Il rischio di un conflitto fra Turchia e Siria, dalle conseguenze potenzialmente disastrose per tutto il Medio Oriente, è altissimo, dopo che, mercoledì, un colpo di mortaio partito dalla Siria ha ucciso cinque persone in Turchia e che oggi quattro combattenti turchi sono stati uccisi dall’esercito siriano ad Aleppo e, ancora stamani, una salva di mortaio è piombata sulla provincia di Hatay, nell’Anatolia meridionale, abbattendosi al suolo nel villaggio di Asagipulluyazi, situato alle porte della città di Yaydalagi, appena 50 metri a nord della frontiera tra i due Paesi.
Il primo ministro turco, Recep Erdoğan, ha dichiarato, sia mercoledì che ieri, che la Turchia non è in cerca della guerra, ma si trova lo stesso – contro la sua volontà– vicina allo scontro; per poi citare una celebre frase dello scrittore latino Vegezio: “Se vogliamo la pace dobbiamo prepararci alla guerra”.
Secondo Fawaz Gerges, esperto analisti di fatti medio-orientali, intervistato dalla CNN, le possibilità, comunque, di una guerra fra i due Paesi e che il conflitto civile siriano si allarghi alla Turchia, sono molto remote. Fawaz sostiene che, da un lato, il governo siriano sta cercando in tutti i modi di non coinvolgere altre nazioni nella guerra e, dall’altro, quello turco sarebbe cosciente del fatto che buona parte dell’opinione pubblica interna è contraria a una guerra che per di più rischierebbe di diventare un conflitto regionale, con interventi di paesi come Libano e Iran. A questo proposito, sempre secondo Fawaz, anche la NATO, di cui la Turchia fa parte, sta suggerendo di mantenere bassi i toni per evitare un peggioramento della situazione.
Naturalmente la Turchia ha risposto (a dovere, secondo Washington), alòle provocazioni (o incidenti) siriani e se la risposta sia stata o meno adeguata, è adesso oggetto di discussione ed anzi, in questo momento, materia centrale dei think tank mediorientali. Secondo Soner Gagaptay del Washington Institute for Near East Policy l’esibizione muscolare di Erdogan ricorda il ‘98, quando le forze turche si disposero al confine per convincere Assad padre a scaricare i miliziani curdi. L’analista Orhan Miroglu ritiene che bisognasse controbattere al presidente siriano per impedirgli di “internazionalizzare il conflitto” e trascinare la Turchia in un “Vietnam americano”. Ma il politologo Murat Yetkin teme che con tutti gli interessi in campo, regionali e non, l’escalation sia tutt’altro che scampata.
Poi c’è la prima linea, dove la geopolitica cede il passo alla vita e gli uomini con le loro paure hanno ragione della Storia.
Un tempo, come ricordava La Stampa, prima della dissoluzione dell’impero ottomano, Akcakale (dove vi è stato l’ultimo attacco siriano) e Tal Abyad (luogo della rappresaglia turca) erano una sola città, un unico amalgama religioso Oggi a parte gli edifici sforacchiati dai proiettili, da l’una e l’altra parte si vedono solo galline, gatti emaciati e i soldati del Free Syrian Army, braccio armato dell’opposizione. E se Tal Abyad è vuota dei suoi 4 mila abitanti, al buio, con il piccolo ospedale in mano alle capre; Akcakale trabocca ansie, malumori e nuove e sempre più pressanti necessità.
Gli incidenti recenti tra Siria e Turchia risalgono al 22 giugno scorso, quando, un caccia turco in volo sul Mar Mediterraneo, fu abbattuto dalla contraerea siriana e morirono entrambi i due piloti.
Da qualche ora (per il momento), i circa 800 metri di terra di nessuno che separano Akcakale dalla gemella siriana Tal Abyad sono attraversati ore dalle ultime famiglie siriane che, cariche di coperte, tappeti e borsoni, cercano riparo ad Akcakale, dove vivono molti dei loro parenti, ma senza elettricità e con tutti chiusi nelle case.
Già il 4 ottobre, Mosca, attraverso il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, aveva espresso “grande preoccupazione per quanto sta accadendo tra i due paesi”, auspicando l’avvio di una rapida mediazione ed anche il titolare della diplomazia francese, Laurent Fabius, aveva chiesto che “si metta fine al più presto” alle violenze lungo la frontiera.
Ma il clima resta arroventato. Il premier islamico nazionalista turco aveva preso posizione l’anno scorso contro l’ex amico Bashar al Assad – le due famiglie andavano insieme in vacanza – e si era schierato con i ribelli sunniti siriani, accogliendone i dirigenti in Turchia. In risposta, Damasco ha dato appoggio e finanziamenti al gruppo armato separatista curdo Pkk, che da luglio ha lanciato una dura offensiva nel Kurdistan turco contro le forze di Ankara.
Intanto, i paesi occidentali sono sempre più preoccupati dal ruolo che le centinaia – forse migliaia – di combattenti stranieri jihadisti vicini ad Al Qaida svolgono nella ribellione anti-Assad e, nei giorni scorsi, è giunto un monito di Mosca a Turchia e Nato, che avverte che la Russia – che ha una importante base navale sulle coste mediterranee della Siria, a Tartus – diffida chiunque dal cercare ‘pretesti’ per una ‘ingerenza’ militare in Siria.
Il medio-oriente è una polveriera pronta ad esplodere in ogni momento, con micce più o meno visibili. Fra le meno note la silenziosa agonia del Bahrein, il cui popolo protesta dal febbraio 2011 contro la monarchia feudale degli al Khalifa, una monarchia assoluti di marca sunnita che ha cancellato, nel Paese, ogni traccia di democrazia.
In quel paese, la famiglia reale non potendo contare sulla bellicosità della minoranza dei correligionari sunniti, ha provveduto importando ex militari pakistani e ponendoli al comando di un esperto americano, che si era segnalato per la dura repressione delle manifestazioni, opera protetto dalle truppe della monarchia.
Ma, nonostante la tirannia operi una repressione scientifica del movimento non-violento di protesta, il Barhein gode de l’appoggio degli Stati Uniti e dei media, nonostante tutte le notti gli uomini del regime attacchino i sobborghi sciiti vandalizzandoli, distruggendo le auto e sparando una quantità incredibile di gas lacrimogeni.
Il regime del Bahrein gode di un tale favore mediatico che ha persino potuto permettersi di ritirare l’ambasciatore dalla Siria per protesta contro la repressione, mentre lui faceva sparare sui manifestanti inermi, perché in Bahrein i manifestanti non sono armati e non aggrediscono o uccidono nessuno.
Eppure la situazione è molto chiara per chiunque, è la stessa cristallizzata già negli anni ’50 da un documentario di BBC (http://mazzetta.wordpress.com/2012/05/16/1956-2012-il-tempo-si-e-fermato-in-bahrein/), che proponeva già allora le questioni di oggi, identiche. La protesta degli sciiti non è quindi una novità e non è nemmeno ispirata dall’Iran, tuttavia non ha speranza di essere adottata dagli esportatori di democrazia, che nel Golfo stanno bene alleati con i tiranni che ci sono.
Se negli Stati Uniti e in Gran Bretagna se ne parla e se ne discute, nel nostro paese l’argomento sembra quasi tabù, una curiosità per pochi, anche se attorno al piccolo Bahrein in realtà si sta mettendo in discussione un modello autoritario che è quello di tutti i paesi del Golfo, nei quali le primavere sono state ovunque represse con estrema durezza e spargimento di sangue.
Nonostante eccidi e proteste, non risulta una sola nota di biasimo da parte della nostra diplomazia e peraltro nessuno degli italiani che lo hanno visitato durante il Gran Premio di Formula 1 ha fiatato, tanto meno l’aspirante leader politico Montezemolo, che con quelle tirannie fa grossi affari vendendo i suoi prodotti di lusso. In Bahrein non ci sono Sakineh o Yoani Sanchez che tengano, i blogger si possono torturare e imprigionare per anni, i manifestanti possono essere condannati a morte e si può anche scatenare lo squadrismo contro la popolazione ostile, con la complicità di tutti.
Una situazione decisamente più grave di quella di altri regimi totalitari senza il favore dei media (e delle Nazioni che contano), come ad esempio Cuba dove, comunque, il regime, venerdì notte, sotto la pressione della comunità internazionale, ha dovuto liberare la nota blogger Yoani Sánchez, arrestata giovedì sera a Bayamo insieme al marito, il giornalista Reinaldo Escobar, e altri attivisti, mentre andava in tribunale, per seguyire e mandare in rete il processo al giovane attivista politico spagnolo Angel Carromero, cittadino spagnolo e membro del movimento dei giovani del Partito popolare (conservatore) al potere a Madrid, accusato di omicidio dopo la morte in un incidente stradale, lo scorso 22 luglio, dei dissidenti Oswaldo Paya e Harold Cepero.
La Sanchez, prima della’arresto, aveva anche annunciato l’arresto di un altro dissidente cubano, Guillermo Faras, Premio Sakharov del Parlamento europeo per i diritti umani.
Ma anche Faras, dopo essere stato trattenuto alcune ore, è stato liberato dalla polizia cubana, insieme a una trentina di militanti dell’opposizione, arrestati mentre si preparavano a dare inizio a una riunione politica a Santa Clara, nel centro dell’isola.
Carlo Di Stanislao
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