“Tu hai vissuto in questi giorni, mio povero ragazzo, una serie di avvenimenti in cui ogni retta regola sembrava essersi sciolta. Ma l’Anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall’eccessivo amor di Dio o della verità, come l’eretico nasce dal santo e l’indemoniato dal veggente e la verità si manifesta a tratti anche nell’errore del mondo, così che dobbiamo decifrarne i segni anche là dove ci appaiono oscuri e intessuti in una volontà del tutto intesa al male!”(Guglielmo da Baskerville, Il nome della rosa). L’Inquisizione è un tema storico che evoca nell’immaginario immediatamente romanzi e kolossal cinematografici, a volte dalla dubbia scientificità, cupi tribunali, confessioni estorte in Italia e nel mondo dal potere secolare con orrende torture, tragici epiloghi non solo sul rogo ma nelle tetre celle ad opera di torturatori specializzati con macchine orripilanti tra lamenti e strazi lancinanti. “Il sonno della ragione genera mostri” (Francisco Goya). Nell’Inquisizione italiana, al centro dell’interessante Convegno organizzato dall’Associazione Romano Canosa per gli Studi Storici a Ortona (Chieti), Venerdì 6 Ottobre 2012, al Teatro Francesco Paolo Tosti dalle ore 17, tuttavia, non c’è spazio per affreschi a tinte fosche ed anatemi laicisti a posteriori lanciati contro i tribunali ecclesiastici del mondo. L’obiettivo di “L’Inquisizione e la pace religiosa dell’Italia” – questo è il titolo del Convegno scientifico che vede fra i relatori alcuni dei maggiori studiosi italiani della materia quali Adriano Prosperi e Vincenzo Lavenia – è infatti quello di riposizionare la Riforma Cattolica in un quadro di documentata ed equilibrata analisi storica. Questo nel solco già percorso da Romano Canosa, magistrato per professione e storico per passione, che all’Inquisizione in Italia ha dedicato una coraggiosa opera in cinque volumi il cui valore è riconosciuto unanimemente dagli scienziati più qualificati. Sono il professor Adriano Prosperi, docente della Scuola Normale Superiore di Pisa e Vincenzo Lavenia, già allievo della Normale e ora docente dell’Università di Macerata, a svolgere le relazioni fondamentali del Convegno, i cui lavori sono coordinati da Andrea Rapini, docente dell’Università di Modena e Reggio Emilia e tra i fondatori dell’Associazione dedicata a Romano Canosa. Il Programma prevede la prolusione di Adriano Prosperi, tra i maggiori studiosi dell’Inquisizione, che aprirà i lavori con una lectio dal titolo:“Le paure della Chiesa, le religioni degli italiani: dagli archivi dell’Inquisizione romana”: utilizzando i documenti da poco emersi dagli archivi della Chiesa si cercherà di ricomporre in un affresco unitario alcuni degli aspetti meno noti dell’Inquisizione. Da un lato le scelte strategiche e gli aggiustamenti tattici della gerarchia cattolica per combattere la libertà di coscienza e impedire la diffusione di letture e opinioni pericolose, dall’altro l’evoluzione della cultura e delle pratiche religiose nelle varie regioni e nelle diverse classi sociali della penisola. Vincenzo Lavenia dedicherà il suo intervento,“L’Inquisizione in Italia: realtà politiche e attività dei tribunali”, all’opera di Romano Canosa, tracciando la storia dei conflitti e dei compromessi che caratterizzarono l’attività del Sant’Uffizio nell’Italia moderna, priva di unità politica e legata alla Curia Romana. Il Convegno sull’Inquisizione a Ortona, che fa seguito a quello dello scorso anno dedicato a “Il Mediterraneo nella storia”, secondo gli organizzatori risponde a due esigenze complementari: approfondire con sguardo libero e privo di pregiudizi alcuni snodi fondamentali della storia italiana (e non vi è dubbio che le vicende raccolte sotto il termine Inquisizione lo siano anche se la letteratura e il cinema europei, per troppo tempo latitanti, hanno finora affrontato l’argomento con dubbia scientificità e obiettività, con le dovute eccezioni) e, al contempo, rendere indiretto omaggio a Romano Canosa, che nel panorama italiano seppe distinguersi per il contributo di intelligenza e conoscenza offerto tanto nella sua professione di magistrato quanto nella sua appassionata ricerca storica. Aderiscono all’iniziativa la Biblioteca Comunale e Museo della Battaglia di Ortona, la Biblioteca Diocesana, D’Abruzzo-Menabò, Progetti Farnesiani–Ortona. Romano Canosa nasce il 6 agosto 1935 a Ortona. Si laurea nel 1957 a Roma con una tesi in Diritto Civile e dopo quattro anni di esperienze in studi professionali romani, nel 1961 vince il concorso per la Magistratura e viene invitato a presentarsi alla pretura di Milano. Fin dagli anni Settanta Romano Canosa scrive di giudici, diritto, formazione della legge. Il suo primo libro “La magistratura in Italia dal 1945 ad oggi” esce con Il Mulino, Bologna nel 1974. Collabora alle rivista Quaderni Piacentini, il Mulino, Quale Giustizia, Critica del Diritto, Politica del Diritto, Magistratura Democratica, La Questione criminale ed altre ancora. In questo periodo i temi centrali del suo lavoro sono dedicati alla legislazione sull’aborto, alle sanzioni contro il fascismo, ai diritti del soldato. Nel 1978 esce per Einaudi Storia di un pretore un diario coraggioso, avvincente, ricco di passione umana e politica che indusse molti giovani ad entrare in magistratura e che narra il movimento di Magistratura Democratica attraverso la crisi della società italiana del tempo: la chiusura delle fabbriche, la condizione dei lavoratori, i comportamenti padronali. In un movimento di andata e ritorno nel tempo, i suoi interessi si spingono sempre più verso la storia sociale, quella delle istituzioni sociali, della devianza, della sessualità, mentre lo studio del Seicento diventa sempre più dominante nel suo lavoro di storico come anche la frequentazione degli archivi spagnoli che saranno una sua meta ricorrente. Inizia una “Storia della Inquisizione in Italia dalla metà del Cinquecento alla fine del Settecento” (Sapere 2000, Roma, 1986) in cinque volumi che completerà nel 1990. Romano Canosa muore il 7 agosto 2010 a Ortona. Tra le sue opere dedicate al tema dell’Inquisizione (si potrà consultare l’incredibile mole di lavoro di questo instancabile storico,70 volumi pubblicati, sul sito www.romanocanosa.it), ricordiamo: “Gli Ultimi roghi: la fine della caccia alle streghe in Italia” (con Isabella Colonnello), Sapere 2000, Roma, 1983; “Storia dell’Inquisizione in Italia: dalla metà del Cinquecento alla fine del Settecento”,Sapere 2000, 5 volumi, Roma, 1986 – 1990; “L’Ultima eresia: quietisti e Inquisizione in Sicilia tra Seicento e Settecento” (con Isabella Colonnello), Sellerio, Palermo, 1986; “Alle origini della polizia segreta: gli inquisitori di Stato a Venezia e a Genova”, SugarCo, Milano, 1989; “Storia dell’Inquisizione di Sicilia dal 1600 al 1720” (con Isabella Colonnello), Sellerio, Palermo, 1989; “Storia di una grande paura: la sodomia a Firenze e a Venezia nel Quattrocento”, Feltrinelli, Milano, 1991; “Sessualità e Inquisizione in Italia tra Cinquecento e Seicento”, Sapere 2000, Roma, 1994; “Streghe, maghi e sortilegi in Abruzzo tra Cinquecento e Settecento”(con Isabella Colonnello) D’Abruzzo Edizioni Menabò, Ortona 2002. La Santa Inquisizione è l’istituzione ecclesiastica fondata dalla Chiesa cattolica per indagare e punire, mediante un apposito tribunale, i sostenitori di teorie considerate “eretiche”, ossia contrarie all’ortodossia cattolica. Tuttavia essa non nasce come strumento di tortura e di omicidio, bensì di conversione evangelica. Storicamente, l’Inquisizione si può considerare stabilita già nel Concilio presieduto a Verona nel 1184 da papa Lucio III e dall’Imperatore Federico Barbarossa, con la costituzione “Ad abolendam diversarum haeresum pravitatem” e fu perfezionata da Innocenzo III e dai successivi papi Onorio III e Gregorio IX, per reprimere il movimento cataro, diffuso nella Francia meridionale e nell’Italia settentrionale, e controllare i diversi ed attivi movimenti spirituali e pauperistici. I comportamenti poco virtuosi del potere secolare finirono per prevalere anche nella Chiesa in aperto tradimento dei comandamenti evangelici. Nel 1252, con la bolla “Ad extirpanda”, Innocenzo IV autorizzò l’uso della tortura e Giovanni XXII estese i poteri dell’Inquisizione nella lotta contro la stregoneria. L’Inquisizione medievale si distingue dall’Inquisizione spagnola, istituita da Sisto IV nel 1478 su richiesta dei sovrani Ferdinando e Isabella, che fu estesa nelle colonie dell’America centro-meridionale e nel vice-regno di Sicilia, e dall’Inquisizione portoghese, istituita nel 1536 da Paolo III su richiesta del re Giovanni III, che si estese dal Brasile, alle Isole di Capo Verde e a Goa, in India. Per contrastare più efficacemente la Riforma protestante, il 21 luglio 1542 Paolo III emanò la bolla “Licet ab initio”, con la quale si costituiva l’Inquisizione romana, ossia la “Congregazione della sacra, romana ed universale Inquisizione del santo Offizio”. Nel XIX Secolo gli Stati europei soppressero i tribunali dell’Inquisizione che, mantenuta dallo Stato pontificio, assunse nel 1908, regnante Pio X, il nome di “Sacra Congregazione del santo Offizio”, finché con il Concilio Vaticano II, durante il pontificato di Paolo VI, in un clima profondamente mutato dopo il papato di Giovanni XXIII, assunse nel 1965 l’attuale nome di “Congregazione per la dottrina della fede”. Molteplici furono gli obiettivi perseguiti dal tribunale dell’Inquisizione nel corso della sua lunga esistenza: non solo perseguire gli eretici, coloro che “dogmatizzano contro la fede cristiana e generalmente contro la religione”, ma, nella sua fase “civile”, pur essendo di giurisdizione ecclesiastica, influenzare anche il potere temporale, dal momento che i regnanti considerarono generalmente la religione “come il primo bene de’ popoli e come eziandio il più forte baluardo della pubblica sicurezza”, collaborando con i poteri ecclesiastici alla repressione delle eresie, “sempre infeste all’altare insieme ed al trono”. A Roma, dal Cinquecento, l’Inquisizione aveva per prefetto lo stesso papa che nominava gli inquisitori generali, un gruppo di cardinali appartenenti alla Congregazione della sacra Inquisizione, e gli inquisitori particolari, consultori della Congregazione. Nelle diverse diocesi dello Stato pontificio erano presenti altri inquisitori. Nella Spagna e nel Portogallo venivano nominati dal re gli inquisitori generali, confermati dal papa. L’autorità dell’Inquisizione, in materia di fede, si estendeva “sopra qualunque persona di qualunque grado, condizione e dignità, ossia vescovi, magistrati, comunità, né vi ha privilegio personale o locale ch’esenti dalla di lui giurisdizione”. I magistrati e i giudici erano tenuti ad eseguire i suoi decreti, sotto pena di scomunica. Gli inquisitori procedevano “contro gli eretici ed i fautori o ricettatori di essi, contro i sospetti di una falsa credenza, contro quelli che impediscono agli inquisitori di esercitar liberamente il loro uffizio, e contro quelli che richiesti a prestar la loro opera per poterlo eseguire, si ricusano, ancorché siano principi, magistrati e comunità; contro i pagani che venuti alla fede e battezzati, ritornano a professare il paganesimo”; “contro i malefici ed i sortilegi che con arti superstiziose tentano di danneggiare il prossimo; contro gli astrologi giudiziari, divinatori e maghi, molto più se questi abbiano fatto patti col demonio, ed abbiano apostatato dalla vera religione; contro quelli che impediscono ai bramosi di professare la vera fede e di abbracciarla; contro chi predichi dottrine scandalose e contrarie alla vera religione; contro quelli che in pubbliche lezioni o dispute, ed anche in discorsi e scritti privati sostengono che la ss. Vergine non sia stata concepita senza macchia originale; contro chi usa litanie nuove non approvate dalla sacra congregazione de’ riti; contro chi celebra la messa e ascolta le confessioni non essendo sacerdote; contro i sacerdoti sollecitanti a cose turpi nell’atto della confessione o immediatamente innanzi o dopo di essa, o nell’occasione o col pretesto della medesima; contro i ministri del sagramento della penitenza, che negligentino di avvertire i penitenti dell’obbligo di denunziare i sollecitenti, o che insegnano non esservi siffatta obbligazione, e contro i testimoni falsi e calunniatori che depongono in causa di fede; contro i cristiani apostati, anzi possono procedere contro i giudei ed altri infedeli se neghino quelle verità, che nella loro credenza sono comuni coi cristiani, se invochino o facciano sacrifizi ai demoni, e cerchino d’indurre i cristiani ad eseguirli, se pronunzino delle bestemmie ereticali, ed in molti altri casi”. Il processo accusatorio, previsto dal Diritto Romano, consisteva nel pubblico confronto orale fra accusatore e accusato, al quale assisteva il giudice: l’onere della prova ricadeva sull’accusatore, che se non dimostrava le proprie accuse, era condannato dal giudice alla pena che avrebbe dovuto subire l’accusato in caso di riconosciuta colpevolezza. Il tribunale dell’Inquisizione adottò la procedura del processo inquisitorio (dal latino “inquisitio”, indagine) nel quale il giudice è anche accusatore: sulla base di una denuncia anche generica, egli è tenuto a raccogliere le prove della colpevolezza dell’imputato, conducendo indagini segrete e dirigendo il processo al quale, secondo quanto stabilito nel 1205 dalla decretale “Si adversus vos” di Innocenzo III, il pubblico non può assistere né è ammessa la presenza di un avvocato difensore; le testimonianze e le dichiarazioni dell’imputato sono verbalizzate. Per giungere alla condanna è sufficiente la testimonianza concorde di almeno due testimoni o la confessione dell’imputato, il quale viene detenuto in carcere durante lo svolgimento del processo, che non ha una durata predefinita e le cui udienze (i “costituti”) si svolgono a discrezione dello stesso giudice. Se la prova della colpevolezza non viene raggiunta e allo scopo di sciogliere le eventuali contraddizioni presenti nelle sue deposizioni, l’imputato è sottoposto a tortura, il mezzo di coercizione legittimato dalla giurisprudenza fino al XVIII secolo, generalmente consistente nella corda: legate le braccia dietro la schiena, l’imputato, nudo, viene sollevato da terra dalla corda che scorre su una carrucola fissata al soffitto. Egli è tenuto in quella condizione per non più di mezz’ora, perché una durata superiore può comportare gravi conseguenze, dalle lesioni agli arti superiori fino al collasso cardiocircolatorio. La tortura può essere reiterata più volte nel corso del processo. Se ritiene che l’accusa di eresia sia stata provata, il tribunale chiede all’imputato di abiurare, cioè di rinnegare le proprie convinzioni. Abiurando, se non è recidivo, l’imputato evita la condanna a morte e viene condannato a pene diverse: preghiere, digiuni, multa, confisca dei beni, obbligo di indossare, per sempre o per un determinato periodo, l’abitello, una veste gialla con due croci rosse sul petto e sulla schiena che lo identifica pubblicamente come eretico penitente, fino al carcere. Se è recidivo (“relapso”) l’imputato è condannato a morte. Pentendosi, viene prima strangolato o impiccato e il cadavere viene poi bruciato e le ceneri disperse; se è impenitente, viene bruciato vivo. La pena viene eseguita dall’autorità civile (non ecclesiastica), il cosiddetto braccio secolare, al quale il tribunale dell’Inquisizione rilascia il reo, in quanto gli ecclesiastici non possono “spargere il sangue”, come indicato dalla costituzione “De iudicio sanguinis et duelli clericis interdictio” del Concilio Lateranense IV del 1215. All’autorità civile il tribunale raccomanda di eseguire la sentenza evitando di “spargere il sangue” del condannato. Né San Francesco né San Domenico avrebbero mai potuto consentire ai loro frati di macchiarsi di così orrendi crimini contro il Vangelo di Cristo. Le fonti concordano nel ritenere possibile che sia l’inquisitore sia il vescovo potessero sottoporre qualcuno alla tortura secondo le decretali di Clemente V (Concilio di Vienne), a condizione di deciderlo insieme. Non esistono regole precise per determinare in quali casi si possa procedere alla tortura (sospensione del condannato con funi e caduta con strappi di corda). In mancanza di giurisprudenza precisa, facevano testo le sette regole di riferimento. “Si tortura l’accusato che vacilla nelle risposte, affermando ora una cosa, ora il contrario, ma sempre negando i capi d’accusa più importanti. Si presume in questo caso che l’accusato nasconda la verità e che, pungolato dagli interrogatori, si contraddica. Se negasse una volta, poi confessasse e si pentisse, non sarebbe considerato un “vacillante” ma come “eretico penitente” e verrebbe condannato. Sarà torturato il diffamato che abbia contro anche un solo testimone. Infatti la pubblica nomea più un testimone costituiscono insieme una mezza prova, cosa che non stupirà nessuno dal momento che una sola testimonianza vale già come un indizio. Si dirà testis unus, testis nullus? Ciò vale per la condanna, non per la presunzione. Una sola testimonianza a carico dunque basta. Tuttavia, ne convengo, la testimonianza di uno solo non avrebbe la stessa forza di un giudizio civile. Il diffamato contro il quale si è riusciti ad accumulare uno o più indizi gravi deve essere torturato. La diffamazione più gli indizi bastano. Per i preti, basta la diffamazione (tuttavia si torturano solo i preti infami). In questo caso le condizioni sono sufficientemente numerose. Sarà torturato colui contro il quale deporrà uno solo in materia di eresia e contro il quale si avranno inoltre indizi veementi o violenti. Colui contro il quale peseranno più indizi veementi o violenti verrà torturato, anche se non si dispone di alcun testimone a carico. A maggior ragione si torturerà colui il quale, simile al precedente, avrà in più contro di sé la deposizione di un testimone. Colui contro il quale si ha solo diffamazione o un solo testimone o un solo indizio non verrà torturato: una di queste condizioni, da sola, non basta a giustificare la tortura (Fra Nicolau Eymerich, Manuale dell’Inquisitore. Ed. Piemme. Casale Monferrato, 1998). I politicanti dei giorni nostri avrebbero di che preoccuparsi! Fatto sta che il termine Inquisizione e i suoi derivati, nell’immaginario collettivo sono sinonimi di arbitrarietà e crudeltà: il vocabolario Zanichelli della lingua italiana alla voce “Inquisizione”, dopo aver chiarito l’etimologia del termine e il suo uso all’interno del Diritto Canonico, ne indica un significato esteso:“Indagine fatta con metodi e procedimenti arbitrari o crudel”(2006). Il Devoto-Oli (2004) alla voce “Inquisizione” spiega:“Inchiesta speciale, svolta con una procedura arbitraria o ad ogni modo lesiva dei diritti, della libertà, della dignità dell’individuo”, e “L’organizzazione e la procedura ecclesiastica per la repressione dell’eresia: il tribunale dell’Inquisizione; ed “anche come simbolo di zelo ipocrita e spietato”. Sempre il Devoto-Oli, alla voce “inquisitorio” afferma:“del procedimento penale caratterizzato dalla concentrazione in un’unica persona delle funzioni di accusatore e di giudice, dalla segretezza e dalla scrittura degli atti: processo ispirato a criteri o atteggiamenti di sopraffazione nei rapporti con gli inferiori”. Le prime comunità cristiane conobbero subito divisioni al loro interno ma non vi sono indicazioni all’uso della forza per ricondurre all’osservanza delle dottrine condivise chi se ne fosse allontanato. Nel Vangelo di San Matteo 18,15-22 dopo la parabola della pecora smarrita, è scritto che “se tuo fratello ha peccato contro di te, va’ e convincilo fra te e lui solo. Se ti ascolta, avrai guadagnato tuo fratello; ma, se non ti ascolta, prendi con te ancora una o due persone, affinché ogni parola sia confermata per bocca di due o tre testimoni. Se rifiuta d’ascoltarli, dillo alla chiesa; e, se rifiuta d’ascoltare anche la chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano […] Allora Pietro, accostatosi, gli disse: Signore, se il mio fratello pecca contro di me, quante volte gli dovrò perdonare? Fino a sette volte? Gesù gli disse: Io non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”. Il Tamburini ne dedusse che “Gesù non approva la conversione delle pecore smarrite che con i mezzi della dolcezza ispirati dall’amore e dalla bontà. Che non si può scomunicare l’eretico che dopo tre correzioni e nelle indicate circostanze. Che l’ordine inquisitoriale delle denuncie avanti questo tempo è affatto opposto alla dolcezza di Gesù Cristo”. Anche Paolo di Tarso (Lettere ai Tessalonicesi) invita a non considerare nemico ma ad ammonire fraternamente chi non segua il suo insegnamento e nella lettera a Tito (3, 10) suggerisce di allontanare “dopo un primo e un secondo ammonimento, chiunque provochi scissioni”, mentre nella I Pietro (5, 2-3) esorta gli anziani a sorvegliare la comunità “non con la forza ma volentieri […] non tiranneggiando ma essendo modelli”. Nei primi anni del II Secolo, Ignazio, nella lettera agli Smirnesi (IV, 1) raccomanda di evitare gli eretici che chiama “belve in forma umana”, ma invita a pregare per loro affinché si ravvedano, mentre nell’Anno Domini 212 Tertulliano (Ad Scapulam, 11) scrive che “la libertà di professare la religione che si ama è fondata sui diritti della natura e delle genti, perché la religione privata di un individuo non è causa di bene o di male ad alcuno. La religione non ha interesse a violentare nessuno: il nostro assenso vuole essere volontario e non costretto con la forza”. Già l’Imperatore Costantino I era intervenuto negli affari della Chiesa esiliando con un proprio decreto i vescovi dichiarati eretici dal Concilio di Nicea. Questa situazione ebbe un ulteriore sviluppo nel 380 quando l’Imperatore Teodosio I, con l’editto di Tessalonica, convertì l’Impero Romano in uno stato confessionale, prevedendo pene per chi non professava la religione degli Apostoli. Negli anni immediatamente successivi altri editti imperiali aumentarono le pene a carico degli eretici, fino ad arrivare alla pena di morte. Nel 385 il vescovo spagnolo Priscilliano fu processato per eresia e ucciso su ordine dell’Imperatore Magno Massimo. Alcuni monaci parabolani di Alessandria d’Egitto massacrarono la filosofa pagana Ipazia nel marzo 415. Nell’Alto Medioevo, oggetto di romanzi e kolossal horror-fantasy sempre sul tema templare e inquisitoriale, si intensificarono in Italia le persecuzioni a carattere religioso contro gli Ebrei con le famose “cacciate” e il relativo sequestro dei beni. Alcuni storici, prendendo spunto da questo fatto, hanno sostenuto che, in fondo, l’atteggiamento del potere politico nei confronti delle eresie fu sempre uguale, sia durante l’Impero Romano d’Oriente che nel Medioevo: occuparsene poco o niente fin quando il dissenso ideologico non si trasformava in dissenso politico. Nei primi dieci secoli dell’era cristiana si era dunque stabilizzata una distinzione dei ruoli fra giurisdizione ecclesiastica (la Chiesa con i suoi vescovi definiva l’ortodossia, giudicava gli eretici e poteva comminare pene di tipo spirituale fino alla scomunica) e giurisdizione civile (che giudicava gli eretici in quanto ritenuti nemici dello Stato e comminava pene corporali, fino alla morte). Dopo secoli di sostanziale compattezza, sul finire del XII secolo la Cristianità fu attraversata dai segnali di un profondo cambiamento. L’Alto Medioevo era finito. Le città e i grandi centri della vita dell’Impero romano riprendevano a popolarsi, a divenire snodi fondamentali per l’economia e la visione del mondo. Grazie alla Chiesa nelle città d’Europa del Basso Medioevo nacquero le prime Università. I tradizionali centri di potere cominciarono a sentirsi minacciati. Per centinaia di anni la vita dell’uomo si era svolta nelle campagne e la società si era data una struttura ben precisa costituita da tre ordini ben distinti: sacerdoti, combattenti, lavoratori manuali (oratores, bellatores, laboratores). Ora, invece, la tradizionale organizzazione del tempo e del lavoro entrava in crisi, il centro della vita si spostava e i rapporti di potere tradizionali erano compromessi da una classe emergente: la borghesia. Non fu un caso se le prime eresie, contro cui si scateneranno le persecuzioni politico-religiose, furono tutte eresie cittadine. Il movimento dei catari, nato in Francia meridionale, si diffuse rapidamente nelle vicine Fiandre e Lombardia. I catari credevano che il mondo fosse dominato dal male contrapposto al bene di Dio: rifiutavano perciò ogni rito che utilizzasse i prodotti del mondo e ogni cibo che fosse generato da un atto sessuale, oltre che negare l’Incarnazione di Cristo. I catari suddividevano la loro comunità in “perfetti” che vivevano ripudiando i beni materiali e in semplici “credenti” che non potevano pregare ma solo affidarsi a un percorso di iniziazione. La loro gerarchia era composta da diaconi, presbiteri e vescovi. Nel 1173 Pietro Valdo, un ricco mercante, da cui ebbe origine il movimento dei valdesi, aveva cominciato la sua attività di predicatore in un piccolo centro urbano come Lione. Il movimento predicava le sue dottrine, non prive di elementi teorici di conflitto con la Chiesa ma basate su una lettura non culturalmente preparata delle Scritture. La predicazione di Valdo ebbe un successo straordinario. Comunità valdesi nacquero presto in Germania, Spagna, Provenza, Italia, anch’esse organizzate secondo la distinzione tra “perfetti” e “amici”, e secondo i tre gradi dell’ordine. Al di là delle differenze sul piano dottrinale, questi movimenti erano accomunati da un identico tentativo di vivere in comunità animate da uno spirito di fratellanza che credevano di rintracciare nel Cristianesimo delle origini. Proprio in virtù di tale spirito egualitario, tuttavia, inevitabilmente si ponevano in aperto contrasto con la gerarchica struttura sociale che la società medievale si era data. Nel 1208, il re di Francia scatenò una guerra contro i catari (o Albigesi). La crociata albigese avvenne in due fasi: dal 1209 al 1215 (crociata dei baroni) e dal 1215 al 1225, dopo che ci furono nuove rivolte, intervenne direttamente il re. I perseguitati vennero giustiziati in maniera sommaria e i loro beni furono confiscati dal regno di Francia come poi accadrà ai Templari. L’inquisizione entrò in campo solo dal 1223. Le prime misure inquisitoriali erano state approvate nel 1179 dal Concilio Lateranense III. Fra esse, in particolare, il dettato del canone 27 legittimava la scomunica e l’avvio di crociate contro gli eretici. Il procedimento inquisitorio fu formalizzato nella giurisdizione ecclesiastica da papa Lucio III nel 1184 con la bolla “Ad abolendam” che stabilì il principio, sconosciuto al Diritto Romano – che si potesse formulare un’accusa di eresia contro qualcuno e iniziare un processo a suo carico, anche in assenza di testimoni attendibili. La norma venne poi ribadita nel 1215 dal Concilio Lateranense IV che dava vita all’istituzione di “procedure d’ufficio”. Si poteva, cioè, istruire un processo sulla base di semplici sospetti o delazioni. Non solo: chiunque fosse venuto a conoscenza di una possibile eresia doveva immediatamente denunciare il fatto al più vicino tribunale dell’Inquisizione, altrimenti sarebbe stato considerato corresponsabile. Il termine “inquisizione” si trova documentato per la prima volta negli atti del Concilio di Tolosa tenutosi in Francia nel 1229. Per rispondere al dilagare di fenomeni ereticali e all’emorragia di fedeli la Chiesa cattolica reagì appoggiandosi ai movimenti mendicanti che pur richiamando a un più autentico Cristianesimo non si staccavano da Roma, cioè ai frati domenicani ed ai frati francescani; ed istituendo uno speciale Tribunale ecclesiastico che avesse il compito di individuare gli eretici e di ricondurli alla “vera” fede: l’Inquisizione. Nella storia di questo istituto gli storici distinguono tre fasi: l’Inquisizione medievale (dal 1179 o 1184 fino alla metà del XIV secolo): di questa era responsabile il papa che nominava direttamente gli inquisitori; l’Inquisizione spagnola (1478-1820) e l’Inquisizione portoghese (1536-1821): in questo caso gli inquisitori venivano nominati dai rispettivi sovrani. L’Inquisizione romana (o Sant’Uffizio) fondata nel 1542 ed a tutt’oggi esistente nell’attuale Congregazione per la Dottrina della Fede, rappresentò, secondo gli storici, una novità dato che durante il Medioevo il papa definiva semplicemente l’indirizzo politico generale e il quadro giuridico di riferimento, mentre ora a Roma veniva creato un Tribunale permanente direttamente presieduto dallo stesso pontefice. Studi recenti hanno rilevato come alcuni processi che in passato venivano ascritti all’operato dell’Inquisizione tout court (i processi della cosiddetta caccia alle streghe) furono in realtà celebrati da tribunali nati a seguito della riforma di Lutero, tanto che si parla anche di una Inquisizione protestante. Negli ultimi decenni alcuni studiosi hanno sostenuto l’esistenza di una Leggenda nera (dell’Inquisizione), cioè dell’idea di Inquisizione oggi diffusa nell’immaginario collettivo grazie all’arte, alla letteratura ed al cinema. Un’inquisizione che però non trova riscontro scientifico nella documentazione storica e che pare sia stata inventata ad arte, dalla stampa protestante prima e anticlericale poi, a partire dal XVI Secolo. Dunque, l’Inquisizione medievale si divide in due fasi, vescovile e legantina. La prima prevedeva che i singoli vescovi cercassero gli eretici e li sottoponessero a processo, culminante in una scomunica; vi sono però casi di uccisione da parte di forze civili contro i movimenti ereticali, visti anche come forza sovversiva. Nella seconda fase, il papa nominava degli inquisitori permanenti con poteri superiori al vescovo; contemporaneamente l’Imperatore Federico II (non la Chiesa) istituì la pena del rogo. Nel 1252, a causa di numerose uccisioni di inquisitori da parte di eretici, venne consentito l’uso della tortura (fino ad allora praticata solo nei processi secolari) comunque nella maggior parte dei casi trascurata; due anni dopo vennero istituite delle giurie popolari che dovevano affiancarsi all’inquisitore. L’Inquisizione comminava solo pene spirituali, ma spesso a seguito di processi inquisitori veniva applicata la pena di morte da parte del potere secolare. Se fino a quel momento la Chiesa si era limitata a definire quali proposizioni teologiche fossero eretiche e, al massimo, procedere alla scomunica, adesso si faceva carico ai vescovi di ricercare (inquisire) esplicitamente gli eretici e processarli. In secondo luogo, se fino a quel momento la Chiesa era stata fortemente critica nei confronti delle punizioni corporali (la fede doveva essere persuasa non costretta) ora, invece, si auspicava che le legislazioni civili prevedessero pene per gli eretici e si chiedevano provvedimenti contro i catari. Nel 1209 si scatenò una vera e propria persecuzione nel sud della Francia contro l’eresia catara (crociata contro gli Albigesi). Pare che in un solo anno furono uccise 20mila persone. Nel 1231 papa Gregorio IX, con la bolla “Excommunicamus” affidò il compito dell’Inquisizione a dei giudici nominati e inviati da lui stesso che avevano, tra l’altro, il potere di deporre il vescovo qualora riscontrassero inefficienze nel suo operato. Il ruolo di giudice inquisitore così sottratto ai vescovi fu affidato, in un primo momento, a monaci cistercensi e poi a frati domenicani e francescani. Rivestì, ad ogni modo, un ruolo primario l’intervento imperiale, soprattutto con Federico II: l’eresia fu considerata reato di lesa maestà in quanto sulla religione cattolica si fondava l’Impero. Qui c’è un’altra leggenda da sfatare. La predominante scelta iniziale a favore dell’Ordine dei frati predicatori domenicani, da poco fondato dallo spagnolo Domenico di Guzmán, era dovuta sia alla loro preparazione teologica (domenicano fu Tommaso d’Aquino, il maggiore esponente della filosofia medievale) sia perché l’Ordine domenicano aveva fin dall’inizio avuto una dimensione europea: i frati predicatori, inoltre, a differenza dei vecchi ordini monastici, in quanto mendicanti, agivano soprattutto nelle città dove gli eretici svolgevano la loro opera. Le funzioni inquisitoriali furono attribuite anche ai più dotti frati francescani. La bolla “Ad extirpanda” emessa il 15 maggio 1252 ad opera di papa Innocenzo IV, diede per la prima volta all’inquisitore la possibilità di avvalersi di un vero e proprio corpo di polizia e con la sua promulgazione lasciò all’inquisitore libera competenza e territorialità, nonché la scelta degli strumenti a disposizione per estorcere la confessione eretica, fra cui la tortura. L’inquisizione medievale si concluse intorno alla metà del Trecento ed operò soprattutto nel sud della Francia e nel nord Italia, cioè nelle due aree dove erano maggiormente presenti catari e valdesi. In Spagna fu presente nel regno di Aragona, ma non nel regno di Castiglia. Nel resto d’Europa non sembra abbia avuto una particolare efficacia, anche se si estese alla Germania, dove sarà fatta propria dai riformisti di Lutero, e in Scandinavia. L’Inquisizione spagnola venne istituita in Spagna nel 1478 con una bolla di papa Sisto IV, su sollecitazione di Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia. A differenza dell’inquisizione medievale, ora gli Inquisitori dipendevano dalla corona spagnola e non dal Papa. Loro compito principale, inizialmente, fu occuparsi degli Ebrei convertiti al Cristianesimo, i cosiddetti “conversos”(convertiti) o marrani. Dalla penisola iberica i tribunali dell’Inquisizione passarono ai possedimenti spagnoli nel mondo (Sicilia, Sardegna e poi Messico, Lima, Cartagena des Indias). Dato che gli Inquisitori potevano agire in tutti i territori dell’Impero spagnolo, mentre i giudici ordinari dipendevano dai singoli stati e non potevano valicarli, i re spagnoli col tempo trasformarono la burocrazia dell’Inquisizione in una speciale polizia segreta internazionale col compito di prevenire possibili colpi di stato. In questa Inquisizione gli storici distinguono quattro epoche. La nascita (1478-1530) e il periodo di intensa attività con pene severe; l’obiettivo principale erano i conversos (gli ebrei convertiti), gli eretici e i focolai protestanti dell’Università di Alcalá de Henares e di Siviglia. La decadenza (1530-1640) con una recrudescenza sotto il regno di Filippo II, fu un periodo caratterizzato da una notevole diminuzione del numero di processi; obiettivo principale furono i nuovi convertiti al Cristianesimo e la censura dei libri; agli inquisitori fu anche chiesto di sorvegliare l’attività degli stranieri sospettati di crimini ideologici. La rinascita (1640-1660): le fonti testimoniano un aumento del numero di processi. La dissoluzione (1668-1820): in quest’ultimo periodo il tribunale si limitò a coartare la libertà di espressione e a impedire la propagazione di idee ritenute eccessivamente progressiste. Nel 1820 fu abolita definitivamente, anche se qualche episodio continuò nei territori dominati dai carlisti. Dopo il 1834 non si hanno più notizie di processi inquisitori ali spagnoli. L’Inquisizione portoghese, nata nel 1536 su richiesta del re Giovanni III, nei primi tre anni di attività rimase sotto il controllo del papa, ma nel 1539 il re nominò inquisitore maggiore suo fratello don Henrique e infine, nel 1547, il papa accettò ufficialmente che l’Inquisizione dipendesse dalla corona come accadeva in Spagna. Nel 1560 inquisitori portoghesi giunsero nella città indiana di Goa e nella restante parte dei possedimenti portoghesi in Asia. Obiettivo primario di questa Inquisizione asiatica erano i convertiti al Cristianesimo dall’Induismo. L’Inquisizione portoghese fu abolita dalle Corti Generali nel 1821. La Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione o Sant’Uffizio fu creata nel 1542 da papa Paolo III con la bolla “Licet ab initio”. Era un collegio permanente di cardinali e prelati dipendente direttamente dal papa: il suo compito esplicito era mantenere e difendere l’integrità della fede, esaminare e proscrivere gli errori e le false dottrine. A questo scopo fu anche creato l’Indice dei libri proibiti. Il potere degli inquisitori romani raggiungeva tutta la Chiesa cattolica, ma la sua concreta attività, fatta eccezione per alcuni casi (come quello del cardinale inglese Reginald Pole), si restrinse quasi solo all’Italia. Tra gli stati italiani, la Repubblica di Lucca si oppose sempre alla penetrazione sul suo territorio dell’Inquisizione Romana. Questo fatto non impedì la persecuzione di streghe, ebrei e protestanti, che fu però condotta da magistrati statali, come in altri stati europei, portando comunque, senza spargimento di sangue, all’emigrazione forzata dei principali esponenti della fede riformata. Tra i processi famosi celebrati dal tribunale dell’Inquisizione si ricordano quello a carico di Giordano Bruno e Galileo Galilei. Dei tribunali nati a partire dal Medioevo, è l’unico ancora oggi esistente. La caduta dello Stato pontificio, con l’Unità d’Italia e la fine del potere temporale della Chiesa, privò l’Inquisizione delle funzioni repressive prima delegate al braccio secolare, riducendola ad un Ufficio puramente censorio, attento soprattutto a vietare la circolazione di prodotti culturali che la Chiesa considera contrari alla teologia e all’etica cattolica. La “Romana e Universale Inquisizione” fu rinominata in “Sacra Congregazione del Sant’Uffizio” il 29 giugno 1908 da papa Pio X. Il 7 dicembre 1965 papa Paolo VI ne cambiò il nome in “Congregazione per la dottrina della fede” ridefinendone i compiti. Papa Giovanni Paolo II, che in un documento dell’8 marzo 2000 ha chiesto perdono a nome della Chiesa per i peccati dei suoi appartenenti anche riguardo all’Inquisizione, ne ha ridefinito i compiti (promuovere e tutelare la dottrina della fede e dei costumi cattolici) ponendovi a capo nel 1981 Joseph Alois Ratzinger, in seguito eletto Romano Pontefice Regnante con il nome di Benedetto XVI. Parlando di Inquisizione, si fa spesso riferimento a vicende che hanno calamitato e continuano a calamitare l’attenzione dell’opinione pubblica, della letteratura, dell’arte e del cinema, non sempre con grande successo. Decisamente un capitolo a parte nella storia del tribunale dell’Inquisizione è rappresentato dalla cosiddetta “caccia alle streghe”. L’Inquisizione era nata non per accatastare fascine per i roghi bensì per riportare gli eretici nel solco della “vera fede” e fu solo con papa Giovanni XXII (1316-1334) che la competenza degli inquisitori venne estesa alle persone sospettate di compiere atti di stregoneria. Due inquisitori domenicani, inviati di papa Innocenzo VIII in Germania, Heinrich “Institor” Kramer e Jacob Sprenger per venire incontro alle richieste dei loro colleghi approntarono un manuale che conteneva tutte le informazioni utili per riconoscere, interrogare e punire streghe e stregoni. L’opera, pubblicata a Strasburgo nell’inverno tra il 1486 e il 1487, aveva un titolo altisonante e significativo,“Malleus Maleficarum”(Il martello delle malefiche). Fu un vero bestseller medievale ristampato per ben 34 volte fino al 1669, arrivando a una tiratura, per quei tempi assolutamente eccezionale, di 35mila copie. Molti studiosi hanno affrontato l’argomento nel tentativo di determinare delle stime accettabili e condivise sul numero delle vittime della caccia alle “streghe” durante i due secoli in cui sia i tribunali dell’Inquisizione sia quelli della Riforma protestante le condussero al rogo. Le cifre che si ipotizzano in ordine alle vittime della persecuzione vanno considerate come approssimativi ordini di grandezza e spesso sono oggettivamente influenzate dalle opinioni e dalle collocazioni culturali degli autori che le hanno determinate: le ipotesi minime parlano di circa 110mila processi e 60mila esecuzioni, mentre a risultati notevolmente inferiori si collocano altri autori. Per misurare l’incidenza del numero delle vittime bisognerebbe poi raffrontarla con la popolazione europea di quei tempi. Le vittime furono per l’80 per cento donne. Dopo anni di osservazioni e studi Galilei credette di avere trovato la prova inconfutabile della Teoria copernicana e su di essa imperniò la sua opera più nota: Dialogo sopra i Massimi Sistemi. Fu papa Urbano VIII, di idee moderne e suo amico che, appena eletto al soglio pontificio l’aveva voluto ospite a Roma per discutere di astronomia, che propose di modificare il titolo dell’opera in “Dialogo sopra i due massimi sistemi” così da far capire al pubblico come quella copernicana fosse solo una mera ipotesi. L’opera ricevette l’imprimatur nel 1630 in seguito alle accettate richieste di modifica. Questa monumentale creazione dell’ingegno di Galilei segnò però la rottura con la Chiesa di Roma: infatti il 28 settembre 1632 il Sant’Uffizio emise la citazione di comparizione di Galilei. Lo scienziato sostenne insistentemente di aver voluto confutare, non avallare, la Teoria copernicana. L’evidente menzogna rafforzò l’ala intransigente del Sant’Uffizio che attribuì a Galilei una serie di colpe. Il processo si concluse il 22 giugno 1633 quando Galilei abiurò le sue concezioni astronomiche davanti ai suoi giudici che in numero di sette su dieci condannarono la Teoria copernicana, senza però definirla formalmente eretica. Dal testo ufficiale della sentenza di condanna contro Galileo Galilei si legge che, in quanto riconosciuto colpevole di eresia, potrà essere assolto dal sant’Uffizio “pur che prima, con cuor sincero e fede non finta, avanti di noi abiuri, maledichi e detesti li sudetti errori e eresie, e qualunque altro errore e eresia contraria alla Cattolica e Apostolica Chiesa, nel modo e forma da noi ti sarà data. E acciocché questo tuo grave e pernicioso errore e transgressione non resti del tutto impunito, e sii più cauto nell’avvenire e essempio all’altri che si astenghino da simili delitti. Ordiniamo che per publico editto sia proibito il libro de’ Dialoghi di Galileo Galilei. Ti condaniamo al carcere formale in questo S.o Off.o ad arbitrio nostro; e per penitenze salutari t’imponiamo che per tre anni a venire dichi una volta la settimana li sette Salmi penitenziali: riservando a noi facoltà di moderare, mutare o levar in tutto o parte, le sodette pene e penitenze”. C’è poi il caso mediatico sollevato dalla Leggenda nera dell’Inquisizione, la teoria sviluppata a partire dai lavori di due storici (Edward Peters 1988 e Henry Kamen 1997) secondo la quale sarebbe stata operata una distorsione dei dati storici sull’Inquisizione ad opera di ambienti protestanti e illuministi, a partire almeno dal XVI secolo, con l’obiettivo di screditare nel mondo l’immagine della Chiesa cattolica e dell’Impero spagnolo. La questione è dibattuta dagli storici. Alcuni affermano che la realtà dell’Inquisizione sia stata molto meno violenta e crudele di quanto generalmente si reputa, altri che, al contrario, i dati storici dimostrino l’opposto. Questa seconda corrente storiografica sostiene che la storia consolidata dell’Inquisizione sia stata scritta con imparzialità e senza scopi ideologici, mentre i primi tendono a ridimensionare l’aspetto negativo che l’istituzione ha avuto. I temi sui quali si è appuntata la ricerca degli storici moderni sono quattro: il significato comune attribuito al termine Inquisizione; l’inclusione, nella storia dell’Inquisizione, di episodi particolarmente violenti come la caccia alle streghe; il clamore suscitato da processi molto noti; la confusione dei dati a proposito della presunta violenza indiscrimanata usata dall’Inquisizione spagnola. I sostenitori dell’esistenza della Leggenda nera affermano che nel linguaggio comune nelle diverse lingue e nazioni il termine Inquisizione e i suoi derivati stanno a indicare procedure sommarie, disprezzo dei diritti dell’imputato, violenza arbitraria da parte dei giudici, uso indiscriminato delle torture, facilità di giungere a condanna a morte. Questi elementi, tuttavia, già a partire dall’Inquisizione medievale, andrebbero rivisti alla luce della documentazione storica, stando alla quale i tribunali inquisitoriali funzionavano come tutti i tribunali dell’epoca, fornendo addirittura varie garanzie in più. Gli studiosi rilevano che fu proprio nei tribunali dell’Inquisizione che venne introdotto l’uso di trascrivere il processo per ragioni di trasparenza, e l’uso delle giurie popolari a garanzia dell’imputato; che anche quando venne introdotto l’uso della tortura nell’Inquisizione lo si fece a condizioni che non erano previste nei tribunali del tempo (ossia senza mutilazioni permanenti né pericolo di vita) e che le condanne a morte comminate dai tribunali inquisitoriali, sarebbero percentualmente basse. A Tolosa, ad esempio, durante i 50 anni di attività di Bernardo Gui, si attestarono sul 4,6 % rispetto al totale delle condanne (42 su 900). Anche se i dati dovessero essere modificati al rialzo, rimanendo però uguali le proporzioni tra le aree geografiche, se ne dedurrebbe che il fenomeno della caccia alle streghe fu più marcato nei paesi di area protestante (Germania e Nord Europa) risultando invece più limitato proprio nei paesi dov’era presente l’Inquisizione cattolica. Fatto evidentemente del tutto sconosciuto alla cinematografia europea. I sostenitori delle teorie revisioniste sottolineano che la storiografia protestante per secoli ha parlato del fenomeno senza però mai evidenziare le aree geografiche e culturali in cui esso avvenne, imputando quindi alla Chiesa cattolica anche i processi e le esecuzioni effettuate da tribunali statali e protestanti. Inoltre nei paesi extraeuropei in cui l’Inquisizione fu presente (colonie spagnole in America centrale e meridionale e colonie portoghesi in Asia) non si avrebbe notizia di casi di caccia alle streghe, mentre negli Stati Uniti conquistati dagli anglosassoni protestanti, ancora nel 1692, si registrò il famoso rogo delle streghe di Salem. Da qui la nascita della nozione di “Inquisizione protestante” alla quale, secondo alcuni storici, andrebbero ascritti tutti i processi (compresi quelli della caccia alle streghe) celebrati dai tribunali nati dalla riforma di Lutero, che dovrebbero dunque essere separati, nella ricerca storica, da quelli avvenuti all’interno dell’Inquisizione cattolica. Giordano Bruno e Galileo Galilei sono descritti generalmente come martiri del libero pensiero, in un momento storico in cui la Chiesa cattolica era molto attenta a verificare scrupolosamente le conquiste della scienza per ragioni di “sicurezza” culturale, spirituale e nazionale. La vicenda dello scienziato cattolico i Galilei, in particolare, sarebbe stata piuttosto la prova dell’attenzione che la Chiesa riservava alla scienza. E la sua “condanna” non avrebbe causato un tracollo della ricerca scientifica in tutti i paesi cattolici, a vantaggio dei paesi protestanti, come altre leggende ideologiche continuano ancora oggi a sostenere. Secondo i promulgatori della Teoria della leggenda nera, proprio Galileo avrebbe ricevuto dal Sant’Uffizio un trattamento benevolo, sottolineando come la teoria di Niccolò Copernico, riproposta dallo scienziato pisano, fosse stata prematuramente rifiutata in alcuni paesi protestanti già prima del manifestarsi del caso Galileo Galilei. La Chiesa non contestò tanto a Galilei la correttezza della teoria copernicana quanto piuttosto che il copernicanesimo sostenuto da Galilei non era ancora stato dimostrato efficacemente secondo il metodo scientifico. La storiografia consolidata ritiene anomalo il processo a Giordano Bruno che, in pieno periodo di repressione controriformista, fu consegnato dalla Repubblica di Venezia dove si era rifugiato in seguito alle richieste insistenti e minacciose della Chiesa. L’Inquisizione veneta non era così rigida e dura come quella di Roma. Il filosofo Bruno, non più domenicano, avrebbe potuto anche sfuggire alle punizioni e al giudizio della Chiesa. Secondo i sostenitori della Leggenda nera, la Repubblica di Venezia ebbe tutto l’interesse di appoggiare Roma e spingerla a condannare il filosofo che, avendo contatti con i governanti d’Europa, anche in faccende importanti e delicate, si era affermato nell’immaginario collettivo dell’epoca come un libero intrigante sovvertitore del pensiero dominante. L’espulsione degli Ebrei Sefarditi dalla Spagna è descritta dalla storiografia tradizionale come un esempio dell’intolleranza religiosa degli Spagnoli cristiani accecati dal furore dell’Inquisizione o come un astuto provvedimento di natura economica sostenuto dai tribunali dell’Inquisizione. I fautori della teoria revisionistica della Leggenda nera sostengono, invece, che nel 1492 effettivamente furono espulsi dalla Spagna circa 200mila Ebrei, la cifra più alta di sempre per quell’epoca storica, ma la Spagna contava la comunità ebraica più numerosa d’Europa e questo proprio perché era stato, fino a quel momento, un paese estremamente tollerante. Analoghi provvedimenti anti-giudaici furono emanati prima che in Spagna in cui ripararono gli Ebrei espulsi da altri paesi, sempre per appropriarsi dei beni degli espulsi anche da nazioni come Francia e Inghilterra. sempre secondo i revisionisti, l’Inquisizione niente ebbe a che vedere con gli Ebrei, i quali erano formalmente esclusi dalla giurisdizione ecclesiastica che si limitava ai battezzati, ma solo con i “conversos”, cioè gli Ebrei che avevano deciso di convertirsi al cattolicesimo per rimanere in Spagna. In questo caso gli storici protestanti avrebbero taciuto l’ambito giurisdizionale dell’Inquisizione, modificando il giudizio su di essa. Kamen sostiene che sebbene molte opere pittoriche rappresentino autodafé in cui il condannato subiva torture, in realtà ciò era dovuto alla volontà dei pittori di colpire l’emotività del pubblico. Secondo lo studioso britannico, gli autodafé erano una sorta di processioni religiose in cui la tortura era espressamente vietata perché il processo era ormai concluso. Anche le esecuzioni capitali non erano eseguite durante la cerimonia ma dopo la sua conclusione e separatamente. Peters, d’altro canto, sostiene come non spetti all’Inquisizione spagnola il primato e l’esclusività del controllo sui costumi. Ciò avveniva in tutte le corti d’Europa con metodi pressoché uguali quando non più violenti perché la religione, in tutta Europa, era considerata una struttura portante della società. La storiografia tradizionale afferma che l’Inquisizione sarebbe stata culturalmente corresponsabile nella distruzione delle culture amerinde e nel loro genocidio. Gli spagnoli, dipinti da essa come oscurantisti, non avrebbero considerato gli elementari diritti umani delle popolazioni conquistate. L’archetipo dell’indio innocente e puro, così come pervenutoci dal coraggioso frate domenicano Bartolomeo de Las Casas che denunciò apertamente tali crimini, era quello di una persona mite e pacifica, vittima dei colonizzatori europei. La cultura spagnola fu divisa tra la posizione di Las Casas e quella di Sepùlveda, sostenitore della naturale inferiorità delle popolazioni amerinde. Le due posizioni furono discusse dalla Giunta di Valladolid. Gli storici revisionisti sostengono, invece, che nel XVI secolo la nozione di “diritti umani” non esisteva affatto in nessuna cultura del mondo e che se ne cominciò a parlare all’Università di Salamanca, la più antica di Spagna, proprio a partire dal caso dei nativi americani. A quanto pare quindi tale nozione nacque proprio in ambito spagnolo (Francisco de Vitoria). Sostengono inoltre che le truppe di Cortés, cui è stato attribuito lo sterminio degli Aztechi, sarebbero state costituite per più della metà da mercenari indigeni che combattevano contro i dominatori Aztechi. Eventuali massacri verrebbero giustificati dal fatto che gli Aztechi in realtà erano popolazioni cruente dal momento che praticavano sacrifici umani e il cannibalismo rituale. Gli storici revisionisti propongono poi di confrontare l’atteggiamento tenuto dai conquistadores spagnoli e portoghesi con quello di inglesi e francesi, facendo notare che nei paesi colonizzati da spagnoli e portoghesi, i conquistatori si sono fusi con le popolazioni locali dando vita a gruppi meticci, a differenza di quelli conquistati da altri stati colonizzatori, ad esempio Stati Uniti e Australia dove il numero di meticci è di entità molto meno rilevante in quanto difficilmente i conquistatori erano favorevoli ad unirsi con i popoli conquistati. Inoltre nelle colonie spagnole indigeni e neri potevano avere un ruolo attivo nella Chiesa divenendo chierici. Per evangelizzare le popolazioni indios, in America latina, vennero utilizzate anche alcune lingue native. Sarebbe questo fatto, secondo i revisionisti, a salvarle dalla scomparsa, tanto che il Quechua e l’Aymara in Bolivia e in Perù (in quest’ultimo Paese solo localmente dove sono predominanti) così come il Guaranì in Paraguay, sono oggi lingue ufficiali insieme alla lingua dei conquistatori; mentre nei Paesi colonizzati da inglesi e francesi le lingue native non sono divenute ufficiali. Unica eccezione è costituita dalla Nuova Zelanda con la lingua Maori. La Spagna, sostengono infine i teorici revisionisti, su indicazione della Chiesa di Roma, sarebbe stata sostanzialmente estranea alla tratta degli schiavi neri e fu la prima potenza coloniale europea ad emanare leggi a protezione dei nativi nelle colonie americane, nel 1542 con le Leggi delle Indie (Leyes de Indias). Anche se, ancora a metà del secolo XIX, la Spagna manteneva un suo interesse economico nella tratta degli schiavi, arrivando a richiedere ripetutamente un indennizzo al governo degli Stati Uniti per il danno economico ricevuto a seguito della liberazione degli africani catturati e ribellatisi durante il loro trasporto verso Cuba sulla nave Amistad. La presenza dell’Inquisizione in Spagna non avrebbe poi affatto condizionato il progresso culturale della Spagna, basti pensare al fatto che il 1600 fu un secolo d’oro per la nazione iberica in tutte le espressioni umanistiche. Il 6 novembre 1994, la BBC trasmise un documentario dal titolo “The Myth of the Spanish Inquisition”(Il Mito dell’Inquisizione spagnola). Il documentario si diceva basato su anni di studio degli archivi e rivelava che l’Inquisizione spagnola, ritenuta la più crudele e violenta, doveva in realtà la sua immagine alla letteratura protestante, volta a denigrare la maggiore potenza imperialistica del tempo, proprio mentre erano in ascesa potenze a forte vocazione coloniale come l’Olanda e l’Inghilterra. Il film mostrava come ciascun processo inquisitoriale fosse stato meticolosamente registrato e come i tribunali avessero regole procedurali precise, contrariamente all’idea ricorrente di Inquisizione come sinonimo di processi sommari e in assenza di garanzie per l’imputato. Nel corso del programma il professor Henry Kamen dichiarò come i registri dell’Inquisizione fossero estremamente dettagliati e fornissero una visione diversa da quella cristallizzata nella mente degli storici e dei cittadini. Nel 1999 il professor Kamen scrisse il volume “The Spanish Inquisition: A Historical Revision”(L’Inquisizione spagnola: Una revisione storica), una revisione dei suoi lavori condotti a partire dal 1966, alla luce delle nuove scoperte. Fra gli storici “conservatori” dell’Inquisizione possiamo trovare: Italo Mereu, Giuseppe Pitrè, Leonardo Sciascia, Karlheinz Deschner, Guy Bechtel ed Adriano Prosperi. Quattro sono le principali argomentazioni con cui viene avversata la teoria revisionista. Anche se fosse provato, come sostengono gli storici revisionisti, che i processi inquisitoriali siano sempre avvenuti nel rispetto della legalità, il fatto che l’Inquisizione abbia seguito una procedura legale con garanzie per l’imputato, non giustifica il fatto che quella Chiesa che pretende di essere la seguace di Gesù Cristo abbia legalmente permesso la tortura e la condanna a morte di persone. Esiste una tendenza della storiografia moderna chiamata “storiografia quantitativa”. Questa è oggi possibile grazie all’accesso diretto ad abbondanti fonti storiche che si suppongono ben documentate. In base ai suoi principi, per capire un determinato periodo storico è necessario, oltre ad una piena conoscenza della società del tempo, stilare delle statistiche con delle percentuali affidabili. Il problema è come si calcolano le statistiche. I fautori della teoria revisionista, secondo i loro critici, prenderebbero i periodi in cui è oggettivamente più basso il numero di processi inquisitoriali o quello dei condannati a morte o quello dei torturati. Se, ad esempio, si prendesse come riferimento l’attività dell’Inquisizione spagnola fra il 1540 e il 1600 (periodo di decadenza) se ne avrebbe un’immagine certamente benigna, mentre se si guardano gli anni dal 1478 al 1530, allora l’immagine è assolutamente diversa. Tuttavia l’argomento sulle percentuali non sarebbe per i critici molto significativo. Infatti dire che nel 1500 ci fu l’un per cento di condannati a morte non significa che in quell’unico anno non si sarebbero verificati episodi di crudeltà inaudita direttamente o indirettamente collegabili con l’Inquisizione. Lo stesso dicasi dell’Inquisizione medievale. Il paragone tra la colonizzazione spagnola e quella anglosassone non toglie il fatto che i Conquistadores si lasciarono andare a massacri indiscriminati. Anche supponendo che nei paesi in cui era presente l’Inquisizione cattolica la caccia alle streghe abbia avuto dimensioni più contenute, ciò non significa che non possano esserci state persecuzioni altrettanto crudeli. Nei Paesi Bassi (protestante) si perseguitavano le streghe ma non gli omosessuali; in Italia si sarebbero perseguitati gli omosessuali ma non gli Ebrei; in Spagna si perseguitavano gli Ebrei (quelli “falsamente” convertiti) ma non le streghe. Ogni paese avrebbe quindi avuto le sue vittime. A loro beneficio, bisogna comunque dire che i sostenitori della teoria della Leggenda nera non giustificano affatto le azioni compiute dagli inquisitori, pur ridimensionandone spesso la misura e chiarendone il contesto storico generale. In effetti, per quanto se ne dica, le condanne dell’Inquisizione spagnola, introdotta poi nel resto d’Europa con la dicitura “Inquisizione ad uso di Spagna”,erano esemplari. Per i casi di eresia dopo una pubblica abiura e comunque l’umiliazione pubblica del processato, non si procedeva alla condanna a morte ma, in seconda istanza, alla confisca di tutti i beni. Inoltre il paragone con i processi moderni non regge in quanto l’accusato non aveva affatto diritto ad un proprio difensore legale e l’accuratezza con cui si procedeva alle registrazioni era dovuta più al fine di ricavare nomi e ulteriori capi di imputazione che ad offrire un processo equo. Esemplare è il caso letterario del secolo scorso, “Il nome della rosa”, il romanzo scritto da Umberto Eco, edito per la prima volta nel 1980. Dopo aver scritto moltissimi saggi, Eco decise di scrivere il suo primo romanzo, dopo alcuni anni di meticolosa preparazione, cimentandosi nel genere del giallo dedittivo. L’opera è ambientata nel Medioevo e viene presentata come il manoscritto di un anziano monaco che ha trascritto un’avventura vissuta da novizio, molti decenni prima, in compagnia del suo maestro in un monastero benedettino dell’Italia settentrionale, del cui nome nulla sappiamo perché è saggio e conveniente celare la memoria. La narrazione, suddivisa in sette giornate, scandite dai ritmi della vita monastica, vede protagonisti Guglielmo da Baskerville, frate francescano già inquisitore, e il novizio Adso da Melk, il narratore della storia. Nel 1981 il romanzo vinse il Premio Strega. Dal romanzo è stato tratto nel 1986 un il celebre film omonimo per la regia di Jean-Jacques Annaud. “Il 16 agosto 1968 mi fu messo tra le mani un libro dovuto alla penna di tale abate Vallet, Le manuscript de Dom Adson de Melk, traduit en francais d’après l’édition de Dom J. Mabillon (Aux Presses de l’Abbaye de la Source, Paris, 1842)” – scrive Umberto Eco nell’incipit de Il nome della rosa. Nel prologo, l’autore racconta di aver letto durante un soggiorno all’estero il manoscritto di un monaco benedettino riguardante una misteriosa vicenda svoltasi in età medievale in un’abbazia dell’Italia settentrionale. Rapito dalla lettura, egli inizia a quel punto a tradurlo su qualche quaderno di appunti prima di interrompere i rapporti con la persona che gli aveva messo il manoscritto tra le mani. Dopo aver ricostruito la ricerca bibliografica che lo portò a recuperare alcune conferme oltre alle parti di testo mancanti, l’autore passa quindi a narrare la vicenda di Adso de Melk. È la fine di novembre dell’Anno Domini 1327. Guglielmo da Baskerville, un frate inglese, e Adso da Melk, suo allievo, si recano in un monastero benedettino di regola cluniacense sperduto sui monti dell’Italia settentrionale. Questo monastero sarà sede di un delicato convegno che vedrà protagonisti i francescani, sostenitori delle tesi pauperistiche ed alleati dell’Imperatore Ludovico, e i delegati della curia papale, insediata a quei tempi ad Avignone. I due religiosi (Guglielmo è francescano e inquisitore pentito, il suo discepolo Adso è un novizio benedettino) si stanno recando in questo luogo perché Guglielmo è stato incaricato dall’Imperatore di partecipare al congresso quale sostenitore delle tesi pauperistiche. Allo stesso tempo l’abate, timoroso che l’arrivo della delegazione avignonese possa ridimensionare la propria giurisdizione sull’abbazia, preoccupato che l’inspiegabile morte del giovane confratello Adelmo durante una bufera di neve possa far saltare i lavori del convegno e far ricadere la colpa su di lui, confida nelle capacità inquisitorie di Guglielmo affinché faccia luce sul tragico omicidio, cui i monaci attribuiscono misteriose cause soprannaturali. Nel monastero circolano infatti numerose credenze circa la venuta dell’Anticristo. Nonostante la quasi totale libertà di movimento concessa all’ex inquisitore, altre morti violente si susseguono: quella di Venanzio, giovane monaco traduttore dal greco ed amico di Adelmo, e quella di Berengario, aiutante bibliotecario alle cui invereconde attenzioni aveva ceduto il giovane Adelmo. Anche altri monaci troveranno la morte nell’abbazia, mentre i delegati del papa disputano con i francescani delegati dall’Imperatore sul tema della povertà della Chiesa cattolica. Guglielmo scopre che le morti sono riconnesse a un manoscritto greco custodito gelosamente nella biblioteca, vanto del monastero, costruita come un intricato labirinto a cui hanno accesso solo il bibliotecario e il suo aiutante. Nel monastero sono presenti anche due ex appartenenti alla setta dei dolciniani: il cellario Remigio da Varagine e il suo amico Salvatore, che parla una strana lingua. Remigio intrattiene un commercio illecito con una povera fanciulla del luogo, che in cambio di favori personali riceve cibo dal cellario. Anche il giovane Adso fa la conoscenza della ragazza. La situazione è complicata dall’arrivo dell’inquisitore Bernardo Gui, che trova la fanciulla insieme a Salvatore e prende spunto dalla presenza di un gallo nero, che la ragazza affamata avrebbe voluto mangiare, per accusarli di essere cultori di riti satanici e responsabili delle misteriose morti. Dopo aver fatto confessare il povero Salvatore, che ammette il suo passato di dolciniano, Bernardo Gui processa e condanna fra’ Remigio, Salvatore e la fanciulla, dichiarandoli colpevoli delle morti avvenute nel monastero. In un’atmosfera inquietante, alternando lunghe digressioni storico-filosofiche, ragionamenti investigatori e scene d’azione, Guglielmo e Adso si avvicinano alla verità penetrando nel labirinto della biblioteca e scoprendo il luogo dove è custodito il manoscritto fatale: l’ultima copia rimasta del secondo libro della Poetica di Aristotele, che tratta della commedia e del riso. Alla fine, il venerabile Jorge, dopo la morte del bibliotecario Malachia, tenta di uccidere Guglielmo offrendogli il manoscritto dalle pagine avvelenate. Ma Guglielmo lo sfoglia con le mani protette da un guanto, ed allora il vecchio monaco, in un eccesso di fanatico fervore, divora le pagine avvelenate del testo in modo che più nessuno possa leggerle. Mentre Guglielmo e Adso tentano di fermarlo, Jorge provoca un incendio che nessuno riuscirà a domare e che inghiottirà nel fuoco l’intera abbazia. Adso e il suo maestro partiranno infine da quelle macerie, in cui il giovane tornerà anni dopo, trovando la solitudine più totale, in quello stesso luogo che era stato teatro di omicidi e intrighi, veleni e scoperte. I personaggi, anche quelli minori, si offrono ad una doppia lettura. Alcuni sono di fantasia, altri realmente esistiti ma alterati dalla narrazione. Fra’ Guglielmo, oltre ad un medievale Sherlock Holmes, ricorda in maniera palese il filosofo francescano inglese Guglielmo di Occam, maestro del metodo deduttivo del famoso “rasoio”. Peraltro nelle citazioni l’autore inventa una fittizia discendenza discepolare di fra’ Guglielmo da Ruggero Bacone, anch’egli filosofo d’Oltremanica tardo-medievale. Infine, il paese di provenienza di Guglielmo si richiama a Il mastino dei Baskerville di Conan Doyle, autore dello stesso Sherlock Holmes. Allo stesso modo Adso ricorda Watson, il non meno celebre aiutante di Holmes, ed entrambi sono narratori in prima persona dei fatti. Alcuni epiteti di Jorge da Burgos sono direttamente tratti dagli strali lanciati dal “doctor mellifluus” Bernardo di Chiaravalle contro l’origine diabolica del riso. Il personaggio appare una riuscita caricatura di Jorge Luis Borges: ciò non soltanto per la comune cecità e per l’evidente assonanza dei nomi, ma anche per la diretta discendenza borgesiana dell’immagine della biblioteca come specchio del mondo e persino della planimetria poligonale con cui la biblioteca dell’abbazia è disegnata. L’ex dolciniano Salvatore ed il suo grido “Penitenziagite!” con cui accoglie i pellegrini nell’abbazia, ci riporta alle lotte intestine della chiesa medievale, alle volte anche sanguinose, tra i vescovi cattolici e il movimento degli spirituali, portato avanti dai seguaci di fra’ Dolcino da Novara. La parola “Penitenziagite” è una contrazione della locuzione latina “Penitentiam agite” cioè “fate la Penitenza”, frase con cui, a detta di Bernardo Gui, il celebre inquisitore, nel suo trattato “Practica Inquisitionis Heretice Pravitatis”, i dolciniani ammonivano il popolo al loro passaggio. Tra una strage e l’altra contro i ricchi. Altri sono personaggi storicamente vissuti come il domenicano Bernardo Gui, Ubertino da Casale e Michele da Cesena, tutti primi attori della disputa francescana tra conventuali e spirituali del periodo del papato avignonese di papa Giovanni XXII e dell’Impero di Ludovico il Bavaro. La tecnica con cui vengono assassinati i monaci è chiaramente ispirata dalla leggenda sulla realizzazione del “Jin Ping Mei”, un romanzo della letteratura cinese del XVI secolo. Anche la fiaba intitolata “Il pescatore venerando e l’arcigno ginn” presente nella raccolta “Le mille e una notte” contiene la descrizione della stessa tecnica con cui i monaci venivano uccisi. Il nome di Remigio da Varagine, ex dolciniano, può essere ricondotto al frate domenicano, poi arcivescovo di Genova, Jacopo da Varagine, scrittore in latino, che deve la sua fama ad una raccolta di vite di santi, tra le quali spicca la “Legenda aurea”, una versione della leggenda della Vera Croce, ripresa anche da Piero della Francesca per il suo ciclo di affreschi in San Francesco ad Arezzo (Storie della Vera Croce). Edito per la prima volta in Italia da Bompiani nel 1980 e più volte ristampato, “Il nome della rosa” riscosse subito un notevole successo di critica e di pubblico (in primis nel mondo anglosassone e poi anche in Italia) inducendo la riscoperta del genere del romanzo storico, benché possa essergli attribuita la commistione di più generi narrativi: giallo, esoterico e filosofico. Il romanzo ha avuto anche grande successo internazionale perchè è stato tradotto in più di 40 lingue. Nel 2002 è stato oggetto di un curioso fenomeno, grazie al lancio di un’iniziativa editoriale del quotidiano “La Repubblica” che lo ha distribuito gratuitamente in oltre un milione di copie. Attribuire un genere letterario al romanzo di Eco è assai difficile: esso infatti è stato particolarmente apprezzato per la presenza di molteplici piani di lettura, che possono essere colti dal lettore a seconda della sua preparazione culturale. Pur presentandosi come un giallo o come un romanzo storico ad una lettura superficiale, il libro è in realtà costruito attraverso una fitta rete di citazioni tratte da numerose altre opere letterarie. Esemplare è in questo senso il sogno di Adso, brano costituito in una parte per collage da classici riferimenti alla storia della nascita della lingua volgare. Dunque è, in un certo senso, un libro fatto di altri libri. È costante il riferimento linguistico e semiologico. È anche presente, appena sotto la superficie, una forte componente esoterica, e di fondo la storia può essere vista come una riflessione filosofica sul senso e sul valore della Verità e della sua ricerca, da un punto di vista strettamente laico, tema del resto comune alle opere successive di Eco. Nel piano di lettura storico, presente nel romanzo, i personaggi e le forze che nella vicenda narrata si contrappongono rappresentano in realtà due epoche e due mentalità che in quel periodo storico si sono trovate a fronteggiarsi: da un lato il medioevo più antico, col suo fardello di dogmi, preconcetti e superstizioni, ma anche intriso di una profonda e mistica spiritualità; dall’altro lato il nuovo mondo che avanza, rappresentato da Guglielmo, con la sua sete di conoscenza, con la predisposizione a cercare una verità più certa e intelligibile attraverso la ricerca e l’indagine, carattere prettamente domenicano, anticipazione di un metodo scientifico che in Europa di lì a poco non tarderà ad affermarsi. L’autore usa un espediente narrativo e così il romanzo scritto da Umberto Eco è in realtà una narrazione al quarto livello di “estrazione” dentro ad altre tre narrazioni: Eco sostiene di raccontare ciò che ha trovato nel testo di Vallet, che a sua volta diceva che Mabillon affermò che Adso disse. In questo senso Eco non fa che riproporre un artificio letterario (oggi cinematografico come in Matrix e Inception) tipico dei romanzi inglesi neogotici, e utilizzato anche da Alessandro Manzoni nei “I promessi sposi”. Un ulteriore piano di lettura può vedere il romanzo come un’allegoria delle vicende italiane contemporanee o di poco precedenti all’uscita de “Il nome della rosa”. Ovvero la situazione politica degli Anni Settanta, con le diverse parti in causa a rappresentare l’evolversi politico e spirituale legato al dibattito sulla povertà nel Trecento, ma anche le diverse correnti di pensiero o situazioni proprie degli anni di piombo: Giovanni XXII e la corte avignonese a rappresentare i “conservatori”; Ubertino da Casale e i francescani nel ruolo dei “riformisti”; Fra’ Dolcino e i movimenti ereticali in quello dei gruppi, armati e non, legati all’area extraparlamentare. All’epoca della concezione dell’opera, il romanzo storico con ambientazione medievale era stato riscoperto da poco in Italia da Italo Alighiero Chiusano, col suo “L’ordalia”. Le diverse similarità (ambientazione temporale, genere inteso come romanzo di formazione, e scelta dei personaggi principali, un novizio e il suo maestro, un saggio monaco più anziano), e la notorietà che L’ordalia aveva nel 1979, che un esperto di letteratura come Umberto Eco difficilmente ignorava, fanno ritenere L’ordalia con molte probabilità una delle principali fonti di ispirazione de Il nome della rosa. Dai nomi, dalle descrizioni dei personaggi e dallo stile scelto per la narrazione, risulta invece evidente l’omaggio che Eco fa a sir Arthur Conan Doyle e al suo personaggio di maggior successo: Sherlock Holmes. Guglielmo, infatti, sembra ricavato, per descrizione fisica e per metodo d’indagine, dalla figura di Holmes: le sue capacità deduttive, la sua umiltà e il suo desiderio di conoscenza sembrano infatti riprendere e, a tratti, esaltare gli aspetti migliori del detective britannico. Inoltre proviene dalla contea di Baskerville, che riprende il nome dal miglior romanzo di Doyle, Il mastino dei Baskerville, che per atmosfera può tranquillamente essere considerato come una delle fonti del libro di Eco. Parallelamente il giovane Adso riprende alcuni aspetti della figura del fido Watson holmesiano. Come Watson è il narratore in prima persona della vicenda e come lui si mostra ottuso e poco attento, nonostante il desiderio di apprendere, e pronto all’azione. Vi sarebbero anche dei riferimenti nel romanzo di Eco a Brother Cadfael, monaco detective medievale protagonista di una serie di romanzi gialli della scrittrice inglese Ellis Peters (1913-1995) a partire dal 1977 con “A Morbid Taste For Bones”. Inoltre la ripartizione del testo in base alle ore del giorno (ore canoniche nel romanzo di Eco) è un prestito dal celeberrimo romanzo Ulisse di James Joyce. Alla fine del terzo Giorno è presente una citazione dal V Canto dell’Inferno di Dante, la cui opera è citata un paio di volte. Inoltre, Adso racconta un proprio svenimento con le parole “Caddi come un corpo morto cade” che sono una chiara citazione della Divina Commedia. Guglielmo parla di Malachia come di un “Vaso di coccio tra i vasi di ferro” richiamando Manzoni. Per ambientare il suo romanzo, Eco si è ispirato alla Sacra di San Michele, abbazia benedettina monumento simbolo del Piemonte. Per lo scriptorium dell’Abbazia, Eco ha tenuto presente anche l’Abbazia di San Colombano di Bobbio. Il titolo provvisorio del libro, durante la stesura, era “L’abbazia del delitto”. Eco aveva pensato anche al titolo “Adso da Melk” ma poi considerò che nella letteratura italiana, a differenza di quella inglese, i libri aventi per titolo il nome del protagonista non hanno mai avuto fortuna. Per approdare infine al titolo Il nome della Rosa tratto dal motto nominalista che chiude il romanzo: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus (“La rosa primigenia [ormai] esiste [soltanto] in quanto nome: noi possediamo nudi nomi”, nel senso che, come sostenuto dai nominalisti, non possiamo cogliere l’essenza delle cose diversamente da quanto sostenuto da Aristotele e dalla dottrina cattolica di san Tommaso d’Aquino). La scienza sperimentale dimostra l’esatto contrario. Il titolo inoltre rimanda implicitamente ad alcuni dei temi centrali dell’opera: la frase “stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” ricorda anche il fatto che di tutte le cose alla fine non resta che un puro nome, un segno, un ricordo. Così è per la biblioteca e i suoi libri distrutti dal fuoco e per tutto un mondo, quello conosciuto dal giovane Adso, destinato a scomparire nel tempo. Ma in realtà tutta la vicenda narrata è un continuo ricercare segni, “libri che parlano di altri libri”, come suggerisce lo stesso Eco nelle “Postille al Nome della Rosa”, le parole e i “nomi” attorno a cui ruota tutto il complesso di indagini, lotte, rapporti di forza, conflitti politici e culturali. Il romanzo fu accolto molto bene dalla stampa internazionale, con autorevoli giornali che scrissero parole d’elogio per l’opera e per Eco. Nel 1983 Umberto Eco ha pubblicato, attraverso la rivista Alfabeta, le Postille al Nome della rosa, un saggio con il quale l’autore spiega il percorso letterario che lo ha portato alla stesura del romanzo, fornendo chiarimenti su alcuni aspetti concettuali dell’opera. Le Postille al Nome della rosa sono state poi allegate a tutte le ristampe italiane del romanzo successive al 1983. Nel paragrafo intitolato “Il Postmoderno, l’ironia, il piacevole” Eco afferma che il “post-moderno è un termine buono à tout faire”. Secondo l’autore il postmoderno è sempre più retrodatato: mentre prima questo termine si riferiva solamente al contesto culturale degli ultimi vent’anni, oggi viene impiegato anche per periodi precedenti. Tuttavia per Eco il post-moderno non è “una tendenza circoscrivibile cronologicamente, ma una categoria spirituale, un Kunstwollen, un modo di operare”. Infatti “potremmo dire che ogni epoca ha il proprio post-moderno, così come ogni epoca avrebbe il proprio manierismo”. In ogni epoca si giunge a momenti in cui ci si accorge che “il passato ci condiziona, ci sta addosso, ci ricatta”. All’inizio del Novecento, per questi motivi, l’avanguardia storica cerca di opporsi al condizionamento del passato, distruggendolo e sfigurandolo. Ma l’avanguardia non si ferma qui, procede fino all’annullamento dell’opera stessa (il silenzio nella musica, la cornice vuota in pittura, le pagine bianche in letteratura). Dopo ciò “l’avanguardia (il moderno) non può più andare oltre”. Dunque siamo costretti a riconoscere il passato e a prenderlo con ironia, ma senza ingenuità. “La risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente”. Dal romanzo di Eco il regista Jean-Jacques Annaud ha tratto un film omonimo, interpretato da Sean Connery (Guglielmo da Baskerville), F. Murray Abraham (Bernardo Gui), Christian Slater (Adso) e Ron Perlman (Salvatore). Nel 2005 Rai Radio 2 ha trasmesso un adattamento radiofonico in 35 puntate del romanzo, disponibile in formato RealAudio sul sito RAI. Alcuni errori storici presenti sono molto probabilmente parte dell’artifizio letterario, la cui contestualizzazione è documentabile nelle pagine del libro che precedono il prologo, in cui l’autore afferma che il manoscritto su cui è stata successivamente svolta la traduzione in italiano corrente conteneva interpolazioni dovute a diversi autori dal medioevo fino all’epoca moderna. Nel romanzo (esattamente il quarto giorno – compieta) si menziona una ricetta a base di peperoni (“carne di pecora con salsa cruda di peperoni”), ovvero un “piatto impossibile”. I peperoni furono infatti importati dall’America oltre un secolo e mezzo dopo l’epoca in cui si ambienta il romanzo. Lo stesso errore si ripropone in Sesto giorno – terza: Adso sogna una sua rielaborazione della Coena Cypriani nella quale tra le diverse vivande che gli ospiti portano alla tavola compaiono, appunto, anche i peperoni. Durante il settimo giorno-notte, Jorge dice a Guglielmo che Francesco “imitava con un pezzo di legno i movimenti di chi suona il violino”, strumento che non esisteva prima dell’inizio del XVI secolo. C’è poi la vicenda del frate domenicano Bernardo Guy totalmente inventata. Dopo 5 anni di preparazione il film viene girato in 16 settimane fra gli studi di Cinecittà, i suggestivi ambienti nell’Abbazia di Eberbach in Germania (l’abbazia del film) e la Rocca Calascio in Abruzzo. Molte scene del film sono state girate a Castel del Monte, in Puglia. Fu distribuito in anteprima negli Stati Uniti il 24 settembre 1986, mentre in Italia giunse il 17 ottobre dello stesso anno. Inizialmente il film doveva essere ambientato nella Sacra di San Michele, poi questa scelta venne reputata troppo dispendiosa dai produttori. Il film, con il consenso di Umberto Eco, è stato tratto dal suo romanzo del tutto liberamente e autonomamente, tant’è che nei titoli di testa non è stato scritto “tratto dal romanzo di Umberto Eco”, ma “tratto dal palinsesto del Nome della Rosa di Umberto Eco”. Infatti “Annaud ha deciso – spiega Eco – di definire nei titoli di testa il suo film come un palinsesto dal Nome della rosa. Un palinsesto è un manoscritto che conteneva un testo originale e che è stato grattato per scrivervi sopra un altro testo. Si tratta dunque di due testi diversi. Ed è bene che ciascuno abbia la sua vita. Annaud non va in giro a fornire chiavi di lettura del mio libro e credo che ad Annaud spiacerebbe se io andassi in giro a fornire chiavi di lettura del suo film. Posso solo dire per tranquillizzare chi fosse ossessionato dal problema, che per contratto avevo diritto a vedere il film appena finito e decidere se acconsentivo a lasciare il mio nome come autore del testo ispiratore o se lo ritiravo perché giudicavo il film inaccettabile. Il mio nome è rimasto e se ne traggano le deduzioni del caso”. Ne consegue che il film presenta differenze, in alcuni casi anche rilevanti, rispetto sia alla trama sia alle tematiche che si intrecciano nel romanzo di Eco. La differenza principale rispetto all’originale sta nella rimozione delle discussioni teoriche, troppo complesse per poter essere riportate al cinema. Specie le scene iniziali tra Guglielmo e l’abate, e tra Guglielmo e Ubertino, ridotte a pochi frammenti. Idem per quanto riguarda il processo a Remigio e l’ultimo decisivo scontro tra Guglielmo e Jorge. Ne risulta una visione della storia più semplice, meno inserita in un contesto culturale e volutamente complesso, dove la soluzione del giallo e le chiavi interpretative sono sapientemente nascoste proprio nelle lunghe digressioni storico-filosofiche. Purtroppo ne risente proprio il significato principale del romanzo, che indica, secondo Eco, come nel mondo non vi sia un ordine e un responsabile preciso del bene e del male, ma un insieme di cause in cui è impossibile riconoscere alcunché. Nel film, invece, per motivi meramente spettacolari, i colpevoli sono ben delineati e puniti come il pubblico si aspetta che sia. Incredibile è la scena dei roghi e quella della morte di Bernardo Guy, assenti nel romanzo e, in particolare per quest’ultimo episodio, un grossolano falso storico. Allo stesso modo manca anche qualsiasi accenno alla sottile ammirazione nutrita da Guglielmo nei confronti di Jorge, conferendo quindi un aspetto prettamente odioso al vecchio personaggio. Nel film, inoltre, è stata aggiunta la scena finale con l’apparizione della povera amante di Adso, mentre del tutto arbitraria è l’associazione tra l’ignoto nome della ragazza e il nome della rosa, come se solo questo fosse la metafora ultima dell’intera vicenda. L’associazione è chiara in quanto espressa dalla voce narrante alla fine esatta del film. Tra i tanti particolari non fedeli al libro, l’aiuto bibliotecario Berengario non proferisce parola, Malachia è tratteggiato molto più negativamente e l’abate si dimostra meno fiducioso delle capacità di Guglielmo. Non vi è inoltre traccia di numerosi personaggi che nel libro giocano parti non del tutto secondarie (Bencio, Nicola il mastro vetraio, il centenario Alinardo). La biblioteca è rappresentata in maniera assai più spettacolare a livello scenografico. Nel libro è in un solo piano. Rispettata, invece, è l’atmosfera fredda e invernale del monastero, che costituisce uno dei motivi del fascino della storia. Inoltre il giovane Adso, novizio benedettino nel romanzo, è nel film un novizio francescano e inizialmente ignora del tutto i trascorsi di Guglielmo come inquisitore. Helmut Qualtinger, che nella pellicola interpretava Remigio da Varagine, morì appena finite le riprese, per il peggioramento improvviso delle sue già precarie condizioni fisiche. Il film ha detenuto il record d’ascolto di 14.672.000 telespettatori su Rai Uno per ben 13 anni, dal 1988 al 2001. C’è poi il film “L’ultimo inquisitore” (Goya’s Ghosts) del 2006 diretto dal regista ceco Miloš Forman. Siamo nella Spagna del 1792, anno in cui la Rivoluzione Francese comincia ad avere ripercussioni al di fuori dei confini della Francia. Francisco Goya (Stellan Skarsgård) è ormai diventato, non solo un importante pittore, ma il pittore ufficiale di Corte e pertanto sta dipingendo i ritratti della Regina Maria Luisa di Borbone-Parma (Blanca Portillo). Oltre che dalla famiglia reale, accetta commissioni per ritrarre nel suo studio, tra gli altri, anche l’inquisitore Lorenzo Casamares (Javier Bardem) e Inés Bilbatúa (il premio Oscar Natalie Portman), giovane e bella figlia del ricco mercante Tomás Bilbatúa (José Luis Gómez), che per l’artista rappresenta una sorta di musa ispiratrice. È proprio nella casa del pittore che Lorenzo, mentre posa, vede Inés per la prima volta e chiede notizie di lei. Nonostante questa sua grande celebrità, i vertici della Chiesa di Spagna cominciano a preoccuparsi ed a vedere con forte sospetto ciò che Goya raffigura nelle sue famose incisioni che si stanno diffondendo da Roma fino al Messico, ritenendole opere malvagie. Padre Lorenzo, di rimando, le difende, sostenendo che si limitano a mostrare il male che c’è nel mondo. Siamo però nei secoli in cui l’Inquisizione spagnola reprime e perseguita con durezza qualsiasi idea e comportamento che ritiene pericolosi per il popolo, per l’ordine costituito e per la Chiesa stessa. Lo stesso frate Lorenzo raccomanda con fervore ai suoi superiori di intensificare l’opera di repressione contro ognuna di tali minacce ed è da essi incaricato di occuparsene con i suoi sottoposti. Avviene così che Inés, venendo vista da un inquisitore rifiutare di mangiare della carne di maiale in una taverna, è portata al cospetto dell’Inquisizione spagnola e proditoriamente accusata di praticare segretamente il Giudaismo. Inizialmente la giovane nega, ma poi, inflittale più volte l’atroce tortura detta della corda (detta in gergo anche la strappata o strappado) ammette ciò di cui viene incolpata, nonostante l’evidente falsità dell’accusa, nella speranza di potersi discolpare al processo. Il padre, non vedendola tornare a casa, con l’intercessione di Goya, cerca di conoscerne le sorti tramite fratello Lorenzo, che le reca visita in carcere e, con la scusa di confortarla e darle aiuto, approfitta di lei mentre è legata in catene. Una sera il frate si reca a cena con Goya presso la famiglia Bilbatúa per assicurarli che ha visto Inés la quale ha detto di amarli tutti. Durante la loro conversazione a tavola, il genitore cerca di capire meglio ciò che è toccato alla figlia e venendo a sapere che è stata imprigionata, dopo aver confessato sotto tortura di essere una giudea (effettivamente esistevano lontani avi di origine ebraiche convertiti, i cosiddetti conversos o marrani, ma solo il padre e nessun altro era a conoscenza di questo in famiglia) con l’aiuto di Goya cerca di far comprendere a Lorenzo come, sotto tortura, sia possibile carpire la confessione di qualsiasi colpa e assurdità. Il prelato però difende l’assoluta veridicità di tali metodi, sostenendo che se gli accusati fossero veramente innocenti e credenti, Dio darebbe loro la forza di resistere ad ogni dolore e di negare ogni falsa accusa. Quindi chi cede e confessa deve essere colpevole. Di fronte a tali affermazioni, il mercante spazientito scrive una lettera in cui si dichiara di non essere un uomo bensì il figlio bastardo di uno scimpanzé e un orangutan e la sottopone da sottoscrivere a Lorenzo. Finché non l’avrà firmata gli sarà impedito di lasciare quella casa. All’ennesimo rifiuto, con l’aiuto dei figli e della servitù, nonostante gli inutili inviti di Goya alla calma, Tomás Bilbatúa decide di costringere il religioso a sottoporsi alla corda, la stessa dolorosissima tortura praticata sulla figlia, appendendolo al lampadario di casa. Lorenzo, piegato dal dolore, accetta di firmare quell’assurdità come sua confessione e, sotto la minaccia di vedere reso pubblico il documento che ha appena sottoscritto, accetta il perentorio ordine del genitore che gli consegna anche un grosso quantitativo d’oro per perorare con più forza la causa affinché faccia di tutto per liberare Inés. Nonostante vari tentativi presso i suoi superiori, anche tramite le generose donazioni, il religioso non riesce però a convincere i cardinali dell’Inquisizione spagnola, certi della verità di ciò che la ragazza aveva confessato. Il documento compromettente viene, come era stato minacciato, consegnato a re Carlo IV. Frate Lorenzo, macchiatosi di infamia, viene espulso mentre il suo ritratto viene confiscato e bruciato sulla pubblica piazza. Lorenzo scappa facendo perdere ogni traccia di sé. Passano quindici anni. Goya, che nel frattempo ha perso l’udito, prosegue il suo lavoro di pittore e ritrattista alla Corte del re spagnolo, mentre Inés viene lasciata rinchiusa a deperire nelle segrete di un convento, senza aver mai subito quel processo che le era stato promesso. È il 1808, Napoleone Bonaparte invade la Spagna, dichiara abolito il processo inquisitorio e pone in libertà tutte le persone imprigionate per volere della Chiesa. Inés è finalmente scarcerata, ma il suo fisico è profondamente provato e sfigurato dai lunghi anni di prigionia e la sua mente è sconvolta ai limiti della pazzia. Tra la confusione, le razzie e le violenze portate dal passaggio delle soldataglie napoleoniche, Inés raggiunge, lacera e sporca, la casa paterna e scopre che tutti i membri della sua famiglia sono stati uccisi durante il saccheggio della città. L’unica persona che può aiutarla ora è Goya. Riconosciuta a fatica ed ospitata nella sua casa, Inés confessa al pittore di aver partorito una bambina, poi subito sottrattale, durante la sua lunga e terribile prigionia ed afferma che il padre della bimba è frate Lorenzo che aveva approfittato di lei, ma di cui ella appare anche molto innamorata. Nel frattempo, al seguito dell’esercito napoleonico, ricompare proprio Lorenzo, completamente cambiato. Ha vissuto in Francia durante l’esilio, ha sposato una donna francese, ha avuto da lei tre figli e, dopo aver letto i libri di quei pensatori Illuministi che avversava quando era un inquisitore, ha deciso di sposarne e diffonderne gli ideali, diventando così il procuratore capo del governo francese in terra spagnola e nemico acerrimo della stessa Chiesa di cui lui aveva fatto parte ma che ora considera un’istituzione retrograda (nonostante Lorenzo sia un personaggio di fantasia, la sua biografia richiama per alcuni versi la figura storica di Juan Antonio Llorente). È così che, con la stessa intransigenza e inflessibilità di quando apparteneva all’Inquisizione, processa e fa condannare a morte il cardinale a capo del Sant’Uffizio in Spagna. Nel frattempo rivede il vecchio amico Goya da cui apprende che Inés è ancora viva ed ha avuto una bambina da lui. Lorenzo promette a Goya che si prenderà cura della giovane donna, ma non accetta di ammettere la compromettente possibilità di avere una figlia illegittima, considerando tutto ciò come la pura invenzione di una mente devastata da anni di prigionia. In realtà la figlia esiste, Lorenzo stesso ne ha la conferma dopo aver interrogato il cardinale del Sant’Uffizio, trattenuto nelle prigioni in attesa dell’esecuzione della sua condanna. Si viene a sapere dalle suore dell’orfanotrofio in cui è stata allevata, che è stata chiamata Alicia, che ne è fuggita e una volta diventata adulta, per sopravvivere, ha iniziato a prostituirsi nei bordelli e nei parchi della città. Goya riesce a trovare Alicia (interpretata dalla stessa Natalie Portman, che nel film è anche Inés) in un parco e si accorge che il suo aspetto è incredibilmente identico a quello della madre da giovane. Pertanto parla a Lorenzo perché possa far sì che Inés riesca finalmente a ricongiungersi con lei. In realtà Lorenzo fa rinchiudere Inés in un manicomio e si reca ad incontrare Alicia sotto mentite spoglie per indurla a lasciare la Spagna per gli Stati Uniti. La ragazza fugge da lui ritenendolo un malintenzionato. Goya, deciso a far incontrare le due donne, riesce però a prelevare Inés dal manicomio e la porta in una taverna dove sa che lavora la figlia. Il pittore si presenta alla giovane mentre ella sta accudendo la neonata di un’altra prostituta, e cerca di invitarla a conoscere la madre, che sta aspettando fuori dalla taverna. Improvvisamente, però, viene interrotto da alcuni soldati francesi, mandati da Lorenzo, che irrompono nel locale e catturano tutte le prostitute, affinché possano essere portate in Portogallo per poi essere imbarcate alla volta dell’America. Poco prima di venire arrestata Alicia riesce però a mettere la neonata al sicuro, celandola sotto un tavolo e quando Inés entra nella taverna ormai svuotata, la trova; convinta, nel delirio della sua pazzia, che sia quella figlia che le era stata strappata in prigione e che doveva incontrare, la raccoglie e la porta con sé. Nel frattempo l’esercito britannico è sbarcato in Portogallo e in Spagna è iniziata la controrivoluzione, avversa all’occupazione francese. Appresa la notizia dello sbarco inglese e conscio dell’approssimarsi sia della fine del governo napoleonico in terra spagnola sia della restaurazione dell’Ancien Régime, Lorenzo decide di fuggire con la sua famiglia, ma viene catturato mentre percorre la via per raggiungere la Francia. Processato, viene condannato a morte dagli stessi inquisitori che aveva fatto arrestare. Lorenzo, in preda al tormento e al fallimento della propria vita, decide di non fare professione di pubblico pentimento, di non abiurare i suoi nuovi ideali per poter così tornare in seno alla Chiesa ed accetta, di conseguenza, di salire sul patibolo. Viene pubblicamente ucciso dal boia con la garrota sotto gli occhi di Inés che, ormai in preda alla follia, grida tra la folla il suo nome e, negli istanti che precedono l’esecuzione, gli mostra la neonata che tiene in braccio issandola come se fosse loro figlia. Inaspettatamente, anche Alicia è presente, salvata dalla deportazione da un ufficiale britannico, a cui sembra essersi fidanzata, e assiste dall’alto di un balcone di un palazzo. Il cadavere dell’uomo viene portato via adagiato su un carretto, alcuni bambini saltano e cantano intorno al suo corpo esanime e con la testa penzolante, mentre Inés, con in braccio la bambina e sorridendo al suo amato, gli tiene e gli bacia la mano, seguita amorevolmente da Goya che, poco lontano, la chiama. Il regista Forman non si sofferma particolarmente sulle vicende della vita di Goya come uomo, figura che fu straordinariamente complessa e che sceglie di lasciare quasi in sottofondo come cronista degli avvenimenti, bensì decide di concentrarsi sulla rappresentazione dell’epoca in cui ha vissuto il grande artista, attraverso e grazie ad un percorso lungo alcuni dei suoi capolavori. Da quelli più pubblici ed ufficiali, come i ritratti per la famiglia reale, fino a quelli di natura più ispirata dalle visioni personali e dalle testimonianze private del pittore, come le incisioni (viene mostrata una memorabile rappresentazione degli utensili e dei procedimenti con i quali, all’epoca, venivano realizzate e stampate) e i Dipinti Neri. Forman ha scelto di riprodurre e usare, con una meticolosità estrema, come vere e proprie scene all’interno di tutto il suo film, parecchi dei più famosi dipinti di Goya: dai ritratti del re Carlo IV e quello equestre della regina Maria Luisa fino a quello della famiglia reale; dalle sue visionarie incisioni, al Colosso, fino alle raffigurazioni storiche come il 3 maggio 1808. Come coronamento e conclusione di tutto, il regista decide di citare e ricreare la cupa e angosciosa atmosfera de “Il tribunale dell’Inquisizione”.Nonostante questa notevole ricerca e ricostruzione ambientale, al fine di esaltare la drammaticità della trama, che è opera di fantasia, e di emettere un j’accuse, contro un certo tipo di fanatismo, integralista o oscurantista, da qualunque principio esso possa venire ispirato, secondio alcuni critici il film potrebbe anche ricorrere alla classica licenza cinematografica, permettendosi di andare talvolta al di là dello stretto rigore storico. Ciò in quanto l’intento dell’opera non è quello di essere un pedissequo documentario sull’Inquisizione spagnola né, tantomeno, sull’invasione napoleonica in Spagna. Per avere una disamina critica, scritta da un punto di vista cattolico, in polemica contro il regista Forman per supposte incongruenze storiche del film nell’affrontare il tema dell’Inquisizione spagnola e per come ha raffigurato quest’ultima, si può leggere un articolo pubblicato in proposito dal settimanale cattolico “Tempi”, organo di Comunione e Liberazione. Secondo alcuni Forman non può essere imputabile di alcun significativo errore o anacronismo storico: il tribunale dell’Inquisizione spagnolo, dopo la parentesi napoleonica, fu reistituito in tutte le sue pratiche e i suoi poteri e solo nel 1834 venne abolito definitivamente. Durante il XVIII Secolo e l’inizio del XIX Secolo il numero dei conversos accusati dall’Inquisizione di crypto-giudaismo diminuì significativamente, soprattutto per il naturale esaurirsi di persone da imputare, dato che, dopo secoli di persecuzioni, cacciate ed uccisioni, le comunità ebraiche o cripto-giudaiche erano praticamente scomparse in tutta la penisola iberica, ma non terminò affatto. L’ultimo processo tenutosi in Spagna per tale accusa, del quale è pervenuta una documentazione storica, è avvenuto a Cordova nel 1818 e vide imputato tal Manuel Santiago Vivar. Tutte vicende storiche che sopravanzano cronologicamente i fatti narrati nel film. In riferimento al presunto dogma della veridicità delle confessioni sotto tortura (in particolare quella detta della corda) così centrale nella trama del film perché è uno dei motivi che impedisce ai prelati dell’Inquisizione di accettare la proposta di Lorenzo per la liberazione di Inés, non è mai esistito in questi termini assoluti, sia storicamente sia all’interno del film. In realtà, il regista non ha mai usato tale parola, che esiste sia in lingua italiana sia inglese per esprimere lo stesso concetto e che pertanto avrebbe potuto scegliere di utilizzare. Probabilmente ci si trova davanti ad una traduzione che non è riuscita ad evidenziare un’importante sfumatura presente nel testo originale in inglese e che induce di conseguenza a possibili gravi fraintendimenti o strumentalizzazioni. Il regista Forman infatti usa il termine “Tenet” e non “Dogma” e, come spiega chiaramente il Webster’s Revised Unabridged Dictionary:“Un tenet è ciò che è considerato come vero con grande risolutezza; ad esempio, i tenets della nostra santa religione. Un dogma è ciò che è stabilito con autorità e indubitabile verità, specialmente una dottrina religiosa; ad esempio, i dogmi della chiesa. Un tenet si basa sui propri intrinsechi meriti o demeriti; un dogma si basa sull’autorità ritenuta come competente per decidere e determinare”. Il tenet è in questi termini più un principio, una credenza o una opinione molto salda, che un dogma vero e proprio. È altresì storicamente incontrovertibile come all’epoca la tortura venisse considerata un normale e lecito mezzo di indagine sia in ambito penale laico sia di inquisizione religiosa (processo accusatorio ed inquisitoriale) al fine di estorcere la confessione da parte di un sospettato o inquisito. Queste confessioni venivano poi ampiamente utilizzate come veritiere nel giudizio di condanna dell’accusato. Per quanto riguarda poi l’uso disinvolto della tortura nell’Inquisizione spagnola (così come in quella romana o medioevale) attualmente si deve registrare un consenso esistente fra alcuni storici cattolici e non, come ad esempio Paolo Mieli, che, compiendo un percorso di indagine scientifica con nuove fonti e nuovi dati, ritengono di aver sfatato quelli che considerano molti luoghi comuni sull’Inquisizione e che loro definiscono determinarne la Leggenda nera. Monsignor Luigi Negri, esperto di storia della Chiesa, ad esempio sostiene che “L’Inquisizione anche in pieno Medioevo non prevedeva la tortura se non in casi gravissimi e comunque la confessione poteva essere accettata solo dopo una confermazione pienamente consapevole dell’inquisito”. Ma tali regole non avevano lo stesso valore legale vincolante di quelle dei moderni codici di procedura penale o simili, perciò potevano essere usate in modo arbitrario a seconda dei casi e delle convenienze. Il tema delle responsabilità storiche dell’Inquisizione rimane comunque fonte di dibattito e di diatriba fra le diverse scuole di pensiero storiografiche, spesso anche in conseguenza delle diverse posizioni culturali di partenza dei relativi studiosi. In genere, chi cerca di ridurre o minimizzare le responsabilità storiche attribuite all’Inquisizione, sono spesso storici provenienti da un’area culturale di matrice cattolica, mentre chi cerca di ribadirle o enfatizzarle sono spesso storici provenienti da un’area culturale di matrice laica o protestante. Sempre su uno dei temi di fondo del film, e cioè la non validità delle confessioni estorte sotto tortura, è interessante notare come, già in pieno Medioevo, si fosse verificato l’episodio in cui il beato Rinaldo da Concorezzo, arcivescovo di Ravenna, avesse assolto i Templari, accusati di sodomia, eresia ed idolatria, basandosi proprio su tale assunto. In tale processo emise una chiara condanna della tortura come strumento di indagine, fatto unico in Europa sia nel caso specifico del processo ai Templari sia più genericamente nell’ambito del diritto medievale. Papa Clemente V, nel Concilio di Vienne, pur se complessivamente sfavorevole ai Templari, nella Chiesa soppressi per via amministrativa ma non sottoposti a processo con l’accusa di eresia come accadde in Francia, confermò il buon operato dell’arcivescovo ravennate su tale caso. Discorso completamente diverso deve essere fatto riguardo al destino di molti altri accusati, di eresia o meno. Tutti ricordano la sorte che, sotto lo stesso Papa, toccò a Fra’ Dolcino che lo vide essere torturato con tenaglie arroventate e a cui vennero strappati naso e pene, per poi infine essere arso vivo. Per chi volesse saperne di più consigliamo la lettura critica del libro “I Percorsi delle Eresie: viaggio nel dissenso religioso dalle origini all’età contemporanea” di David Christie-Murray. Cos’è l’eresia? Chi sono stati i più grandi eretici e in che cosa credevano? Come è potuto accadere che coloro i quali furono dapprima condannati come eretici finissero poi per essere considerati martiri e adorati come santi? Fin dai tempi più remoti, politica, ortodossia ed eresia si sono rivelate intimamente connesse, perciò la comprensione del fenomeno dell’eresia deve tenere conto del più ampio panorama degli eventi socio-politici che le hanno dato vita. Oggi molti cristiani cattolici e protestanti, a volte senza esserne pienamente coscienti, potrebbero essere considerati eretici. “Un cinico potrebbe definire l’eresia come l’opinione espressa da un gruppo minoritario che una maggioranza sufficientemente potente per punirla dichiara inaccettabile” – spiega l’autore. Storicamente la “ortodossia” coincide con la posizione teologica vincente, mentre la “eterodossia” o “eresia” è ogni linea teologica minoritaria o perdente. Nel libro vengono descritte le eresie cristiane, i movimenti di dissenso dal credo ortodosso che hanno caratterizzato l’intera storia del Cristianesimo a partire dalle origini quando le eresie imperversavano tra i stessi credenti. I primi Cristiani furono essi stessi tacciati di eterodossia nell’ambito della religione-madre da cui poi si emanciparono. Proprio il sorgere del dissenso nonché la sua diversificazione nelle varie epoche hanno dato luogo al complesso processo di ridefinizione progressiva della mappa filosofica e teologica cristiana. Eresia e ortodossia si sono per molti secoli alimentate vicendevolmente. Fin dai tempi più remoti politica, ortodossia cristiana ed eresia appaiono così intimamente connesse (l’essere eretico significava spesso essere anche un traditore punibile con la morte sul rogo) che l’eterodossia merita di venire collocata, secondo l’autore, nel più ampio panorama degli eventi sociopolitici che le hanno dato vita. Il libro, un classico che non esaurisce la ricerca, ripercorre i cammini assai complessi, e spesso paralleli, di eresia e ortodossia, giungendo fino ai nostri giorni, epoca in cui il prevalere dell’ecumenismo ha portato a un recupero del concetto di “eresia” nella sua accezione etimologica, ovvero “scelta alternativa” e quindi “opinione differente” all’interno di un cristianesimo pluriforme. Il perdono chiesto sette volte da Papa Giovanni Paolo II, il 12 Marzo 2000 durante l’anno giubilare, per le “colpe storiche” ed attuali dei “figli della Chiesa” (confessione dei peccati in generale; confessione delle colpe nel servizio della verità; confessione dei peccati che hanno compromesso l’unità del corpo di Cristo; confessione delle colpe nei rapporti con Israele; confessione delle colpe commesse con comportamenti contro l’amore, la pace, i diritti dei popoli, il rispetto delle culture e delle religioni; confessione dei peccati che hanno ferito la dignità della donna e l’unità del genere umano; confessione dei peccati nel campo dei diritti fondamentali della persona, www.vatican.va/news_services/liturgy/documents/ns_lit_doc_20000312_prayer-day-pardon_it.html) è significativo alla luce del lavoro svolto dalla Commissione Teologica Internazionale.
© Nicola Facciolini
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