Vincenzo Sacco e il suo 1° romanzo “Pornozeus”, un giallo della memoria

La rottura con la famiglia, l’esperienza del teatro, la figura del “Maestru”, padre putativo e motore nascosto della vicenda. E ancora, la contrapposizione tra l’inquietante zia, “fimmina niura” dell’immaginario popolare siciliano, e l’anticonformista Aurora. Sono gli elementi portanti del romanzo d’esordio di Vincenzo Sacco, “Pornozeus” (Novantacento edizioni, pagg. 144, € 9,90), che partecipa alla terza […]

La rottura con la famiglia, l’esperienza del teatro, la figura del “Maestru”, padre putativo e motore nascosto della vicenda. E ancora, la contrapposizione tra l’inquietante zia, “fimmina niura” dell’immaginario popolare siciliano, e l’anticonformista Aurora. Sono gli elementi portanti del romanzo d’esordio di Vincenzo Sacco, “Pornozeus” (Novantacento edizioni, pagg. 144, € 9,90), che partecipa alla terza edizione del Premio Letterario “Torre dell’Orologio” di Siculiana (AG): l’intervista.

Che aspettative hai riscontrato nei lettori incuriositi dal titolo “Pornozeus”? ce lo spieghi?

Esistono tanti libri volgari che possiedono titoli eleganti, e questa credo sia una trappola peggiore che trovarsi in libreria di fronte ad un libro dal titolo provocante ma dal contenuto più “soft”. Volevo che il titolo fosse una sfida, esattamente come lo è la lettura che propone. Parlo di sfida nella misura in cui oggi intendiamo un invito alla riflessione. Molti lettori hanno colto l’ironia, e il titolo è ironico per quanto noi consentiamo di esserlo ad una provocazione: ti ferma in un primo istante, ma subito dopo ti chiede di proseguire. Chi pensa alla questione religiosa come prima cosa credo faccia un cattivo servizio al romanzo. Pornozeus non è una bestemmia, è la metafora di una bestemmia. Aggiungo, è una doppia metafora: i due termini che compongono la parola rimandano ad altrettanti vocaboli che ricordano il vecchio ed il nuovo, accostano il sacro al profano.

Ad un livello più strettamente narrativo Pornozeus è anche il titolo dello spettacolo teatrale di cui è protagonista il personaggio principale del mio romanzo. Uno spettacolo stravagante su un bizzarro Ultimatum che Zeus, il padre degli dèi, presentò alla Sicilia greca. Un invito a redimersi da parte di Zeus, il più sacro fra gli dei e al contempo il più profano. Solo porgendo questo invito a riflettere al lettore posso sentirmi davvero utile come cittadino.

Quale percorso personale realizza Calogero dalla morte del padre?

Pornozeus è in qualche maniera un giallo. Ovviamente non un giallo classico. Il libro comincia con la confessione di Calogero, lui ci rivela sin da subito che egli è l’assassino del proprio padre. Conosciamo già la vittima e l’assassino. Quello che manca è il movente. Ecco, si tratta di un giallo della memoria. La memoria ha un limite: non può andare fin dove non è attratta. E se viene spinta fin lì, allora comincia a mentire. Calogero non ne viene a capo, e per far luce nei propri pensieri prende il largo. Si dice che per prendere i pesci grossi bisogna navigare in acque profonde. Così Calogero sale a bordo della nave da crociera sulla quale sarebbe dovuto andare in scena Pornozeus. Uno spettacolo morto a causa sua. Solcando il palco vuoto col costume di scena tenta il suicidio alla roulette russa. I ricordi riemergono, si affastellano alla vista, si richiamano l’un l’altro per dar forma al rompicapo nelle mani di un bambino. In realtà lui vuol perdere la sua memoria, non recuperarla. E liberandosene assimila ricordi altrui, memorie di fantasmi o di allucinazioni, o di altre versioni di sé stesso in altri tempi, altre dimensioni.

Pornozeus racconta la prima storia che abbiamo mai sentito: la storia di un origine, la storia del padre e del figlio, Alfa e Omega, e di come questo rapporto sia sostanzialmente prometeico. Calogero non vuole diventare come il padre, e nella sua ricerca di futuro scopre che in passato anche il suo genitore non voleva assomigliare al proprio padre. Allontanandosi dal modello paterno si finisce per reiterarne l’esempio. Allora Calogero intravede una via di fuga: un figlio può sopravvivere alla morte del padre solo divenendolo a sua volta. Un’impresa per cui serve una donna. Il principale personaggio femminile del libro, Aurora, è la compagna di Calogero: solo guardando all’orizzonte potrà l’uomo decidere se volare alto come Icaro e bruciare le ali di cera oppure seguire la sua aurora verso la salvezza.

Vita e recitazione s’incontrano? in che modo lo fanno rispetto a quanto siamo abituati dalla letteratura novecentesca?

Ovviamente la letteratura novecentesca è ricca di questo genere di sovrapposizioni, ma nel mio caso ho cercato un percorso personale senza riallacciarmi a nulla di precedente. Poi è chiaro, non da meno il rapporto di uno scrittore con la letteratura alle sue spalle è anch’essa prometeico. Come la linea che va di padre in figlio. E come il mio protagonista ho cercato di ribellarmi, probabilmente ripetendo gli stessi errori.

Lo spettacolo pensato dal Maestro di Calogero, suo padre putativo, il Pornozeus che dà titolo al romanzo, è ovviamente uno specchio distorto della vita del protagonista. Ma cosa c’è oltre lo specchio? L’anima, il diavolo? O la vita vera? Zeus (potrebbe essere lo specchio del Maestro?), il re degli antichi dèi, sovrasta minaccioso il cielo sopra la Sicilia e dà il suo Ultimatum ad un bamboccio di passaggio tornato dalla guerra: vengono concessi tre giorni per salvare la Sicilia, altrimenti Zeus l’avrebbe sommersa con un maremoto spacciandola una volta e per sempre. Ogni giorno è il turno di un tipo di siciliano diverso: mafioso (il padre di Calogero?), antimafioso (lui stesso?) e schiffarato (la sua fidanzata, Aurora?). Un percorso di crescita che va di pari passo con quello dello smantellamento.

Inoltre l’intreccio si dipana come sulle pagine di un sussidiario profano che rivisita varie arti teatrali: c’è il capitolo sulla fotografia, il primo, quindi quello sulla recitazione, sulla regia, sulla scenografia, sulla scrittura, sulla musica, e via dicendo. Calogero non è solo alter ego del suo personaggio teatrale, ma è prima ancora metafora del lettore che sfoglia un manuale. Un manuale d’arte sacra che, agli occhi di un profano, si trasforma.

Come in un gioco di scatole cinesi, nella storia che racconto i piani di intrecciano: spero solo che lo spettacolo non risulti una metafora della vita del protagonista quanto piuttosto l’esatto contrario, cioè che sia la vita dell’uomo a farsi metafora di uno spettacolo.

Quale Sicilia fa da sfondo alla trama: facile o difficile raccontare la propria terra?

Sinceramente ho provato a raccontare uno stereotipo senza per forza ripetere quelli noti agli scrittori siciliani e di cui sembra non riusciamo a farne a meno.

Col tempo ho riscontrato elementi identici che colpiscono lettori diversi. Soprattutto mi citano la frase, quasi l’avessi messa lì a mò di riassunto, che “i siciliani stanno sul ponte”: cioè, fra l’una e l’altra riva, stanno in mezzo. Il libro non parla della Sicilia, né di un certo modo di essere siciliani, né tantomeno della sviscerata sicilianità: il libro parla di una contraddizione, una contraddizione irrisolvibile perché non tende ad un superamento, perché è essa stessa già forma completa, è l’anima di un uomo, di un siciliano ancor di più. Nel caso del titolo, il sacro di Zeus e il profano del Porno non devono per forza escludersi a vicenda, qualcuno dice che una forza non può esistere senza il suo opposto (il caldo senza il freddo, il bene senza il male), quel che penso emerga dalla mia storia è che non esistono unità opposte ma un’unità fatta di opposti: essi non convivono al suo interno, ma sono già di per sé quell’unità indistinta.

I miei personaggi stanno su quel ponte non più di quanto vi stiano le persone autentiche, i siciliani su tutti: vanno avanti e indietro, da un punto all’altro, dall’inizio alla fine e poi indietro di nuovo sino all’inizio, a volte indecisi altre pentiti, non sono i senzatetto che stanno sotto un ponte ma quelle persone che hanno talmente tante abitazioni, nell’una e nell’altra sponda, da fare di quella parte sopra il ponte la loro vera residenza. Il siciliano, in particolare, non sta su un’isola, già, ma sul ponte, che da quell’isola va sempre altrove. Una bestemmia è l’apoteosi della contraddizione fatta unità, e se lo è anche un siciliano, allora, per sillogismo, il siciliano sarà una bestemmia. Il libro parla del siciliano tanto quanto parla della bestemmia.

Scrissi che le donne salveranno la Sicilia, senza tenere a mente che Dostoevskij scriveva che sarà la bellezza a salvare il mondo. L’uomo è un coacervo di contraddizioni, dunque anche la donna in quanto uomo. Anzi, la donna a maggior ragione: nucleo della famiglia, collante delle contraddizioni, vera immagine della Sicilia. Una terra che gli stereotipi vogliono irredimibile, che si salverà da se stessa solamente continuando ad essere se stessa. La Sicilia che vedo io è non è per nulla realistica, ma fantastica, surreale, fatata, smossa da forze ataviche e da demoni ancestrali. Una donna ne è simbolo, la misteriosa e ammaliante zia di Calogero, una versione lovecraftiana della Sicilia: quella delle fimmine niure, cornice nera e solitaria dell’isola, che della terra ne rappresentano le origini, il continuo andare, e il futuro prossimo. Della serie “ho girato talmente intorno da ritrovarmi all’inizio”: in un passato mitico che è unità col destino avverso, unità che è donna e, pertanto, origine, specie.

Per quanto riguarda la narrazione come definirebbe la sua scrittura? di quale formazione e gusti è figlia?

Il libro sta allo scrittore come il figlio al padre, e la ribellione non è diversa. Fuggire dagli esempi paterni per ripeterne inconsapevolmente gli stessi errori: tenendo questo a mente ho cercato di raccontare la storia classica per eccellenza con un metodo che fosse sperimentale ma allo stesso tempo consono alla materia trattata. Non il “Cosa” ma il “Come” credo che sia la prospettiva giusta con cui affrontare la lettura.

A dire il vero, non ho mai provato a definire la mia scrittura, scrivere è un fatto naturale. Nel momento in cui l’etichetto è morta. Ci sono autori che mi hanno ispirato più di altri, come Moravia e Pasolini, ma più che la mia scrittura, io stesso sono figlio delle letture di una vita. Ricordo che un tempo, neanche buono per la scuola materna, obbligavo mio fratello di poco più grande a sedersi al tavolo e a scrivere sotto dettatura i miei racconti. E lui, che costringevo a piegarsi alle mie esigenze, si vendicava insozzandomi le pagine con le peggiori nefandezze che il linguaggio del belpaese avesse mai potuto partorire. Io, entusiasta di condividere le avventure dei miei eroi col primo pubblico, mia madre, le portavo da leggere il quaderno, e quando lei, su mia richiesta, prendeva a recitare a voce alta, ecco che il mio sorriso veniva spento da una cascata di scellerati improperi. In quell’istante non mi rimanevano più dubbi: il libro non è mai di chi lo scrive, ma di chi lo legge.

Fatto tesoro del prezioso insegnamento mi misi d’impegno per far mia la marea di volumi che si davano battaglia per prendere spazio nella libreria in mogano costruita da mio padre: la libreria l’aveva tirata su lui nel corso degli anni, sia intagliandola fisicamente che dando vita agli scaffali con i libri che accumulava. Io mi arrampicavo e buttavo tutto giù per ricominciare daccapo, volevo farli tutti miei. Per non disorientarmi nell’abisso di quelle collezioni ad ogni lettura incidevo una tacca bianca con l’unghia del pollice sul bordo delle pagine, e ad ogni rilettura una seconda tacca, come i prigionieri che contano i giorni sulla parete della cella e i pistoleri i propri morti sul manico della pistola.

Sto ancora inseguendo l’ultima pagina, perché per me l’ampia libreria a muro quattro metri per tre nella casa dei miei genitori rappresenta un’unica lettura. Non interminabile, sia chiaro, perché io son proprio curioso di sapere come andrà a finire. Come un corridore che vede allontanarsi sempre più la meta finale quando credeva invece di aver raggiunto il traguardo, così mi sento io quando un nuovo libro si aggiunge alla libreria. E allora io corro più veloce, tuttora sono al ritmo discreto di 300/400 pagine la settimana. Non starò qui a dirvi i titoli che ho letto, ma vi dirò l’unico che, con orgoglio, ammetto di non aver mai letto, quel libro che è il termine ultimo della maratona: l’Ulisse di James Joyce. E’ come se tutti i libri rimandassero a questo, anche quelli scritti prima, e ciò non fa che alimentare la paura indicibile che nutro verso quelle pagine. So che un giorno lo leggerò, forse l’ultimo giorno, ma al momento non mi sento pronto. Due cose al mondo sono certe: l’una sono le tasse, l’altra… Joyce.

Come quella della libreria è un’unica lettura, anche il modo di avvicinarsi alla scrittura è unico per tutti: è un Modo Gerundio, Leggendo. Simenon sconsigliava la lettura agli scrittori per venir meno influenzati, e questo mi fa pensare allora che le letture degli altri siano un buon antidoto verso la propria scrittura. Ogni tanto prendo in mano Pornozeus, sfoglio veloce e salto le pagine impaziente di rovinarmi il finale, ma non capisco quel che c’è scritto, e allora chiudo tutto e lo rimetto nello scaffale a prender polvere. Un libro di contraddizioni che continua a confondermi. E’ l’unico su cui non traccio la tacca col pollice, tanto mi irrita. Quando faccio altro, e con lo sguardo incrocio la copertina, mi arrabbio, non so quanto avanti andrà questa storia. Mi sa che me la porterò dietro fino all’ultimo giorno, senza capirla mai.

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