La Cina e il Giappone sono rivali da sempre, da quando ancora la storia non veniva scritta da professori occidentali. Le ragioni sono analoghe a quelle per le quali la Gran Bretagna è sempre stata ostile a una potenza continentale europea dominante e ne ha sempre cercato di impedire la costituzione da Napoleone a Guglielmo II a Hitler alla tecnocrazia di Bruxelles.
In entrambi i casi una realtà continentale egemonica finirebbe per ridurre l’autonomia e in ultima analisi l’indipendenza di ogni isola o arcipelago situato in prossimità, per quanto vasto e intraprendente. La storia di questi ultimi, quindi, è costantemente caratterizzata dal tentativo di sottrarsi ad abbracci troppo soffocanti a ovest come a est.
Finché il Giappone era completamente immerso nell’introversione negatoria della propria identità che l’ha colto dalla fine della seconda guerra mondiale è successo ben poco.
Anche perché la Cina stava prendendo le misure al mondo e non era ancora partita nella sua corsa. Quando è scattata e la dirigenza nipponica si è accorta che gli Usa non l’ostacolavano più – ma anzi “fermavano il traffico per farla passare”, come è stato detto – la fuoriuscita dalla propria psicosi collettiva che era già iniziata si è bruscamente accelerata. Il pesante condizionamento della storia è stato messo da parte e il paese ha cominciato a riguadagnare lestamente il terreno perduto.
Il trattato di pace e di amicizia sino – giapponese e la normalizzazione sino – americana costituiscono gli atti conclusivi del primo stadio di sviluppo del cosiddetto triangolo strategico fra Cina, Usa e Giappone, le cui prospettive sono ancora ampie nel contesto delle instabilità politiche non solo nella regione asiatica, ma in tutto il mondo.
Dal 2004, con la presenza al timone del governo imperiale di un personaggio dinamico, carismatico e anticonformista come il premier Koizumi, che non ha mai sofferto di complessi nazionali dei suoi predecessori, il Giappone ha accelerato il processo di confronto diretto con la Cina.
E, proprio con quel governo, accadde una cosa senza precedenti: il Giappone mise per iscritto che la Cina e la Corea del Nord costituiscono minacce potenziali per il paese.
C’è stato poi un periodo di relativa tregua e ripresa di tiepidi rapporti commerciali, sino a quando, la settimana scorsa, il governo nipponico ha deciso di acquistare alcune isole dell’arcipelago Senkaku, situato nel Mar Cinese orientale; decisione che ha scatenato la dura reazione di Pechino, che ha inviato nella zona sei navi da ricognizione e circa 1.000 pescherecci.
Dure proteste antigiapponesi si sono sviluppate nelle principali città del Paese del Dragone. In risposta alcune grandi aziende giapponesi hanno sospeso la produzione dei loro impianti in Cina e chiesto agli operai di rimanere all’interno delle fabbriche. A rischio ci sono quindi le relazioni commerciali tra le due principali economie asiatiche. Le proteste hanno danneggiato i punti vendita di Toyota e Honda a Quingdao. Panasonic ha deciso di sospendere per la giornata di oggi la produzione in tre fabbriche dopo alcune azioni di sabotaggio ad opera di lavoratori cinesi. Stessa decisione anche per il gruppo Canon.
Quasi tutti positivi i titoli delle società coinvolte; Panasonic chiude la seduta in rialzo dello 0,69%, Toyota ed Honda guadagnano rispettivamente lo 0,29 e l’1.05%. Solo Canon è in rosso, con una flessione dello 0,80%.
Intanto, mentre in numerose città cinesi si suggeguono manifestazioni antinipponiche, sul fronte diplomatico gli Stati Uniti non prendono una posizione sulle isole contese e invitano alla calma temendo una escalation della tensione tra Giappone e Cina sul contenzioso territoriale nel mar cinese orientale.
Il segretario alla Difesa Usa, Leon Panetta, ha detto che gli Usa si attengono agli obblighi sul trattato di Sicurezza nei confronti del Giappone ma che la via da seguire è quella pacifica.
ChiamatI Diaoyu in cinese e Senkaku in giappone, il gruppo di isolotti rischiano di far saltare i nervi a tutta la regione, per poi pregiudicare il commercio e lo sviluppo ben al di fuori della regione stessa.
Non è certo la volta che c’è attrito tra Pechino e Tokyo su queste isole, ma la situazione attuale è diversa rispetto al passato. Le crisi precedenti avevano coinvolto navi da pesca o manifestanti della Cina continentale. Ciò metteva Pechino in una posizione di debolezza agli occhi dell’opinione pubblica internazionale: era un problema tra una democrazia (il Giappone) e un regime autoritario (la Cina), quindi era praticamente scontato che il mondo e la regione avrebbero parteggiato per la prima.
Questa volta, però, la controversia riguarda i manifestanti che si sono recati alle isole da Hong Kong e che hanno ricevuto un certo sostegno da Taiwan. Hong Kong, anche se non è una democrazia, è un territorio libero, e il suo pubblico non è controllato da Pechino. In effetti alcuni dei manifestanti hanno affermato di essere patriottici, anche se non sostenitori del Partito comunista (Ccp) al potere. Taiwan, da suo canto, è una democrazia matura e le ultime manovre attorno a queste isole quindi non sono un atto di aggressione contro una democrazia, ma qualcosa che consolida l’opinione pan-cinese, al di là dei confini della Repubblica popolare, su un delicato tema territoriale.
Oggi la posizione di Tokio è più debole che in passato ed è probabile che continuerà a indebolirsi se non saranno risolti i problemi di confine, in particolare con la Corea del Sud ed è anche possibile che tutta la vicenda non sia altro che un piano ben congegnato da parte di Pechino per mobilitare l’opinione pubblica a Hong Kong e Taiwan e poi fare pressione su Tokyo. Se è così, Pechino ha fatto un passo avanti nella sua capacità di mobilitare la diplomazia strategica e l’opinione pubblica, e ora ha esteso la propria influenza su delicate questioni nazionali dell’isola – di fatto indipendente – di Taiwan. E con gli astuti cinesi non si può mai dire.
Le isole Diayou sono state strappate alla Cina nel 1895 in seguito alla sconfitta nella guerra con il Giappone. In base al Trattato di Shimonoseki quest’ultimo ottenne dalla Cina la rinuncia al controllo della Corea, la cessione di Formosa (odierna Taiwan) e delle isole ad essa collegate – tra queste le Diaoyu – il riconoscimento dei privilegi commerciali riconosciuti alle potenze occidentali all’indomani delle due guerre dell’oppio e il pagamento – umiliazione estrema per un Paese aggredito – di una indennità di guerra. Insomma, per Pechino la sovranità sulle Diaoyu è legata a doppio filo alla dolorosa storia dell’attacco imperialista da parte di un vero e proprio cartello di potenze. Come ricorda lo storico Jurgen Hosterhammel, quello della Cina è stato “l’unico caso di regione del mondo in cui operarono tutti gli imperialismi della storia moderna” e in cui “furono sperimentate pressoché tutte le forme possibili di influenza esterna”.
Va ricordato, infine, che per Pechino la questione legata alla sovranità delle isole situate a nord-ovest di Taiwan richiama un secolo di umiliazioni e concessioni subite con la forza delle armi; sicchè, ad essere toccato sul vivo è il senso di dignità e un radicato spirito patriottico che va oltre la stessa Cina popolare per coinvolgere anche l’opinione pubblica e il governo di Taiwan e quella, non sempre allineata, della regione speciale di Hong Kong.
Insomma la questione è un vero Tangram, puzzle-rompicapo che necessità davvero di prudenza e delle proverbiali “sette pietre di saggezza”, in base alle quali saranno le sfumature a fare le differenze.
E vedremo se sarà la sottigliezza cinese o la testardaggine giapponese ad avere la meglio, ricordandoci che, anche se il Giappone è pur sempre parte integrante di quel processo di ellenizzazione cinese di cui in tempi remoti hanno goduto l’estremo oriente e parte del Sudest asiatico, le differenze fra i due popoli sono enormi, a partire da ceppi etnico-linguistici abissalmente distanti, con etnie che hanno poggiato la propria esistenza su territori morfologicamente diversissimi, e che per lunghi periodi si sono isolati dal mondo a causa di un forte complesso di superiorità (molto apparente in entrambi i casi), motivato in entrambi i regni dalla supposta origine divina del proprio imperatore.
Carlo Di Stanislao
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