Nel 2009, Federica Batini curò l’edizione di un eccellente volume (edito da Transeuropa), intitolato “Insegnanti e nuovi problemi della scuola. Bullismo, disagio e dispersione, omofobia e bullismo”, in cui si diceva che la scuola odierna si trova in una crisi forse senza precedenti: crisi di significatività, di fiducia, di efficacia e che, in questo panorama, sconcerta l’assenza di investimenti ed interventi tesi a promuoverla, migliorarla, adeguarla alla contemporaneità. E, in tre anni, le cose sono ancora peggiorate.
Una professoressa siciliana, che per punire il bullismo di un alunno nei confronti di un compagno timido e ben educato, aveva costretto il primo a scrivere 100 volte “sono un deficiente” alla lavagna, chiamata a rispondere del suo operato, ritenuto lesivo, dai genitori dello stesso, ha vinto in 1° grado, ma perso sia in appello che in cassazione, con una pena finale di 15 giorni di reclusione per aver “mortificato nella dignità” il giovane violento ed aver abusato del suo ruolo.
“Non può ritenersi lecito l’uso della violenza, fisica o psichica, distortamente finalizzata a scopi ritenuti educativi”, ha affermato nella sentenza pubblicata oggi l’alta Corte, “e ciò sia per il primato attribuito alla dignità della persona del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti”.
E sia perché – prosegue il verdetto scritto dal consigliere Francesco Ippolito – “non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, tolleranza, convivenza e solidarietà, utilizzando mezzi violenti e costrittivi che tali fini contraddicono”.
E Massimo Gramellini, dalla sua rubrica giornaliera su La Stampa, dice che, pur non essendo certo dalla parte del bullo, e pur non condividendone i toni, si sente dalla parte della sentenza perché, il metodo correttivo della insegnante, ricondurrebbe “alla stucchevole legge dell’occhio per occhio, celebrata in migliaia di film e chiacchiere da bar, secondo cui l’unico modo per riequilibrare un’ingiustizia consisterebbe nel compierne un’altra”.
E continua, sagace, che “le umiliazioni, lungi dal guarire i balordi dalla loro balordaggine, finiscono per acuirne quel sordo rancore verso il mondo che è alla base dei comportamenti asociali, ammantandolo oltretutto di vittimismo”. Concludendo che la cosa migliore da fare è ordinare al bullo una visita ad un ospedale infantile, oppure mezza giornata di lavoro manuale, come se fosse nella possibilità della scuola e degli insegnanti, deprivati di tutto, comminare tale pena.
Ora sappiamo che la specificità di un intervento preventivo è utile se rivolto a tutti gli alunni e non direttamente ai “bulli” e alle loro vittime, perché, al fine di un cambiamento stabile e duraturo, risulta maggiormente efficace agire sulla comunità degli spettatori.
Ma sappiamo anche, nella vicenda, che la professoressa aveva spiegato e per bene in classe, il perché della sua decisione e perché si debba essere fermamente contrari a manifestazioni di questo tipo.
Inoltre è importante sottolineare, come indicato in letteratura, che sebbene sia inefficace l’intervento psicologico individuale sul “bullo”, che, di solito, non è motivato al cambiamento in quanto le sue azioni non sono percepite da lui come un problema, la prevenzione deve interessare gli alunni, gli insegnanti e i genitori, questi in primo luogo, perché si facciano carico della attivazione di una programmazione contro le prepotenze e promuovendo interventi tesi a costruire una cultura del rispetto e della solidarietà tra gli alunni e tra alunni ed insegnanti.
Questo avrebbe dovuto dire la Cassazione e non limitarsi a colpire una categoria, quella degli insegnanti, gettata nella mischia e con armi sempre più spuntate.
“Costituisce abuso punibile anche il comportamento doloso che – come in questo caso, dice la Cassazione – umilia, svaluta, denigra o violenta psicologicamente un bambino, causandogli pericoli per la salute anche se è compiuto con una soggettiva intenzione educativa o di disciplina”.
Ma allora perché non ci si cura delle lesioni inferte alla vittima, colpevole solo di avere un educazione che lo porta ad un comportamento rispettoso ed educato?
In primo grado, come dicevamo, la docente era stata assolta, con rito abbreviato, dal tribunale di Palermo che aveva ritenuto il “singolare compito” commissionato all’allievo motivato dalla necessità di “un intervento tempestivo ed energico” che interrompesse la “condotta bullistica” dell’undicenne.
Forse sentenza sbrigativa, ma certamente più consona, io ritengo, delle due successive.
Ci dicono gli esperti (psicologi e sociologi), che per rendere efficace e duratura la prevenzione su tale dilagante fenomeno, è necessario che gli insegnanti, gli educatori e le famiglie collaborino, come modelli e come soggetti promotori di modalità adeguate di interazione, affinché l’esempio possa essere acquisito e diventare uno stile di vita per i ragazzi. Il compito degli insegnanti è quello di intervenire precocemente finché permangono le condizioni per modificare gli atteggiamenti inadeguati.
E per migliorare la collaborazione con le famiglie è importante che si spieghi anche ai genitori che i loro figli possono assumere diversi atteggiamenti a seconda degli ambienti in cui si trovano, al fine di prevenire la sorpresa delle famiglie nello scoprire modalità di comportamento differenti a casa e a scuola.
Ma né del “bullo” condannato a scrivere ciò che ha meritato, né della famiglia si fa menzione nella sentenza della Cassazione.
Sentenza che, infine, tiene conto della insegnante ma in nessun modo, degli altri studenti virtuosi e dell’impatto che essa potrà produrre su questi.
In effetti, a ben vedere, ha ragione Roger Abrava nel suo editoriale pubblicato sul Corriere della Sera del 9 settembre 2012.
In Italia, negli ultimi 25 anni, si è diffusa una mentalità devastante che ha di fatto ucciso la meritocrazia nelle scuole, dimenticando che lo scopo delle stesse è quello della istruzione degli studenti). Questo atteggiamento perverso è una delle cause principali di quello spread oggi ormai tristemente noto alla maggioranza degli italiani: in Paesi con un ottimo sistema di istruzione come la Finlandia, le scuole producono in proporzione tre volte più giovani eccellenti che in quelle italiane.
Inoltre la media dei nostri giovani che escono dalle scuole e dalle università è molto meno preparata, con gravi conseguenze per la crescita complessiva dell’economia.
Una società come la nostra, oltre a rendere tutti più poveri, è anche spaventosamente ineguale, perché per esempio i giovani del Sud sono discriminati da una scuola di minor qualità: i test Pisa pongono le scuole del Sud a livello dell’Uruguay e della Thailandia.
Il concorso bandito dal governo Monti è quindi giusto, anche se è solo un piccolissimo passo avanti nella direzione di miglioramento, perché se da un lato avremmo finalmente (forse) 12.000 insegnanti selezionati con qualche criterio di merito, resta la totale assenza di meritocrazia per gli altri 700.000.
Per i quali il problema non è solo sul come sono stati selezionati (male, perché molti sono stati selezionati senza concorso, ma purtroppo oggi su questo si può fare ben poco), ma su come sono formati, aggiornati, valutati, (non) esposti a suggerimenti su come migliorare il loro modo di insegnare e, soprattutto, motivati e remunerati (tutti poco e in maniera uguale). I bravi (e ce ne sono tantissimi ma purtroppo non si può sapere in maniera oggettiva quali sono) si aggiornano e motivano da sé, ma moltissimi lasciano perdere e le differenze di qualità dell’insegnamento crescono a dismisura.
E questo è un guaio non inferiore alla incultura e al bullismo, che rende la nostra scuola fragile, anzi, fatiscente.
Carlo Di Stanislao
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