Sul Mattino di Napoli, Raffaello Lupi, ordinario di Scienze delle finanze e diritto tributario a Tor Vergata, stima gli effetti del taglio dell’Irpef , stabilendo che il beneficio reale è al massimo di 300 euro per tutti i livelli di reddito, ma verranno fortemente penalizzati i contribuenti con più detrazioni e, alla fine, come ha spiegato a Rainews il fiscalista Nicola Forte, i servizi di Comuni e Regioni potrebbero costare di più.
E non solo i tecnici, ma anche sindacati e partiti esprimono il loro dissenso nei confronti di un “patto” che fa esattamente il contrario di ciò che serve al Paese: stabilità e lavoro.
Il Sole 24 Ore, il più analitico nell’illustrazione dei dettagli della manovra, in un editoriale di Fabrizio Forquet è netto: “Piccoli passi e la priorità dimenticata”; mentre il Fatto quotidiano sintetizza “Taglio delle tasse bluff: Irpef -5miliardi, Iva +7”. Quindi, a conti fatti, pagheremo tutti di più.
Le maggiori perplessità sul piano politico (espressa anche da Bersani) riguardano Sanità, Scuole e Walfare, mentre, sotto il profilo tecnico, preoccupa l’aumento dell’Iva, che scatterà da luglio, gravando ulteriormente sui consumi, senza trovare pari compensazione dalla riduzione dell’Irpef per le fasce più deboli, che si avvierà invece da gennaio.
Anche se Vittorio Grilli pare possibilista ed afferma: “Non è detto non si riesca trovare il modo di evitare aumento Iva con i proventi della lotta all’evasione”, sono in tanti a lamentare che, pur essendo pronta da mesi la lista dei 350 beni vendibili da parte dello Stato, non vi è nessuna chiarezza sul tempo necessario per venderli in questa fase di mercato.
Scrive Panorama che solo di procedure si arriverà a fine anno e molto altro tempo passerà ancora per le offerte, sperando siano congrue, nonostante la valanga di alternative private presenti sul mercato e l’imbarazzante storia di inaffidabilità normativa ed amministrativa che le privatizzazioni immobiliari hanno alle spalle, con licenze di cambio di destinazione d’uso (se no, chi comprerebbe una caserma?) promesse e mai concesse.
Scrivono in molti che anche se fa bene il governo a lavorare come se non fosse in scadenza, portare a casa qualche risultato immediato avrebbe forse potuto essere fatto, optando per procedure più collaudate o comunque emergenziali.
Se alle parti sociali e ai partiti il patto non è piaciuto, già piovono gli apprezzamenti dei vari organismi internazionali, anche perché, sulle norme, prima di vararle, Monti si è certamente ed informalmente confrontato con i suoi “danti causa” internazionali, dalla commissione europea alla Bce.
Comunque si prepara un periodo difficile per il governo che non potrà cavarsela, ora, con il fumo negli occhi delle due aliquote ridotte, soprattutto inficiate dal ristagno creato dall’Iva, dai tagli alla sanità ed al sociale e dalla mancanza di propulsione sul lavoro.
Ieri la Bce, in un comunicato, elogiava il fatto che, tra fine agosto e ottobre i differenziali di rendimento dei titoli di Stato a dieci anni rispetto ai corrispondenti titoli tedeschi ”sono diminuiti per tutti i Paesi dell’area dell’euro, con una sola eccezione”, la Grecia ed evidenziava come lo spread tra Btp e Bund tedeschi a dieci anni abbia registra una ”riduzione significativa”.
Ed ha aggiunto che per assicurare un’ulteriore stabilizzazione dei mercati finanziari e un miglioramento delle prospettive di crescita, occorre il contributo sostanziale di altri settori della politica economica e, sul fronte dei conti pubblici, i Paesi dell’area devono procedere verso il risanamento, continuando ad impegnarsi per ripristinare posizioni di bilancio solide, in linea con gli impegni assunti nell’ambito del Patto di stabilità e crescita e con le raccomandazioni formulate nel quadro del Semestre europeo del 2012.
Monti e il suo governo lo fanno, ma forse con poco coraggio e senza nessuna fantasia.
Non ad esempio come sta facendo Hollande in Francia e da noi suggerito dalla stessa Corte dei Conti, dando per lo meno qualche segnale sulla “redistribuzione del carico impositivo”, poiché il confronto con l’Europa conferma per il nostro paese “un’elevata pressione fiscale, una distribuzione del prelievo che penalizza i fattori produttivi rispetto alla tassazione dei consumi e dei patrimoni, una dimensione dell’evasione che ci colloca ai vertici delle graduatorie internazionali”.
E se l’apporto dei tagli alla spesa è limitato, e soprattutto destinato in questa fase unicamente a “sostituire” il gettito atteso dall’aumento dell’Iva, allora l’unica strada potrebbe essere quella suggerita dallo stesso presidente Luigi Giampaolino: destinare “almeno parte» dei recuperi della lotta all’evasione alla riduzione del prelievo, così da dare concretezza a una sorta di «patto sociale basato su un diffuso consenso nei confronti dell’azione di riduzione dell’evasione”.
Ma, il gettito atteso dalla lotta all’evasione – stando alle ultime stime – potrebbe attestarsi quanto meno sul livello del 2011: 4,5 miliardi che derivano dalla riscossione dei ruoli, e dunque dal frutto dell’attività di accertamento, cui si aggiungono gli 8,2 miliardi si devono ai «versamenti diretti» dei contribuenti, che solo latu sensu possono essere ascritti alla voce lotta all’evasione.
Operazione da condurre con grande prudenza e accortezza, poiché con l’approssimarsi della campagna elettorale la questione fiscale è inevitabilmente destinata ad assumere un ruolo di primissimo piano.
Lo si è visto nei giorni scorsi, attraverso le reazioni al semplice annuncio da parte di Mario Monti, poi seccamente ridimensionato, sulla possibilità di “iniziare un percorso” di riduzione della pressione fiscale già in questa legislatura.
Tuttavia, l’allarme lanciato dal presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, sulle imprese che “stanno morendo di tasse” è molto significato e dovrebbe far riflettere.
In questo senso la caratura “tecnica” dell’attuale governo potrebbe costituire un atout decisivo per sottrarre la questione fiscale agli appetiti delle forze politiche in chiave di consenso elettorale. Ma se si renderà capace anche di qualche impennata.
Certo, nessun cedimento sul fronte del rigore peraltro, nessuna tentazione da “deficit spending”. Il rispetto dei saldi concordati in sede europea dovrà essere assoluto, e non può che essere accolta con favore l’inserimento nella legge di stabilità, che il Governo si appresta a presentare in Parlamento, di una nuova tranche di tagli alla spesa. Ma, anche se la coperta è corta, provare ad aggiungere pezze con tassazioni più distinte ed eque, vendita di beni pubblici molto veloce e risorse messe a disposizione soprattutto per i giovani e la ripresa, potrebbe ridare speranza ad un Italia afflitta da sacrifici e scandali.
Ad inizio di mese Luigi Giampaolino, presdente della Corte dei Conti, in una audizione al Senato, ricordava che l’Italia si colloca ai primissimi posti nella graduatoria internazionale per l’evasione e che gli ultimi dati Ocse danno il Belpaese al terzo posto fra i paesi dell’area, appena dietro Turchia e Messico.
Tra Iva ed Irap il minor gettito lordo stimato ammonta a oltre 46 miliardi l’anno e non sono le incursioni eclatanti nei luoghi alla moda o nelle vie centrali di Roma, né il redditometro a poter invertire questa tendenza.
E siccome difficilmente il comportamento evasivo si esaurisce in un’unica violazione, ma, di norma, è in presenza di un circuito dell’evasione caratterizzato da un effetto domino, con partenza dall’Iva ed un aggravio della spesa sociale, si dovrà rapidamente ed efficacemente intervenire in tal senso.
Come già ad agosto scriveva su Lettera 43 Paolo Stefanato, quello che ci vuole, in questa vera e proprio guerra è sostanza e non propaganda. Un solo avvocato che incassa in nero una parcella da 15 mila euro equivale a 15 mila scontrini di caffè non emessi.
E siamo con Stefanato nel proporre, da subito, che ogni contribuente sia obbligato a indicare nella denuncia tutti i redditi percepiti, cosicché la sua fotografia per il fisco diventi veritiera.
E che questo debba valere anche per i politici, che avendo tutta o parte della propria indennità sottratta ai normali obblighi fiscali, sono i primi a mancare, oltre tutto, di trasparenza nei confronti dei cittadini-elettori.
Infine (la cosa si è detta ma stenta a decollare), che siano resi pubblici, come lo erano negli esecrati anni ’70 e ’80, rendere pubblici i contenuti di tutti i contribuenti, così come in gran parte dei Paesi, dove nessuno si scandalizza, anzi.
Carlo Di Stanislao
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