Trapelano le prime indiscrezioni sul Festival Internazionale del Cinema di Roma, prima puntata della nuova gestione Muller, con Hollywood Reporter che scrive che ci sarà Quentin Tarantino (antico amico del direttore), con il suo nuovissimo “Django Unchained” che, forse, aprirà il concorso ed anche “Drug War” di Johnny To (altro fedelissimo mulleriano), oltre al terzo film americano di Gabriele Muccino: “Quello che so sull’amore”.
E, ancora, fra gli eventi speciali, “The Twilight Saga: Breaking Dawn – Parte 2”, con la presentazione del nuovo film della saga dei bei vampiri che è ormai una tradizione romana ed un altro “evento ad hoc” dedicato al franchise dell’ultimo 007, “Skyfall”, che uscirà nelle sale il 31 ottobre, ma che comunque, dal momento che il Festival è previsto dal 9 al 17 novembre, avrà bisogno di promozione.
Hollywood Reporter conclude la panoramica sui possibili titoli presenti citando tre film da Oscar: “Promised Land” di Gus Van Sant; “Les Misèrables” di Tom Hooper e “Lincoln” di Steven Spielberg, il che ci lascia molto dubbiosi poiché il film di Spielberg dovrebbe uscire il 9 novembre, giorno d’apertura del Festival e gli altri due potrebbero non essere pronti.
Ciò che è certo è che anche questa settima edizione si svolgerà presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma, il complesso architettonico firmato da Renzo Piano e si estenderà all’intera città, con la capitale attraversata e animata da iniziative allestite nei luoghi storici, presso le sue istituzioni culturali e le varie associazioni di settore.
Oltre alle sezioni “Concorso” e “Fuori Concorso”, vi saranno “Cinema XXI” (una linea di programma dedicata alle nuove correnti del cinema mondiale senza distinzione di genere e durata); “Prospettive Italia” (che intende fare il punto sulle nuove linee del cinema italiano, per un massimo di 14 lungometraggi e 7 film brevi in prima mondiale) e “Alice nella città” (con un massimo di 14 film per ragazzi, autonomamente organizzata secondo un proprio regolamento).
Entusiasmo per come stanno andando le cose lo esprime il sindaco Alemanno, rimasto solo dopo la “caduta” della Polverini a sostenere il Festival, che ieri, alla presentazione della stagione 2012-2013 del Teatro dell’opera di Roma, ha annunciato: “nella capitale dopo il Festival del cinema faremo gli Stati Generali della cultura”, precisando che il progetto verrà presentato già nei prossimi giorni e che si tratterà di un momento di incontro al quale sono invitati politici e amministratori, con in testa il ministro Lorenzo Ornaghi, ma soprattutto “i maestri, le grandi personalità della cultura, dai quali ci aspettiamo indicazioni”.
Forse Alemanno ha letto l’editoriale di Giuseppe del Nino, firma storica della stampa di destra, che commentando il caso Fiorito-Polverini notava come fra le spese a carico di quelle “mancia” dei politici di destra, non c’è neanche un euro per un libro e di come sia ormai evidente che i nipotini di Almirante e Rauti, di Romualdi e Roberti, i discepoli di Gentile ed Evola, ma anche di Rasi, di Accame, di Erra e di Gianfranceschi, si siano ridotti a squallidi desideranti di ostriche, case di pregio, barche, escort ed altre amenità del genere, senza un briciolo di cultura.
Ed aggiungeva, accorato, che in virtù di una ferrea spartizione di sfere di egemonia fra democristiani e marxisti dopo il 1945, sono venuti meno l’accesso davvero libero e la formazione meritocratica e graduale, soprattutto nei luoghi dove si produce cultura; quella cultura che, nello specifico ambiente politico, vuol dire non soltanto sapienza amministrativa, ma scuola di valori che si traducono in ideologia.
Oggi, quando si vuol lanciare un’accusa infamante ad un avversario politico, lo si taccia di soggiacere all’ideologia, essendo invece corretto e innocente il percorso che si districa fra gli interessi e le soluzioni “tecniche” dei problemi; dimenticando però che l’ideologia – raccolta sistematica ed organizzata delle idee, derivanti dai valori, in mutamento e suscettibili di confronto e dialogo le prime, immutabili e non negoziabili i secondi – funge sempre da cinghia di trasmissione fra valori, appunto, e comportamenti, individuali e collettivi, e che il suo tramonto – o eclisse – ha lasciato, nella politica, campo libero alle pressioni, alle ambizioni, alle tentazioni, ai commerci senza bussola né teorica né etica. E questo, non solo certamente, ma soprattutto a destra.
Lo scorso 17 luglio, nel millenario monastero camaldolese di Valledacqua, negli spersi e magnifici appenini piceni, uno sparuto drappello di intellettuali di destra ha raccolto l’invito di Renato Besana e Marcello Veneziani a “tornare a Itaca”: un richiamo a un “rientro in patria” per gli intellettuali conservatori che si ritengono apolidi della politica e vittime della frantumazione del progetto del Pdl.
Sessanta fra pensatori e giornalisti (fra cui molti nomi noti nel panorama culturale, come Gennaro Sangiuliano, Adolfo Morganti, Sandro Giovannini, Fabio Torriero, Pietrangelo Buttafuoco e Gianfranco de Turris), partendo dall’assunto di conclusione di un ciclo ventennale che ha visto il dibattito nazionale avvitarsi fra berlusconiani e antiberlusconiani, si sono confrontati sui modi da adottare per affrontare la sfida del futuro.
Ed hanno compreso come la destra di oggi difetti soprattutto di cultura, non una sua cultura, ma una cultura più in generale.
Gli autoconvocati di Valledacqua, in quella occasione, già individuarono nel ristabilimento della supremazia della politica sull’economia e sui tecnici, ma anche nella sua salvaguardia dai politicanti i cardini di ogni possibile iniziativa futura, che deve nascere– come disse Renato Besana – con una certa nostalgia del passato, ma anche con una vocazione “maieutica” pronta a confrontarsi coi politici di oggi, attraverso la costituzione di un movimento senza compromessi, anzi riaffermando i principi della destra italiana: il valore dell’identità greco-romano-cristiana della nostra civiltà e il patriottismo della tradizione, più ancora che della Costituzione del 1948.
Cosa che non è piaciuta a Pasquale Squittieri che polemicamente ha lasciato la sala e neanche a Franco Cardini, che con una struggente riflessione che mescolava Itaca a Troia, la vittoria di Lepanto alla sconfitta dell’Invicibile Armada, Ulisse (“l’eroe fraudolento”) a Ettore (“nobile domatore di cavalli”), in nome di un passato ideale che non può più tornare e di un futuro da costruire partendo da esperienze del tutto personali; hanno affermato che occorrono idee nuove e facce nuove, con una autentica e vera cultura, se si vuole davvero una destra politica in questo Paese.
Ma nonostante l’impolitica disillusione dell’illustre medievista e del regista, è stato evidente in tutti gli altri, la necessità, a destra (ma io potrei aggiungere anche a sinistra), di costruire una nuova piattaforma che possa tenere insieme un mondo così composito e, per sua intrinseca natura, tendente al particolarismo e all’autoreferenzialità. Un progetto che possa riconquistare una fetta degli astensionisti e fornire nuove motivazioni ai giovani, nonostante le volgari ruberie, le mancate scuse e l’ombra del Cavaliere che si riaffaccia sulla scena.
E, comunque, anche per chi non è di destra, un conto è immaginare una controparte come Alemanno, un conto interfacciarsi con Veneziani o Buttafuoco.
E se non ci credete leggetevi (che è anche molto piacevole) “Le uova del drago”, romanzo scritto sette anni fa da Buttafuoco, portato avanti in modo arguto e con sapide espressioni, con un parafrasare che ci dà la pronta misura del suo talento sensuale e sontuoso, con una lingua quasi manzoniana e prestiti dialettali, inevitabili quanto contenuti, che risultano con inferiori a quelli di Camilleri.
Ma che, soprattutto, condanna in modo chiaro le guerre d’aggressione e quelle di finta liberazione, “le volpi americane arrivate quando è scappato il lupo germanico per sostituirlo” e in cui le vittime sono sempre o dei poveri disgraziati o degli eroi della parte sbagliata.
Concetto che rende l’autore più prossimo a Levi, Silone, Sciascia o Pasolini, di quanto non siano i “sinistri” (l’allusività onomatopeica non è casuale) Francesco Merlo di Repubblica, che parlò di “uova marcie” e di libro “più fascista del suo autore; di Enzo Mauro che sul Manifesto invece di commentare riempì d’insulti Buttafuoco, dando a Mughini e Canali, rei di aver difeso il libro, l’epiteto di “collaborazioni” e di Miriam Maffai che, su Liberazione, in un crescendo terminologico che più che ai discorsi seri atteneva alla febbre partigiana che l’ha attraversata per tutta la vita, affermò ingiustamente che Buttafuoco non è da leggere e neanche da frequentare.
Carlo Di Stanislao
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