Con il 54,4% delle preferenze, Hugo Chavez è stato rieletto per la quarta volta presidente del Venezuala, alla fine della più rischiosa delle scommesse della sua lunga carriera politica, affrontata con la stanchezza legata all’età e alla lotta contro il cancro, per la prima volta impegnato da un avversario di quasi vent’anni più giovane e che è riuscito a riunire intorno alla sua piattaforma, una alleanza di vari partiti dell’opposizione.
Per l’ex ufficiale dei paracadutisti che nel 1992 si era arreso dopo aver partecipato in un golpe fallito, diventato poi paladino boliviano, è stata comunque una vittoria chiara e senza possibili obiezioni, con quasi 10 punti di distanza dal suo rivale Henrique Caprile.
Sicché, sino al 2019, Chávez potrà continuare con la sua politica che punta a sconfiggere definitivamente quelli che definisce i due nemici mortali del “socialismo del secolo XXI”: la “borghesia oligarchica” all’interno e “l’imperialismo” degli Stati Uniti.
Comunque, scrivono oggi i commentatori, passata l’euforia Chávez dovrà fare seriamente i conti per fare quadrare l’annunciato “consolidamento del socialismo”, nonostante una serie di problemi che preoccupano l’opinione pubblica venezuelana e un panorama internazionale che presenta nuove sfide da superare, se vuole adempiere la sua vocazione di leadership regionale e perfino mondiale.
I due principali problemi del futuro governo sono l’inflazione, fra le più alte nel mondo, e l’insicurezza: lo stesso Chávez ha ammesso che la serie di “piani nazionali”che ha lanciato negli ultimi anni per debellare la criminalità, soprattutto la piccola criminalità urbana, non hanno avuto l’effetto previsto.
Quanto agli aspetti internazionali, la cosiddetta primavera araba che ha spazzato via un governo come quello di Gheddafi, con i quali manteneva rapporti fraterni, minaccia ora quello di Basar bel Assai – dipinto dai media governativi di Caracas come la vittima di un complotto internazionale – mentre la pressione internazionale su Teheran ha avvicinato ancora di più il Venezuela all’Iran degli Ayatollah.
A livello regionale, Chávez è riuscito ad approfittare dell’impeachment del presidente paraguayano Fernando Lugo – che ha denunciato come un “golpe parlamentare” – per fare entrare il suo paese nel Mercosur, e l’arrivo di Juan Manuel Santos alla presidenza colombiana ha portato a un riavvicinamento con Bogotà, dopo le distanze accumulate durante l’epoca di Alvaro Uribe.
Rafforzato nella sua legittimità, il presidente venezuelano cercherà dunque di rafforzare la sua alleanza con governi come quello del boliviano Evo Morales, l’ecuadoregno Rafael Correa, l’argentina Cristina Fernandez de Kirchner e il nicaraguense Daniel Ortega, promovendo le strutture di integrazione regionale che ha ideato per competere con Washington, come l’Unione delle Nazioni Sudamericane (Unasud) e l’Alleanza Bolivariana.
Chavez è l’ultimo prodotto del cosiddetto caudismo sud-americano e, Il suo Venezuela, è come l’Argentina della “gran decada” peronista, con lo Stato che è essenzialmente, il contorno, l’ornamento, d’una figura – quella del “Conductor” Juan Domingo Perón – oggetto d’un quasi religioso culto che, indubbiamente – a dispetto, o forse in virtù, dei suoi grotteschi e talora macabri risvolti -riflette sentimenti d’un genuino amore popolare.
Arrivando alla presidenza nel 1998, Hugo Chávez ha avuto l’indiscusso merito di porre – a fronte della crisi mortale del vecchio bipartitismo “puntofijista” – due fondamentali problemi: l’allargamento delle basi sociali d’una democrazia elitaria ed inamidata, e la redistribuzione verso il basso della rendita petrolifera. In 14 anni di governo, il chavismo ha, per molti aspetti, conseguito l’una e l’altra cosa, ma in termini che rammentano molto più il “medioevo” del tradizionale caudillismo ispano che una nuova frontiera della democrazia.
E la vittoria di domenica, dimostra che – per quanto clownesco e, assai spesso, segnato da una volgarità da caserma – il culto della sua personalità trova ancora una forte eco tra i ceti più poveri. Ancor più certo, inoltre, è che i poveri stanno oggi, grazie al chavismo, meglio di quanto stessero 14 anni or sono. Ma la qualità di questo miglioramento è quantomeno opinabile, ed il suo prezzo politico, altissimo. Sotto Chávez è di fatto scomparsa ogni forma di divisione dei poteri. E, insieme alla divisione dei poteri, ogni forma di controllo democratico (o anche solo amministrativo). Un dato, soprattutto, va ricordato. Quando, nel pieno d’una devastante crisi, Chávez prese il potere, il prezzo del petrolio oscillava tra gli 8 e i 10 dollari al barile. A partire degli ultimi mesi del 2003 fino ad oggi (con la parentesi degli anni 2008 e 2009), quei prezzi hanno conosciuto un boom senza pari nella storia, avvicinandosi, nei momenti di maggior auge, ai 150 dollari. Nessuno, prima di Chávez aveva goduto di tanta abbondanza. E nessuno ha come lui potuto usarla con una altrettanto incontrastata arbitrarietà.
Molti fondi arrivano oggi dove prima mai sarebbero arrivati. Ma ci arrivano per vie che solo a Chávez sono conosciute. Senza controlli, né resoconti, come ingranaggi d’un colossale apparato assistenziale – clientelare e corrotto, indebitato ed inefficiente – di potere personale. I poveri ricevono. Ma ricevono, quasi sempre, in cambio della fedeltà politica.
Contro il Golia di questa gigantesca macchina da centinaia di miliardi (l’intero Stato venezuelano, in effetti) ha dovuto, come Davide, battersi Henrique Capriles Radonski. E l’ha fatto, occorre dirlo, con grande bravura, alla testa d’una coalizione che però è ancora ben lungi dall’essere un vero partito politico.
Comunque, stavolta, Chavez ha sofferto molto e non stravinto, nei confronti di Capriles – avvocato di ricca famiglia con esperienza politica da deputato, sindaco e governatore, che intendeva spodestarlo promettendo tolleranza zero contro la corruzione e di mantenimento dei programmi sociali.
E adesso in molti commentano che, a determinare le elezioni nell’era moderna, sono quasi sempre aspetti di secondo piano a livello di programmi e contenuti, ma vitali per sostenere ed apportare nuova linfa al consensus.
Nello scorso Maggio le elezioni in un piccolo paese del centroamerica quale la Repubblica Dominicana, hanno visto un bipartitismo sterile nei contenuti ma straripante di propaganda.
Un meccanismo pubblicitario martellante che ha portato le elezioni dell’isola ad essere le più costose dell’intero continente. Tra brogli elettorali si affermò il Partito in carica, quello che poteva disporre di più fondi stranieri.
In Venezuale Chavez ha vinto perché ha trovato la frase giusta, rivolgendosi agli elettori in piazza a chiedendo impegno e dedizione nella battaglia politica e delle idee. “Andiamo a vincere, ma coltivando le nostre idee, stando sempre uniti”.
Ma sempre più appare macilento ed indebolito: una figura in fin di vita, logorato dal male e prigioniero della propria ideologia.
Oggettivamente, oggi, il Venezuela è delinquenza e corruzione e in numerosi parti la capitale Caracas è una fogna a cielo aperto, con tanta povertà e sporcizia. Ma è pur sempre meglio di anni fa. Le masse che sempre sono state considerate un sovrannumero ed una forza lavoro da schiavizzare, con Chavez si sono sentite più tutelate ed hanno usufruito di risorse messegli a disposizione e numerosi aiuti.
Inoltre, la sfida di Cariples, ha fatto capire a Chavez e al governo, che si poteva perdere e che i voti popolari non erano più una garanzia e che “Venceremos” era un imperativo che sarebbe potuto ( e può) anche diventare utopia.
Capriles ha percepito il malcontento, ha visto che il popolo era affranto dalla corruzione e più che puntare il dito contro un “pericolo rosso”, ha spinto sulla dialettica per impostare il proprio discorso su questo malcontento e mettendo agli occhi di tutti una realtà che effettivamente parla di un Venezuela ancora monocromatico, la cui economia per l’80% è rappresentata dalle esportazioni del bene energetico che il proprio territorio gli offre.
Carlo Di Stanislao
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