Kasia Smutniak, bellissima ed austera, senza un gioiello, come nella cerimonia di apertura, con abito lungo nero (invece che rosso), ha reso simpatica e professionale una cerimonia piena di imprevisti (con uno scambio fra premi ed una caduta del Leone d’Oro, senza precedenti), chiusa dal presidente della Biennale con evidente soddisfazione, per l’attenzione, la frequenza, la qualità riscontrata, mentre il direttore artistico ha deciso di imitare il suo collega di Cannes e non ha preso la parola; sicché, in una edizione molto austera, a far chiacchierare, alla fine, è stato solo il look delle donne sfilate sul red carpet, con Valeria Marina, con nude look bianco, che batte (quanto ad epidermide scoperta), proprio tutte, mentre i consensi maggiori li ottiene Naomi Watts, al Lido in qualità di moglie di Liev Schreiber, protagonista di The Reluctant Fundamentalist di Mira Nair, film di apertura della kermesse che può dirsi davvero riuscita.
Spiace che siano state dimenticate le donne (anche se erano 21 le registe in concorso, un terzo del totale) ed il cinema francese (“La cinqueme saison” meritava) e che al film di Bellocchio sia andato (a metà con la interpretazione in quello di Ciprì) solo il premio (Mastroianni) per l’emergente Fabrizio Falco; ma nulla da eccepire sul Leone D’Oro a Kim Kim Duk, che quello d’Argento per la regia lo aveva vinto nel 2004 per “Ferro 3” e che ha realizzato un gran film (“Pietà”), sublime e crudele al tempo stesso ed ha incantato il pubblico (in sala e fuori), intonando un canto tradizionale e salutando, con gli occhi di un bimbo, con il pugno chiuso tutta la sua Nazione.
Ineccepibile anche il Leone D’Argento alla regia a Paul Thomas Anderson per “The Master”, con i due protagonisti maschili, Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman, a dividersi la Coppa Volpi.
Sorpresa invece (e non del tutto giustificata, secondo molti), il premio a Hadas Yaron, protagonista di “Fill the Void”, sulla comunità di ebrei ortodossi di Tel Aviv, diretto da Rama Bursthein, certamente bello ma che non ha convinto completamente.
Molto sorprende anche il “Premio Speciale” che la giuria, presieduta da Michael Mann e composta da Marina Abramovic, Laetitia Casta, Peter Ho-Sun Chan, Ari Folman, Matteo Garrone, Ursula Meier, Samantha Morton e Pablo Traper, ha assegnato al film-scandalo “Paradise: Feith”, dell’austriaco Ulrich Seidl.
L’Italia si riscatta (solo in piccola parte) con Ciprì, che si aggiudica il Premio al miglior contributo tecnico per la fotografia di “E’ stato il figlio”, il suo primo film diretto senza Franco Maresco; mentre la Francia non torna proprio a mani vuote, grazie a l’Osella per la migliore sceneggiatura, assegnato a Olivier Assayas per “Après mai”.
Il Leone del Futuro – Premio Venezia opera prima “Luigi De Laurentiis” è di “Kuf” del turco Ali Aydin (ma poteva benissimo vincerlo “La città ideale” di Lo Cascio), che si aggiudica in questo modo i 100.000 dollari messi a disposizione dalla Filmauro di Aurelio e Luigi De Laurentiis, equamente divisi tra regista e produttore.
Per quanto riguarda la sezione Orizzonti, il Premio per il miglior film va a “San zimei” del cinese Wang Bing (già a Venezia nel 2011 con “The Ditch”), mentre il Premio Speciale della Giuria, presieduta da Favino, viene assegnato a “Tango libre” di Frédéric Fonteyne.
Premio Orizzonti YouTube per il miglior cortometraggio a Cho-de di Yoo Min-young e, infine, l’Efa 2012 va a “Titloi telous”, di Yorgos Zois.
C’è chi dice che il cinema italiano meritava di più, a partire da Bellocchio, chi nota che, comunque, premi ne ha ricevuti e non solo con Ciprì, ma anche ad esempio, “Intervallo” di Leonardo di Costanzo, che ha ricevuto ben sette premi collaterali, tra cui il Fipresci (Federazione Internazionale Critici Internazionali).
Comunque, per vincitori e vinti, c’è ora la prova principale: quella del box-office e per noi solo l’amarezza (dopo la gioia di un festival molto ben condotto e accurato), che il cinema italiano, che era in concorso con tre prodotti, sia stato del tutto (o quasi) snobbato.
Si dice che questo accade perché trattiamo temi troppo provinciali, ma questo non vale, ad esempio, per il film di Bellocchio.
Qualche giornale titola il suo commento “la Corea degli italiani” e ci racconta che Matteo Garrone è molto arrabbiato con gli altri membri della giuria.
Molti illustri critici c’è l’hanno con Michael Mann e se la prendono anche, più in generale, con certo modo americano di guadare al cinema; criticando The Hollywood Reporter, una delle testate più importanti del Nord America e tra quelle specializzate nel cinema, faro in tutto il mondo, che con la scritta “Esclusiva” svela, o meglio lascia intuire, in un articolo piuttosto farraginoso e fin troppo sintetico, che in giuria si volevano addirittura dare tre premi a The Master (leone d’oro, regia e attori: o comunque due, ma con il primo premio tra essi) e che una “fronda” legata alle regole del Festival lo avrebbe impedito, portando alla scelta di compromesso di Pietà di Kim Ki-Duk.
Intendiamoci questo accade molto spesso. Ad esempio a Cannes, nel 2005, i Dardenne vinsero con L’enfant che, per stessa ammissione del presidente di allora, Emir Kusturica, era il frutto di un compromesso al ribasso per la spaccatura tra i giurati su chi premiare. “Non ha vinto il migliore” dichiarò.
I motivi sono molti, tra cui sicuramente la pressione esagerata sui giurati italiani a Venezia: basta ricordare il linciaggio operato su Mario Monicelli – e Stefano Accorsi – quando Buongiorno, notte non entrò nel palmares in favore del russo Il ritorno. In quel caso il verdetto era giusto, ma ciò non tolse che i due, e soprattutto il regista viareggino, subirono attacchi feroci.
L’articolo dell’Hollywood Reporter di Matthew Belloni ha come base quel regolamento che impedirebbe più premi per un titolo, regola bizantina e incomprensibile che complica da sempre le discussioni di questi consessi cinematografici. Successe nel 2008 che l’acclamato Mickey Rourke non avesse preso la Coppa Volpi- in favore di Silvio Orlando – perché era stato assegnato il Leone d’oro al film di cui era protagonista, The Wrestler e diverte, poi, che il ben più imbarazzante Tarantino che premia l’ex compagna Sofia Coppola per Somewhere due anni fa, sempre al Lido, non abbia suscitato altrettanta indignazione oltreoceano. La tensione di questo Venezia69, nella segreta stanza di chi giudicava, comunque, si è avvertita. Anche nelle facce dei nove sul palco. Tese, se si esclude la sorridente e solare Laetitia Casta. E lo stesso Mann si è tenuto a una (auto)disciplina molto forte, persino nelle dichiarazioni finali (mentre nella Cannes citata, invece, i giurati sciolsero la lingua a giochi fatti).
Tutto questo, comunque, è solo dietrologia e adesso non ha più importanza, come pure poco convincenti sono gli argomenti di chi accusa Venezia del fatto che Cannes invece premia i suoi francesi e fa notare che ne seleziona sempre forse uno o due di troppo (ma anche noi quest’anno siamo stati generosi: meritava il concorso solo Bellocchio), poi i riconoscimenti non sono altrettanto di parte, anzi.
In verità, a ben vedere, anche a Cannes accade qualcosa di simile e spesso anche e se si esclude il Cantet de La Classe, che sconfisse film fenomenali, forse proprio per un altro compromesso al ribasso; ancora grida vendetta, il magnifico Il profeta di Jacques Audiard,rimase, ad esempio, a bocca asciutta in Costa Azzurra.
Tornando alle mie particolari predilezioni, avrei trovato il modo di premiare donne e froncofonia, con premi (magari tecnici) a Jessica Woodworth ed al suo “La cinquième saison”, realizzato in collaborazione con il regista conterraneo Peter Brosens, con cui condivide la passione per l’etnografia; terzo di una trilogia iniziata con Khadak ambientato tra le steppe della Mongolia dove un gregge viene colpito dalla peste, e continuata con Altiplano, girato nelle Ande peruviane, in preda all’avvelenamento da mercurio.
Oppure avrei scelto di premiare (per mostrare propensione e apertura verso il nuovo) “Forgotten”, della regista tedesca, esordiente nel lungometraggio, Alex Schmidt, horror davvero inconsueto, dal ritmo serrato e dagli sviluppi imprevisti.
E anche avrei tenuto presente Valeria Sarmiento, cilena di nascita ma francese di adozione, che ha voluto un cast stellare per il suo “Les Lignes de Wellington”, ambientato al tempo di Napoleone, durante l’invasione francese del Portogallo e in cui figurano Catherine Deneuve, Chiara Mastroianni, Michel Piccoli, John Malkovich, Marisa Paredes, Christian Vadim, Vincent Lindon e circa 5.000 figuranti.
Ma io, appunto, non ero in giuria e mentre Venezia chiude, non posso fare altro che attendere di dire la mia (a tempo debito) su Roma di Muller, a confronto con quella del duo silurato: Rondi-Detassis.
Spero che, a Roma, siano inserite opere italiane giovani sui cui, forse, a Venezia non sé potuto riflettere troppo e, comunque, inviterò, alla prima occasione, come Istituto Lanterna Magica a L’Aquila, Francesco Mereu con il suo ironico “Bellas Mariposas” e anche Stefano Mordini col suo “Acciaiao”, dal romanzo-rivelazione della’esordiente Silvia Avallone, Premio Campiello opera prima e finalista al Premio Strega nel 2010; storia tesa ed intelligente di una amicizia forte quanto l’amore, fra adolescenti, con sullo sfondo, arresi e crudeli, i genitori, modelli a cui i figli giurano, nel bene e nel male, di non assomigliare mai, con il contorno drammatico della violenza continua dell’acciaio, che qualsiasi cosa accada, non si può fermare mai.
Ed un’ultima caso, infine, questa davvero e volutamente polemica. Il fatto che una astice brava e sensibile (proprio per questo eternamente crocefissa), come i Francesca Comencini, abbia affidato ad attori alle prime armi “Un Giorno Speciale”, dovrebbe far riflettere chi continua a studiare, evidentemente con scarsi risultati, recitazione, perché ai registi serve spontaneità e credibilità e sono veramente pochi gli attori under 30 capaci di annullare l’impostazione, la dizione e tutto ciò che hanno imparato all’accademia o al centro sperimentale.
E’ evidente quindi, che almeno da questo punto di vista, il nostro cinema ha bisogno più di dimenticare che di imparare.
Prima di chiudere va detto (forse ad alcuni è sfuggito) che la Corea del Sud oltre a vincere quello d’Oro, ha vinto anche il Queer Lion Award, con The Weight di Jeon Kyu-Hwan, che narra la storia di Jung, uomo gobbo e malato di tubercolosi e artrite, che lavora in un obitorio. Sin dall’adolescenza intrattiene un rapporto molto stretto con il suo fratellastro transgender, che è in attesa dell’operazione di riassegnazione del sesso. Il forte legame tra loro due è capace anche di superare i confini della morte e mette in evidenza sia la rigidità della società contemporanea che la prigionia fisica del corpo. Il tutto viene raccontato con straordinario lirismo, meritevole del Premio.
Carlo Di Stanislao
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