L’alternativa resta la cura educativa

L’approssimazione e la fretta, l’intontimento e le competizioni, la rigidità e la dissociazione: questo il tono di fondo, non solo della vita quotidiana della maggior parte delle persone, ma anche di molti luoghi in cui l’educare farebbe pensare al altro. Cercherei in questo la genesi di tanto degrado e tanta stanchezza. E però, come in […]

L’approssimazione e la fretta, l’intontimento e le competizioni, la rigidità e la dissociazione: questo il tono di fondo, non solo della vita quotidiana della maggior parte delle persone, ma anche di molti luoghi in cui l’educare farebbe pensare al altro. Cercherei in questo la genesi di tanto degrado e tanta stanchezza. E però, come in ogni situazione difficile, il rischio è quello che «amarezza e astio corrompano il cuore». Vivendo per qualcosa che dura oltre il tempo, invece, si può abitare il proprio tempo senza lasciarsene troppo condizionare, soprattutto senza lasciare che si introiettino i veleni della depressione e le dipendenze dalle mode. Saranno le fedi forti, e non le religioni facili legate al sacro o il sincretismo illuminista, ad aiutare ancora oggi a crescere, a conservare nella crisi uno sguardo di stupore per le energie belle che ogni donna e uomo possono ritrovare. Come l’uomo che, nel deserto, continuava con il dito a dire «per di qua», perché basta per tracciare una via diritta rispetto al vagare in tutte le direzioni.

Sembra importante per questo continuare ad insistere su ciò che oggi può “salvarci”: la cura educativa. Che penso con Leibniz come la doverosa ma libera “inclinazione” che offriamo a partire da un senso dell’insieme che ci ridona l’armonia. “Inclinazione” che è qualcosa di diverso dell’imposizione ma anche della ipocrita neutralità, con cui spesso si nascondono pavidità e pigrizia. “Inclinazione” che è opera faticosa e paziente ripagata solo dallo sguardo continuo al fine ultimo e da tratti di bellezza che si possono cogliere tra le pieghe del quotidiano, come la ginestra che fiorisce in mezzo alla lava cantata da Leopardi. “Inclinazione” che è anche il chinarsi e il sottomettersi all’altro proprio di chi ama, ben sapendo che, «solo se è un peso, l’altro è un fratello e non un oggetto da utilizzare per noi» (Bonhoeffer). Curvandosi, quindi, per rialzarsi insieme e per insieme posare lo sguardo su ciò che resta visibile solo al cuore. “Inclinazione” che è avviare o cogliere una maturazione ed avere la tenacia di accompagnarla verso la sua pienezza. Tessendo, nel racconto, i fili tenui ma forti della speranza che unifica croce e resurrezione, sofferenza e gioia, nascondimento e gloria.

«No, la guerra è aliena dalla ragione!»

Tento allora di dire qualcosa, partendo dal quotidiano e cercando di ritrovare ciò che, generando stupore, apre alla speranza. Inizio con la scuola che sento come il luogo primario della mia vita segnata, come accade quando si diventa adulti, da una professione, da una chiamata che diventa lavoro entro un “fine”, entro il fine di far crescere uomini e cittadini. Pensando per questo la scuola sempre attorno a studio e relazioni; non sentendomi obbligato (in forza della libertà di insegnamento garantita dalla Costituzione repubblicana) a seguire imposizioni implicite, conservando (entro quello che mi viene chiesto di fare) la sostanza della cura educativa. Così spiego, chiedendo ai miei ragazzi di studiare prima, cercando di fare della spiegazione e della verifica prove di rielaborazione. Confidando nell’intelligenza, contrastando il nozionismo ma anche i progetti senza base disciplinare, fatti in genere per spendere e per avere più soldi – peraltro in modo spesso spudorato e con scarsa consapevolezza della sostanza della cultura. Seguo, quanto ai contenuti, il percorso delle grandi consegne, le riprendo in modo plurale e le offro con convinzione. Crescendo la relazione con i miei studenti nel corso del triennio, se torna utile, dico qualcosa che ha a che fare con la vita.

Ultimamente, in quinta liceo scientifico, per ciò che prevede il piano di lavoro, sto spiegando le guerre mondiali, la guerra fredda, le guerre contemporanee. Forse sarebbe meglio: sto rispiegando … credo per la ventesima volta, ritrovando – anche grazie ai riscontri dei miei alunni – elementi di comprensione e di riflessione nuovi. Lasciando all’inizio dell’interrogazione cinque minuti di libera esposizione di un tema, quest’anno mi ha sorpreso come molti alunni ripetessero: «non si può, non si può pensare che la storia debba continuare così». Un’alunna, che in filosofia aveva tentato un audace confronto tra Hegel e Francesco di Assisi, non è riuscita a trattenere le lacrime. Per dire così il suo no alla guerra. Un altro alunno che, sul progresso industriale aveva ritrovato la bella storia di Adriano Olivetti promotore di una fabbrica che avesse per fine non il profitto ma lo sviluppo sociale della città, ha ripreso (con una ricerca propria) il testo di Bonhoeffer sulla stupidità che nasce dall’ostentazione di potenza. Un altro ha esclamato con forza: «La guerra è totalmente irrazionale, bisogna dire un no netto e senza attenuanti». Gli ho potuto dire come anche papa Giovanni XXIII nella “Pacem in terris” abbia affermato «bellum alienum a ratione»! Insieme ci siamo detti che studiare le guerre ci impegna ad essere uomini, ad essere uomini in modo sano e con coraggio, cogliendo come questo sia un impegno qualitativo che permette di non paralizzarci o deprimerci se la quantità va in direzione opposta.

«Questa è la domanda più interessante …»

Mi viene spontaneo parlare di scuola perché a diciotto anni ho scelto con convinzione che avrei fatto l’insegnante. Ed insieme ad alcuni amici, nello stesso periodo, ho scelto di restare cristiano. Partendo da un testo illuminante di Kierkegaard – «non si può giocare al cristianesimo» – abbiamo scelto di confermare il “sì” al Vangelo con una vita cristiana fatta di Bibbia, eucaristia, poveri, fraternità, in una parrocchia che questo lo permette e lo ha lasciato in tutti questi anni centrale. Questo è lo sfondo di una seconda maturazione educativa che scopro come “stupore” possibile: la scelta dei poveri da parte dei giovani come parte integrante di una vita cristiana, che ha l’altro polo nella preghiera e nell’ascolto della Parola. Potendo gioire di come sia possibile così continuare a consegnare il Vangelo alle nuove generazioni senza riduzioni e senza infingimenti. Partendo da un’indicazione elaborata dalla nostra Caritas diocesana – smetterla di ridurre la carità a smistamento di aiuti ma a dare centralità alla visita nella ricerca degli stili di Gesù – da semplice fedele della mia parrocchia mi sono coinvolto nella disponibilità dei catechisti dei gruppi di post-cresima ad aiutare i ragazzi a fare esperienza della visita evangelica.

Quanto ai catechisti, penso che sia un servizio importante, anzi il servizio più importante di una comunità, certo se si evitano approssimazioni e tecnicismo e si curano relazione attenta e testimonianza-consegna delle cose essenziali. Che richiedono di essere vissute con intensità anzitutto per sé e solo così suggerite come veramente importanti e quindi spiegate e fatte vivere. Ebbene, con catechisti che avvertono queste tensioni, abbiamo programmato per alcuni sabati delle visite precedute da un incontro in cui ci siamo detto il senso ed appuntato delle domande possibili ad anziani ad ammalati. Nelle visite alcuni adulti abbiamo accompagnato i giovani insieme ai catechisti. Mentre camminavamo un ragazzo, “conosciuto” come uno che sempre si distrae, scorrendo le domande possibili da fare ad anziani e ammalati, si ferma ed esclama: «Questa è la domanda più interessante: che posto ha avuto la fede nella sua vita?». E nell’impatto che i giovani avevano con il mondo della sofferenza, hanno generato stupore quegli anziani e ammalati che, interpellati sui ricordi e sulla vita attuale, non si soffermavano nostalgicamente sulla vita di una volta o sulle feste che non ci sono più ma sulla sostanza della vita.

E raccontavano, per esempio, come da una settimana di esercizi spirituali era rimasta viva in loro l’idea che ogni giornata doveva essere dedicata al Signore, pensando in quest’ottica le cose da fare, con una sorta di precisa programmazione: del tempo per le pulizie, un tempo preciso per la preghiera, solo un po’ di televisione, una visita cadenzata settimanalmente per altri che stanno peggio … Nel ritrovarsi, dopo tre sabati di visite, i ragazzi non sono rimasti indifferenti al bisogno di compagnia di molti anziani e all’esigenza di non sentirsi estranei – se ammalati – rispetto alla vita della parrocchia. In molti hanno detto: «occorre ritornare, con fedeltà». Mi pare che anche così si possa attuare il Concilio: con una pastorale centrata sulle cose essenziali della fede e sulla prossimità, sul legame con il territorio, sulla preoccupazione che si possa cogliere una cura che parli della cura di Dio. Senza ridursi ad agenzie sacre e di beneficenza.

Le icone della Casa don Puglisi

Se si vuole generare una vita cristiana che ancora stupisca, resta importante nelle parrocchie il radicamento su ciò che è essenziale e la capacità di proposte integrali e forti. Ho raccontato l’esperienza della visita per dire che non è solo convinzione, ma via praticabile. Che conduce ad una vita cristiana vera, e non solo a emozioni o spiritualismi. Ancor di più questo radicamento nelle cose essenziali e la capacità di proposte integrali e forti sono necessari nelle frontiere della carità che, quando è evangelica, deve misurarsi con povertà drammatiche in cui si condensano tutti i nodi della odierna crisi. Ritornano per questo centrali la contemplazione, l’adorazione. Perché a volte – secondo la bella intuizione di Dossetti – come le donne la mattina di Pasqua si può restare solo a trattenere i piedi del Risorto … ma questo basta per riunificare la propria vita attorno al Signore. Quand’è così infatti – quando si sta attenti ai piedi, al carico che portano, e vi si scorge la figura di Colui che per primo ha attraversato la morte e l’ha vinta – si può conoscere già il mondo nuovo in cui l’amore vince, con una forza “altra” rispetto a quella del potere, nelle fattezze di volti e di dedizioni nascoste.

Mi sovvengono le due icone della Casa don Puglisi che spesso si possono rinvenire in cappella quando, fermato per mezz’ora il faticoso scorrere del tempo tra disagio e cura educativa, ci si raccoglie attorno alla mensa del Pane e della Parola. E ci si ritrova accanto l’icona di Maria “scritta” dalle Clarisse di Paganica, rimaste in un convento di legno a condividere le ferite della gente dell’Aquila dopo il drammatico terremoto del 6 aprile 2009: icona dolcissima in cui prevale l’abbraccio tra la Madre e il Bambino (che ha la scarpa slacciata a ricordare le paure della vita). Spesso un’altra icona si affianca: uno dei bambini della Casa che riposa tra le braccia dell’operatore … Abbraccio che nasce da una fiducia resa possibile da una dedizione enorme, rigorosa e silenziosa. Nella doppia icona intravedo una verità profonda: la cura educativa raggiunge la pienezza laddove contemplazione e vita si incontrano ed esprimono quel primato dei poveri che ha il timbro dell’amore di dono e il sapore della verità. Della verità crocifissa, della verità che si espone fino in fondo diventando spazio di accoglienza e di fiducia. Verità che diventa radiosa quando, con meraviglia, si riesce a cogliere sulla Croce nel nascondimento di Dio il dono che il Padre fa del Figlio e che il Figlio fa di sé effondendo lo Spirito.

Allora – scrive don Giuseppe Dossetti – «noi siamo già trascinati come membra sue in questo nascondimento glorioso, per cui la vita che viviamo qui soltanto per un aspetto esterno è vita, per così dire, vissuta nel mondo e manifesta al mondo, mentre invece, per la sua profondità più reale, è vita già immersa col Cristo, da cui siamo inseparabili come membra sue, nell’unità gloriosa del Padre. Non più l’unità sofferta e sofferente, ma l’unità gloriosa. E questo per grazia di Dio, perché nel mondo non è entrato soltanto il cuneo della passione, ma è entrato anche il grande e meraviglioso glutine dell’Amore increato, cioè dello Spirito Santo. Il cuneo della passione e della croce, per sé, rispetto alla natura degli uomini, è fratturante, lacerante e dispersivo, ma nella vita del mondo è entrata anche la potenza unificante della gloria di Cristo, della gloria del Padre in lui e del suo amore per lui». Un sigillo dello Spirito ad una cura educativa appassionata, unica via convincente anche nel nostro tempo per superare degrado, disgregazione, smarrimento.

Maurilio Assenza

docente di Filosofia, direttore Caritas diocesi di Noto

 

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