multisala).
Inoltre, sempre i perugini, vedono la città priva di spinte, ferma nella imprenditoria e senza nessun vero rinnovamento.
Ora io so (anche per che di quelle parti è mia madre), che il perugino è individuo dalla apparenza fredda e riservata, che non ama né chiedere né tanto meno accogliere, ma che sa gustare il valore del bello e notare, valorizzandola, la differenza.
In quella città è stata voluta la prima università per stranieri in Italia e li si sono fatti i primi corsi, tenuti da Gial Luigi Rondi, di cinema, sdoganato da infimo spettacolo popolare ad accademia.
Mi chiedo allora cosa sia successo a Perugia ed in solo pochi lustri, da città tranquilla, riservata, elegante a luogo simile, per pericolosità El Paso, terreno ideale per il commercio di droga, attraversata da omicidi irrisolti e stranio fatti di “nera”.
Un amico rimasto in quei luoghi mi dice, affranto, che, dopo le 22:30 il centro inizia a svuotarsi perché non ci sono locali notturni o discoteche, quindi ad una certa ora, quando la gente esce dai ristoranti e affronta il dopocena, il centro è praticamente deserto.
Nei vicoli si incontrano strani individui e bruti ceffi e, ad ogni istante, ti senti minacciato. In periferia, soprattutto verso la stazione, la situazione è allarmante anche di giorno.
Nel mondo ci sono città dove si vive con relativa tranquillità, altre dove si gira con circospezione e altre ancora dove si muore con facilità, non per cause naturali. Quella messicana di Ciudad Juarez, posta al confine con gli Stati Uniti, è, secondo il rapporto della Citizen’s Council for Public Security, la più pericolosa al mondo.
Ora, a sentire il mio amico e soprattutto a leggere i risultati de La Nazione, Perugia è divenuta di fatto la più pericolosa d’Italia.
Ai miei tempi Perugia era una città moderna e cosmopolita, conosciuta in tutto il mondo per le sue manifestazioni culturali e la sua Università per Stranieri; orgogliosa della sua tradizione storica e delle bellissime vestigia del passato, che si lasciava ammirare nei suoi mille angoli in cui passato e presente si integrano e creano un’atmosfera indimenticabile.
Ed una città viva, con mille iniziative culturali, arruotate attorno a “L’Umbria Jazz”, che non può aver subito un totale sconvolgimento.
Nel 1531, in pieno degrado, Perugia, vincendo la “Guerra del Sale”, si scrollò dalla barbarie e risorse splendida, attorno alla Rocca Poaolina.
Ora urge un’altra guerra, fatta non di violenza ma di comprensione ed accoglienza, in cui il diverso non sia un nemico, ma una occasione da accogliere ed inglobare.
La città del Perugino e di Giovanni Antonio Campagno, di Niccolò Rainandi, Mattiolo Mattioli e Lucalberto Podiani, non è possibile sia svanita ogni forma di umanesimo.
Vorrei raccomandare ai perugini in cerca di una nuova realtà e di un futuro degno del loro grande passato, anche recente, di leggere con attenzione ‘Costruire il nemico e altri scritti occasionali’, di Umberto Eco (editore Bompiani) e ne trascrivo un brano: “Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’ affrontarlo, il valore nostro. Pertanto quando il nemico non ci sia, occorre costruirlo (…). Sin dall’ inizio vengono costruiti come nemici non tanto i diversi che ci minacciano direttamente (come sarebbe il caso dei barbari), bensì coloro che qualcuno ha interesse a rappresentare come minacciosi anche se non ci minacciano direttamente, così che non tanto la loro minacciosità ne faccia risaltare la diversità, ma la loro diversità diventi segno di minacciosità. Si veda quanto Tacito dice degli ebrei: profano è per loro tutto quello che è sacro per noi e quanto è per noi impuro per loro è lecito» (e viene in mente il ripudio anglosassone per i mangiatori di rane francesi o quello tedesco per gli italiani che abusano d’ aglio). Gli ebrei sono “strani” perché si astengono dalla carne di maiale, non mettono lievito nel pane, oziano il settimo giorno, si sposano solo tra loro, si circoncidono (si badi) non perché sia una norma igienica o religiosa, ma «per marcare la loro diversità», seppelliscono i morti e non venerano i nostri Cesari”.
Non mi è mai piaciuta la militarizzazione né la repressione e non mi è nemmeno mai piaciuto il finto buonismo che riecheggia nell’aria da ormai troppo tempo.
La società del “volemose bene” non solo è fallita da un pezzo ma ha anche distrutto quel poco di identità che era rimasta nelle rovine della modernità.
La situazione a Perugia, come in altre un tempo magnifiche città, è sotto gli occhi di tutti, erugia, una volta conosciuta esclusivamente per le bellezze della sua storia ed architettura e per l’università, è ormai ricordata per l’uccisione della studentessa inglese Meredith Kercher e per il guinness dello spaccio di sostanze stupefacenti. Di certo, questo cambiamento, non è avvenuto dall’oggi al domani. Ma è anche (troppo) facile indicare i colpevoli solo ed esclusivamente nei diversi, negli stranieri e nei diseredati.
E fa alquanto sorridere il sindaco Boccali (Pd) quando ci ricorda che se c’è la droga è perché c’è richiesta. Questo è ovvio, ma non è una giustificazione tollerabile.
Va verità è che i perugini devo cominciare ad uscire, come era un tempo, recuperando la loro città, a non rinchiudersi dentro i centri commerciali o, ancora peggio, dentro le vite non reali di facebook. E le istituzioni, debbono cominciare a creare una prospettiva di futuro attraverso spazi sociali e culturali, manifestazioni di ampio livello e soprattutto alla portata di tutti. (Ma sto parlando di Perugia o de L’Aquila?)
E, soprattutto, riflettano, stavolta a Perugia, che un controllo alla “1984” di George Orwell, non serve a nessuno, se non a chi, con la scusa di controllare chi delinque, controlla e manipola la vita di tutti.
Carlo Di Stanislao
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