Il kolossal Alba Rossa Red Dawn nel cinquantesimo anniversario della crisi dei missili di Cuba Strategie a confronto

“Scritta in cinese, la parola crisi, è composta da due caratteri. Uno rappresenta il pericolo, l’altro l’opportunità”(John Fitzgerald Kennedy). Nel cinquantesimo annivesario della crisi dei missili di Cuba (15-28 Ottobre 1962), l’invasione degli Stati Uniti d’America può cominciare nel nuovo atteso film Red Dawn (Alba Rossa) remake della pellicola del 1984 diretta da John Milius. […]

“Scritta in cinese, la parola crisi, è composta da due caratteri. Uno rappresenta il pericolo, l’altro l’opportunità”(John Fitzgerald Kennedy). Nel cinquantesimo annivesario della crisi dei missili di Cuba (15-28 Ottobre 1962), l’invasione degli Stati Uniti d’America può cominciare nel nuovo atteso film Red Dawn (Alba Rossa) remake della pellicola del 1984 diretta da John Milius. La nuova data di uscita è il 21 Novembre 2012 nelle sale americane. Il film è firmato da Dan Bradley e interpretato da Chris Hemsworth, Josh Patrick, Josh Hutcherson e Adrianne Palicki. Sono loro il nucleo della resistenza giovanile americana dei  “Wolverines” (in onore della mascotte del campus scolastico, non dell’eroe Marvel) un gruppo di partigiani che combatte l’invasore comunista nordcoreano. Il primo ufficiale (www.youtube.com/watch?v=B_xsMUZ5970) docet. La prima spettacolare clip, per un remake decisamente atteso, consente un’analisi storica, economica e strategica sui probabili futuri scenari geopolitici mondiali. Una cittadina americana si risveglia al suono di alcuni elicotteri e dei soldati che discendono dal cielo, invadendo il suolo americano. In poche ore i cittadini si ritrovano prigionieri nelle loro stesse città. Un gruppo di giovani patrioti, determinato a respingere il nemico, si rifugia nei boschi e si addestra, organizzando la guerriglia, in un gruppo di combattenti per liberare la città dagli invasori e riconquistare la libertà. Che oggi sembra così scontata! Solo Nixon potè andare in Cina. Correva l’anno 1972. Quarant’anni dopo, il 21 Novembre 2012, carri armati e truppe aviotrasportate nordcoreane, che ci crediate o meno, invadono improvvisamente Washington D.C., New York, Detroit, Chicago e Los Angeles, dopo aver paralizzato le difese aeree e missilistiche americane. Amara e sconvolgente sorpresa di un’alba rossa che per gli statunitensi si preannuncia davvero mozzafiato subito dopo l’Election Day presidenziale. Che, secondo gli analisti, dovrebbe consacrare la vittoria, per un soffio, del repubblicano Mitt Romney su Barack Obama per la conquista della Casa Bianca. “Diamo il nostro caloroso benvenuto ai nuovi padroni, le formiche rosse!”. Non stiamo parlando né delle reazioni europee all’impero imprenditoriale cinese ormai radicato e strutturato sul territorio del Belpaese (sono 150 le imprese del Dragone Rosso nella sola Val Vibrata abruzzese: dominano il settore manifatturiero e commerciale); né della famosa operazione militare Alba Rossa (Operation Red Dawn) che portò alla cattura di Saddam Hussein il 14 Dicembre 2003. Stiamo parlando di una frase tratta dal nuovo film “Alba Rossa”(Usa 2012) del regista Dan Bradley. Dopo aver sollevato un vespaio, negli ultimi cinque anni, tra le ambasciate delle due superpotenze, Cina e Stati Uniti, la pellicola (iniziata nel 2008) si appresta a conquistare le sale cinematografiche americane e di tutto il mondo libero. Invade gli States proprio durante l’ennesima “crisi” siriana (Primavera Araba?) che rischia di far precipitare il mondo in una spaventosa Terza Guerra Mondiale alimentata da una probabile escalation della crisi finanziaria globale. Red Dawn è il remake del famoso film del regista John Milius (Usa, 1984) che racconta la storia di alcuni studenti di una scuola superiore americana, uniti per difendere la loro cittadina dagli invasori comunisti, all’epoca rappresentati da soldati russi, cubani e nicaraguensi. Alba Rossa di John Milius era una pellicola visionaria e fantapolitica dove venivano esaltati i valori della resistenza giovanile americana. Il nuovo Red Dawn, che alcuni critici bollano già come puramente paranoico, è ambientato a Detroit. Stavolta dovevano essere i cinesi ad invadere gli Usa e non i sovietici, sulle orme del ricco filone d’oro alimentato dallo sceneggiato Amerika (Usa, 1987) la miniserie più discussa di tutti i tempi, una delle più note pellicole di propaganda anticomunista mai realizzate durante la guerra fredda. Tuttavia i tempi e le politiche cambiano così rapidamente (la Apple Inc. assembla i suoi preziosi dispositivi in Cina) che i nemici mutano pelle altrettanto velocemente. Ora sono i “gialli” nordcoreani a rapire la scena. Alba Rossa continua a stimolare un dibattito culturale curiosamente intrigante dove interrogativi, piccoli e grandi, farciti dai pur sempre fastidiosi incidenti diplomatici, si affastellano alle dichiarazioni ufficiali delle superpotenze Usa e Cina, che finora hanno costellato la produzione e la distribuzione mondiale della pellicola. Nel film originale del 1984 un gruppo di studenti americani diventava da un giorno all’altro un movimento partigiano per combattere i comunisti invasori sulle montagne del Colorado. Nel primo film i cinesi superstiti erano alleati degli Stati Uniti invasi dalle truppe sovietiche che avevano prima devastato il Celeste Impero a colpi di bombe all’idrogeno soffocando nel sangue la resistenza interna. Oggi il remake Red Dawn racconta di un’invasione orchestrata dalla Corea del Nord, logicamente impossibile senza la longa manus di una Cina imperiale, la minaccia più immediata al predominio sul Pacifico della superpotenza americana non più economicamente forte come un tempo. Il film non piace in Estremo Oriente e i mass media continuano a criticare fortemente l’opera, bersagliando Hollywood. Gli Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001 e l’attacco improvviso all’America (come accadde il 7 Dicembre 1941 con il bombardamento giapponese di Pearl Harbour) temono sempre l’ennesimo improvviso scacco matto. Mentre l’Europa sogna gli Stati Uniti continentali e la fine della crisi economica mondiale, cercando una “visione” unitaria per costruire la Pace, il Lavoro e il Pil, i giovani americani vogliono ritornare su un tema caro ai film della guerra fredda per demonizzare gli spettri di futuri avversari economici, politici e militari. Nessuno escluso. E in cima alla lista degli stati dichiaratamente “canaglia”, troviamo la Corea del Nord, l’ultima dittatura integralmente comunista sulla Terra, impenetrabile ai mercati, alla democrazia, a Internet, ma non ai satelliti ed ai droni spia. Temi assai cari agli scenari hollywoodiani sulla fine del mondo. Gli americani con Red Dawn, in verità, per chiudere in bellezza il 2012, vogliono comunicare dichiaratamente non tanto l’ostilità alla Corea del Nord, quanto allo strapotere economico e finanziario dell’impero cinese. Il Dragone rosso dal canto suo non ha certo la fama di essere una nazione liberale, dove ancora la censura impone i suoi diktat su quello che si può o si deve dire, scrivere, far vedere anche su Internet. Senza contare le dure condizioni di lavoro sovrumano cui sono sottoposti non solo i minatori di carbone che muoiono a decine di migliaia ogni anno nelle viscere della terra. La nuova Alba Rossa “revisionata”, tuttavia, rischia di passare alla storia come la pellicola più paranoica e “politically correct” che si ricordi. Neppure ai tempi dell’Unione Sovietica, Hollywood si piegava alle pressioni politiche! La censura diplomatica ha parlato e comandato il da farsi? Perché si sa, oggi comanda la Cina anche in Europa e in Italia. Ma questa non è l’unica preoccupazione dei critici. Nonostante gli accordi economici mondiali siano sempre più focalizzati sull’asse tra Usa e Cina, il popolo cinese rischia di perdere la fiducia nel mondo libero e di far aumentare il grado di paura in coloro che ancora non sono percepiti come amici e veri alleati. Il bello è che la Cina è sì uno stato oppressivo ed illiberale, ma tecnicamente non lo si può più qualificare autenticamente “comunista” visto che nel Celeste Impero sono stati così scaltri da abbandonare il modello economico marxista, adattandosi ai tempi ed alle mode dell’economia di mercato. Il trattato sul commercio mondiale ha completato l’opera, aprendo alla Cina la conquista del mondo e dello spazio cosmico. D’altra parte se i diritti sindacali cinesi sono uguali a zero (anche in Italia), se la casta burocratica di partito dei nuovi “mandarini” in madrepatria tiene in pugno l’economia del Dragone Rosso, è giusto aver timore delle possibili conseguenze di una frattura tra gli alti comandi militari e il vertice politico-economico qualora le condizioni sociali dovessero peggiorare se non precipitare. La moneta cinese è molto forte: quando acquistiamo prodotti made in China (anche quelli assemblati nel Celeste Impero) spediamo i nostri soldi alla Bank of China che è il primo Istituto di credito estero degli Usa. Non si può imbrigliare la potenza di un drago a proprio piacimento. Uno scenario davvero catastrofico che sinceramente il nuovo film Alba Rossa (nel cast i protagonisti nel ruolo dei fratelli Eckert in fuga dalle autorità nordcoreane, sono Chris Hemsworth, il capitano Kirk in Star Trek, Josh Peck, Jeffery Dean Morgan e Will Yun Lee) cerca di esorcizzare. La crisi economica mondiale (crisi della finanza pubblica, del debito, della fiducia e del credito) non aiuta. Ormai la Cina sta diventando la Banca della Terra. I suoi prestiti sono essenziali non solo per l’economia americana ed europea. Se a questo aggiungiamo anche gli attacchi informatici contro Google ed altre società Internet americane in Cina, il quadro si complica ulteriormente. I recenti attacchi a Google contengono un livello di sofisticatezza superiore alla norma e non sono tipici di hacker isolati. Il sospetto di Google e di molti altri esperti, è che dietro l’incidente del 2010 vi sia stata la mano di Pechino. Gli attacchi del Gennaio 2010 avrebbero colpito almeno 30 società americane, tra cui anche Adobe. Il Dipartimento di Stato americano ha protestato formalmente con il governo cinese in merito agli attacchi informatici subiti da Google in Cina. Gli Stati Uniti hanno chiesto spiegazioni a Pechino su come l’attacco sia potuto accadere e su come il governo intenda procedere. Google ha detto di non voler più censurare i risultati di ricerca Internet in Cina sui suoi siti e ha minacciato di abbandonare completamente il Paese per gli hacker che hanno violato gli account di posta elettronica Gmail di molti utenti, in particolare di attivisti dei diritti umani. Dunque, lo scontro è già cominciato per il controllo informatico e finanziario del pianeta. Se solo immaginiamo l’ammontare di danaro elettronico virtuale in circolazione, capiamo bene cosa c’è in ballo. Le nuove regole della partita in atto, chi le scriverà? I missili nordcoreani decollano per conto terzi? Il fatto è che la Cina sogna, dentro e fuori la Grande Muraglia, scenari da incubo per gli occidentali. Le forze in campo sono considerevoli. L’attuale potenziale militare dell’esercito cinese, il più grande del mondo, viene valutano dagli analisti in circa 2.285.000 soldati effettivi con 14.580 carri armati di ultima generazione, decine di sottomarini lanciamissili, 1.907 velivoli da combattimento, 4mila mezzi per la fanteria e 25mila per la sola artiglieria. L’attuale forza degli ufficiali 20 missili balistici intercontinentali ICBM della Cina, è usata principalmente come forza deterrente. La principale componente del sistema è il Dong Feng-5 un missile a propellente liquido, con una gittata stimata di 13mila km, che può trasportare una singola testata di multi-megatoni. Il Dong Feng-5 è stato schierato, la prima volta, nell’estate del 1981 ed è rimasto la spina dorsale della forza di ICBM della Cina per venti anni. Venti Dong Feng-5 di prima linea, si crede, sarebbero in stato di allerta permanente da qualche parte nella Cina Centrale. Il Dong Feng-5 è un drastico cambio dalle prime versioni dei missili balistici della Cina. Tali primi missili erano depositati soprattutto, in caverne e venivano spostati all’esterno per il lancio. Il Dong Feng-5 può essere lanciato da silos verticali dopo poche ore dal ricezione dell’ordine al loro equipaggio di lancio. Il raggio operativo del Dong Feng-5 dà alla Cina la possibilità di lanciare piccoli attacchi nucleari contro la maggior parte dell’Europa, dell’Asia e alcune zone degli Usa, soprattutto il sudest del Paese. Oggi, altre piattaforme missilistiche sono schierate o sono testate per un possibile impiego da parte della Cina: il missile a medio raggio DF-31, che è divenuto operativo nel 2005, e la sua versione a lungo raggio DF-41, che si ritiene sia operativo dal 2010. Entrambi i missili, a propulsione solida, sono basati su lanciatori mobili. Gli analisti ritengono che la Cina tenti di produrre per i suoi nuovi missili gli assai più avanzati Veicoli di Rientro Multiplo dal Puntamento Indipendente (MIRV) che muterebbero completamente gli scenari strategici del mondo. La Cina schiera anche missili balistici a raggio intermedio e a raggio medio. Tali sistemi d’arma sono capaci di minacciare la sicurezza di molti paesi dell’Asia, inclusa l’India, ma i suoi effetti sulla sicurezza strategiche della Russia sembrano minimi. Il sistema missilistico intermedio della Cina è anche capace di colpire target sulle città della costa giapponese e le basi USA in Corea del Sud e Giappone. Il vettore missilistico più obsoleto usato dalla Cina è il quasi stazionario missile DF-3A. Tale piattaforma missilistica è in via di dismissione in favore dei più moderni sistemi DF-4 e DF-21. Il DF-4, con una gittata massima operativa di 4750 km, è ancora l’ossatura della forza di deterrenza regionale della Cina. Il DF-4 è un missile a propellente liquido che opera da siti di lancio fissi. Con lo schieramento del DF-21 nel 1986, le capacità della forza missilistica balistica regionale della Cina sono raddoppiate. L’operativo DF-21 ha una gittata di 1800 km, è trasportato da un lanciatore mobile per motivi di sicurezza. La versione più vecchia del missile a propellente liquido, può trasportare una singola testata termonucleare della potenza stimata di 3,3 megatoni. La Cina possiede anche un limitato numero di batterie di missili balistici a corto raggio. Il DF-11/M-11, con una gittata operativa di 300 km, e il DF-15/M-9, con una gittata di 600 km: sono l’ossatura della forza tattica della Cina considerato che molti di tali piattaforme missilistiche sono configurate per il lancio di piccole testate nucleari. Ma queste sono cifre per difetto senza contare le preponderanti forze aereo-navali e il deterrente termonucleare segreto. Un’opzione militare è sempre l’ultima spiaggia per la difesa degli interessi nazionali Usa. La storia del Giappone docet. Ma la sensazione che suscita il best-seller “Il sogno della Cina” scritto da un colonnello dell’esercito che racconta come il Celeste Impero diventerà la più grande superpotenza mondiale dopo l’America e l’Europa (Russia compresa), è in linea con lo spirito dei due film “Alba Rossa”. Prima economicamente e poi culturalmente, la Cina userà la forza per difendere i propri interessi nazionali nel Pacifico sulle orme dell’attuale Occidente che cerca di imporre al Dragone Rosso “regole” (anche ambientali) in grado di soffocare la spinta propulsiva dell’economia cinese. E così le librerie di Pechino e delle maggiori città d’oriente, parlano una lingua che fa paura al resto del mondo. Il libro, scritto da Liu Mingfu, un colonnello dell’esercito popolare che insegna studi strategici all’Università militare, continua a vendere decine di migliaia di copie. Fatto strano per un manuale di strategia ad uso dei soli addetti ai lavori. Il sogno che il Dragone Rosso diventi presto la prima potenza mondiale, è già condiviso pacificamente da decine di milioni di lavoratori cinesi in tutto il mondo. Mai così taciturni e indaffarati come formiche nel produrre la loro ricchezza nazionale, mentre le cicale occidentali cantano strane armonie. E non ci sarebbe nulla di male: un esempio di nazionalismo cinese fondato sul lavoro, sulla produzione e non sulla guerra. Al massimo si tratterebbe di sciovinismo, di grandeur asiatica, che da occidentali dovremmo rispettare facendo però bene attenzione a far rispettare alla Cina le nostre regole costituzionali e sindacali in vigore nelle moderne democrazie in fatto di mercato del lavoro e di diritti della persona. Nel libro, tuttavia, uno dei maggiori strateghi del più grande esercito del mondo, pianifica ben altro. L’espansione economico-politica del Celeste Impero che altro non sarebbe che un’aperta sfida estrema all’Occidente, in primis agli Stati Uniti d’America, oggi la più grande democrazia sulla Terra dopo l’India. Una sfida senza esclusioni di colpi che contempla anche l’opzione militare. E, vista e considerata la proverbiale pazienza trimillenaria dei cinesi, in grado di programmare alla lunga qualsiasi cosa (anche la conquista dei vicini sistemi solari), il piano novantennale di Liu Mingfu prevede che servano almeno trent’anni per sviluppare in pieno il prodotto interno sino a renderlo maggiore di quello degli Stati Uniti. Altri trent’anni per sviluppare una forza militare e un’influenza culturale uguale o superiore a quella occidentale. E un altro trentennio per superare Stati Uniti ed Europa (sempre che l’euro-dollaro sopravviva alla crisi!) come prodotto interno pro capite. Secondo Liu Mingfu l’opzione militare non deve essere esclusa perché “se anche la Cina diventasse capitalista come e più degli Stati Uniti d’America, Washington farebbe comunque di tutto per contenere la sua espansione”. Il timore del colonnello cinese è più che altro proiettato ai prossimi 20 anni, periodo nel quale gli statunitensi, secondo lo stratega, potrebbero essere più tentati di mettere un freno al carroccio del Dragone Rosso. Il libro è un chiaro ammonimento delle gerarchie militari al governo di Pechino che nel 2010 aveva deciso di limitare la crescita del budget delle forze armate. Invece di dare il solito 10% in più, Pechino aveva aumentato le risorse dei militari di un misero 7,5%, portando il budget per la difesa a 81,1 miliardi di dollari, dopo una crescita del 358 percento nei primi dieci anni del XXI Secolo. Una percentuale che sarebbe fantastica per qualsiasi stato maggiore occidentale. Ma non per la Cina. Lo stratega precisa che anche se “la Cina ha bisogno sia di una crescita economica che di una crescita militare, la competizione con gli Usa non prenderà per forza la forma di un conflitto mondiale e forse nemmeno quella della guerra fredda. Non sarà come un duello a colpi di pistola o un match di boxe, sarà piuttosto come una gara di atletica o come una maratona che si protragga molto a lungo”. Una maratona che i nazionalisti cinesi convinti che “la Cina sarà la potenza egemone del XXI secolo”, preferiscono correre armati delle migliori tecnologie. Così Pechino si è sbarazzato delle armi datate dell’era sovietica e ha sviluppato un’industria interna per la difesa. Il Sogno della Grande Cina è soltanto la punta dell’iceberg di un’ondata di scritti nazionalisti che in Europa e negli Usa sono totalmente ignorati perché non vengono regolarmente tradotti e diffusi. Ci sono decine di saggi e pamphlet dai toni accesi verso l’Occidente e che invitano il governo a respingere qualsiasi intromissione nell’ambito dei diritti umani (Tibet) o a fare la voce grossa con chiunque aiuti Taiwan e la Corea del Sud. “Cina infelice” e “La Cina può dire no”, sono due libri a firma di Song Quiang e relativi coautori, uno degli scrittori più duri con le democrazie occidentali. E i cinesi leggono molto. “Cina infelice” pare abbia venduto 100mila copie in un solo mese. Numeri che non sembrano da capogiro nell’immensità del mercato editoriale del Celeste Impero. Ma è un fatto che il tema dell’orgoglio a mandorla tiri anche qui in Italia quando si cerca di fare breccia nella cultura popolare cinese sul nostro stesso territorio nazionale. Comunità chiuse, inaccessibili e impenetrabili nell’era digitale! E c’è chi parla di un destino manifesto che parte da Mao e arriva all’attuale dirigenza, che non si può svendere in cambio di finte “libertà” occidentali fautrici di vizi morali tra i giovanissimi. Tant’è che queste posizioni estreme creano imbarazzo anche al governo cinese che, in molti casi, ha tutto l’interesse ad assumere atteggiamenti più morbidi almeno all’apparenza. Lo spauracchio che più spesso gli ultrà della Cina dura e pura agitano di fronte ai loro lettori, è quello di fare la fine dei giapponesi. Che negli anni Ottanta del XX Secolo sognavano di superare l’economia americana e ora si accontentano di essere riccamente secondi o terzi. Ad alcuni in Cina questo sembra un destino non soltanto atroce ma semplicemente inconcepibile. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica comunista e la sconfitta politico-militare del Patto di Varsavia con la vittoria della Nato e dell’Occidente democratico e liberale in Europa (fatti che il presidente Putin nel suo discorso di insediamento alla Duma ha evidentemente ignorato alcuni giorni fa), chi può invadere realmente con successo i cari e vecchi Stati Uniti d’America, se non la Cina con i suoi micidiali carri armati nucleari magari dopo un colossale black-out elettromagnetico? La differenza dal “sogno” originale del colonnello, potrebbe però essere non tanto il nemico quanto la natura della strategia oggi raccontata nel nuovo film Alba Rossa. “Siamo qui per essere d’aiuto!”. Niente di più vero nel bel mezzo della peggiore crisi economico-finanziaria dal 1929, davvero senza precedenti nel XXI Secolo. Perché questa potrebbe essere la giustificazione ufficiale della macchina di propaganda cinese ovvero nordcoreana ovvero venezuelana ovvero africana dopo un’eventuale invasione degli Stati Uniti e dell’Europa per riportare l’ordine e la sicurezza in una società dilaniata da una nuova guerra civile e dalla povertà. Solo fantapolitica hollywoodiana? “La vostra libertà era una bugia”, “Riparare la vostra economia” e “Combattere la corruzione corporativa”, sono le frasi che, grazie a Red Dawn, si trovano affisse nelle strade americane controllate da un esercito che ha attraversato l’Oceano Pacifico, per la prima volta dopo diecimila anni. Forse per vendicare i Nativi Americani trucidati durante la conquista del West, guarda caso di origine asiatica pure loro? È la profezia dei Nativi Americani che si avvera nella nuova Alba Rossa? Se 28 anni fa erano i sovietici ad essersi “sacrificati” per il bene della società americana, adesso dovrebbero essere i nordcoreani a vestire i panni del “buon samaritano” e organizzarsi per il bene comune. Perché l’Europa non aiuterà gli Stati Uniti. Il nuovo film di Dan Bradley promette scintille tra le diplomazie, i critici e quotidiani di mezzo mondo. Nel classico stile hollywoodiano il film non lesina azione ed esplosioni. Anche in questo caso, come nella pellicola di Milius del 1984, per opporsi agli invasori i ragazzi formeranno un gruppo clandestino di resistenza chiamato Wolverines. La principale differenza tra l’originale e il remake, è lo scenario diverso delle condizioni politiche reali nel periodo di produzione. Se nel 1984 eravamo ancora in piena guerra fredda e il “paradiso socialista” dell’Urss era l’avversario da contrastare sia ideologicamente sia militarmente, adesso la Cina è più inquadrabile come un rivale economico proiettato alla conquista dello spazio cosmico dove tutto diventa possibile. E la Corea del Nord, giovane potenza nucleare, ha fiutato l’affare. Per questo continua a scimmiottare esperimenti missilistici (davvero fallimentari?), l’unica vera seria minaccia alla pace mondiale. Chi conquista i cieli e lo spazio, domina il mondo. Il nuovo Red Dawn, nell’esorcizzare le minacce future che potrebbero scaturire da patologie politico-militari, frutto di errori delle diplomazie mondiali, ci ricorda che esiste una Cina diversa per ognuno di noi. La scacchiera orientale è tutt’altro che tranquilla. Il “marchio giallo” avanza. Le spie sono sempre al lavoro per carpire segreti militari e tecnologici. Taiwan è alle prese con il peggior caso di spionaggio da mezzo secolo. Un suo generale avrebbe  passato informazioni a Pechino forse compromettendo la capacità di difesa dell’isola. Gli “infiltrati” abbondano ovunque anche in Occidente. Il Giappone ha rivisto la sua strategia di difesa (57 miliardi di dollari nel 2010, con una crescita del 3 per cento nei primi dieci anni del XXI Secolo) forzando i limiti della sua legislazione pacifista, perché teme la Corea del Nord, cioè la Cina, ora la seconda economia del mondo, sempre più influente in Asia, nel Pacifico e in Africa. Pechino non nasconde il fatto che stia già potenziando la propria capacità militare, rassicurando tutti sulle pacifiche intenzioni dei suoi oltre 81 miliardi di dollari ufficiali di budget militare, impiegati per fini esclusivamente difensivi. Certamente oggi la Cina non minaccia nessuno. Ma se l’Italia aumentasse il budget per la difesa con tali cifre, cosa direbbe Pechino? Affannarsi a giustificare la corsa alle armi, è un atto di pace? L’India, la più grande democrazia asiatica, ha incrementato le sue spese militari del 151 per cento (nel 2010 le spese militari ammontavano a 32,3 miliardi di dollari). Tutti sanno che ricorre a tecnologia francese per ampliare la sua flotta sottomarina. La Corea del Sud si difende con i suoi 26,5 miliardi di dollari ritoccando il piano del 2006. Il riarmo interessa anche la Malaysia (5,3 miliardi di dollari, incremento del 51 per cento) e Singapore (9 miliardi di dollari di bilancio nel 2010, più dell’Indonesia, incremento del 46 per cento). Il Vietnam ha stanziato 2,7 miliardi di dollari. Tutto questo mentre i primi duecento marines americani sono giunti nella città australiana di Darwin, situata nel nord del Paese, dove rimarranno sei mesi per partecipare alle esercitazioni congiunte con i militari australiani. Dopo sei mesi il primo gruppo di marines americani sarà sostituito con un’unità più grande. Entro il 2017, in seguito all’avvicendamento delle truppe con tendenza di crescita della loro consistenza numerica, il contingente militare USA nel nord dell’Australia raggiungerà i 2.500 uomini. Pechino ha espresso prima il timore che gli accordi sullo dispiegamento dei marines USA in Australia siano volti a contenere la Cina. L’Australia, dopo aver ritirato le truppe dall’Afghanistan, in vent’anni spenderà circa 280 miliardi di dollari per la propria sicurezza militare. L’attenzione degli Usa per il Pacifico è sempre forte. E la Cina non sta a guardare, triplicando il suo budget militare in 10 anni. Pechino vanta 160 testate termonucleari e oltre 60 sottomarini. L’11 Gennaio 2011 è stato annunciato il primo volo del jet Stealth (invisibile) da combattimento J-20, per i cinesi “caccia di quarta generazione”, suscitando l’attenzione degli Usa che venti anni prima ne avevano sperimentato il prototipo, l’F-22. La prima portaerei cinese sarà pronta prima del 2014. Gli Usa hanno ammesso che il missile balistico antinave Dongfeng 21D ha raggiunto una “capacità operativa iniziale” avviando un cambiamento degli equilibri regionali. A Pechino si teme un accerchiamento da parte degli Usa, tra il Pacifico e l’Asia centrale. I cinesi si preoccupano e Washington studia la scacchiera internazionale. Gli Stati Uniti vogliono conservare il controllo degli spazi comuni (mari, cieli, spazio e cyberspazio) funzionale alla loro egemonia. Pechino è l’unica potenza in grado di impedirglielo.  La propaganda gioca la sua parte, spostando le pedine là dove occorre.  Se l’Aviation Industry Corporation of China (azienda statale) ha fatto sapere di voler concorrere, insieme con la statunitense Us Aerospace, alla realizzazione del futuro elicottero presidenziale americano, è giusto sostituire gli invasori cinesi con i nordcoreani nel nuovo film Red Dawn. Pechino, d’altra parte, preme sull’Europa indebitata perché venga abolito l’embargo sugli armamenti e la tecnologia ad uso anche militare varato nel 1989 dopo Tienanmen. Un bando, ricordiamo, che la Cina giudica iniquo e antistorico poiché ha offerto campo libero alla Russia. L’escalation del riarmo mondiale è lapalissiana. L’Asia è un coacervo di rivendicazioni e focolai di crisi. Cina e India hanno la regione dell’Arunachal Pradesh e pezzi di confine ancora contesi. Pechino costruisce porti e infrastrutture tra Pakistan, Sri Lanka, Bangladesh e Birmania, allarmando l’India. La Corea del Nord è una mina innescata. Taiwan e la Cina si avvicinano ma le alleanze politiche le dividono. E poi ci sono le isole sul Pacifico, un autentica polveriera: dalle Kurili (Russia-Giappone) alle Senkaku/Diaoyu (Giappone-Cina) fino alle Spratly e le Parecel (Cina-Vietnam), ed altre che, ignote ai più, rappresentano un labirinto di tensioni storiche. Nuovi interessi sparigliano alleanze consolidate. Gli Stati Uniti trovano nel Vietnam, antico nemico, un alleato importante e interessato. Per non irritare troppo Pechino cosa faranno? La disponibilità vietnamita ad aprire la base navale di Cam Ranh alle marine militari straniere, utili a contenere Pechino, è un’avventura pericolosa. Sul New York Times Abraham M. Denmark dichiara:“Una minaccia è la combinazione di capacità e intenzioni. Le capacità si stanno definendo sempre meglio, e sono mirate a limitare la possibilità americane di proiettare la sua forza militare nel Pacifico occidentale. È il loro intendimento che non ci è ancora chiaro”. Giappone sorpassato, la Cina è diventata ufficialmente la seconda economia più grande del mondo. La sua crescita, secondo gli analisti, dipende oggi dagli investimenti più che dalle esportazioni, mentre il suo livello di sviluppo è ancora molto lontano da quello dei paesi ricchi. Il superamento del Paese del Sol Levante, sicuramente previsto, alimenta nuove tensioni. Dopo il sorpasso della Germania nel 2007, l’economia cinese ha preso il sopravvento sul Paese dei meravigliosi ciliegi in fiore, dal secondo trimestre del 2010. Per tutto quell’anno, il Prodotto interno lordo registrato dal Giappone è stato di circa il 7 percento inferiore a quello annunciato dalla Cina. Dopo tre decenni di riforme e di crescita sfrenata, il Paese più popoloso del mondo (oltre 1,3 miliardi di abitanti) “è in competizione in termini assoluti con il Giappone” – dichiara Jean-François Huchet, direttore del Centro Studi sulla Cina Contemporanea a Hong Kong. La Cina ha un reddito pro capite che è ancora dieci volte inferiore a quello del Giappone ed è molto indietro rispetto a Tokyo, se si prendono in considerazione fattori di sviluppo come l’accesso all’istruzione. Se la ricchezza di alcune aree si avvicina a quella dei Paesi sviluppati, in altre regioni si riscontrano ancora i problemi dei Paesi in via di sviluppo. Per superare gli Stati Uniti, un passo decisamente simbolico ed epocale, alla Cina serve la qualità più che la quantità dei prodotti da esportare. Il governo cinese dispone di oltre 2.800 miliardi di dollari di riserve estere, in grado di decidere le sorti di intere nazioni indebitate. Le decisioni di Pechino pesano come mai prima d’ora sulle economie e sulle politiche dei Paesi occidentali ricchi e poveri. Se la Cina saprà affrontare una serie di squilibri difficili da correggere sul mercato interno (inflazione e tensioni sociali), allora la sua crescita sarà trainata principalmente da investimenti ed esportazioni, vincendo sulle bolle speculative estere. Quindi, c’è molta carne al fuoco per il nuovo film Red Dawn, le cui radici poggiano nella Storia vera. Nell’Ottobre 1962, due aerei spia U2 statunitensi in ricognizione nello spazio aereo di  Cuba scopre la presenza di installazioni missilistiche nucleari sovietiche a medio raggio sul territorio cubano. Fatti raccontati nell’esemplare pellicola “Thirteen Days”(Usa, 2000) di Roger Donaldson. È il 15 Ottobre 1962. Il mondo trema per tredici giorni, sull’orlo dell’olocausto termonucleare della Terza Guerra Mondiale. È l’inizio di una lunga serie di discussioni e pressioni diplomatiche in seno ai governi Usa e Urss, di quella che sarebbe stata una delle crisi più pericolose che la Terra avrebbe vissuto da lì in avanti. La crisi dei missili di Cuba ebbe il suo picco il 24 Ottobre 1962 e venne risolta in pochissimi giorni, mettendo fine alla possibilità di una guerra nucleare dagli effetti devastanti per il pianeta. Papa Giovanni XXIII pregò per la Pace mondiale chiamando alla preghiera tutti i fedeli cristiani. La crisi dei missili di Cuba rischia di ripresentarsi tremendamente contemporanea se si pensa all’accesa disputa sulle armi nucleari in Iran. Gli Stati Uniti di Kennedy riuscirono alla fine a sottomettere l’Unione Sovietica costringendola a rimuovere le proprie installazioni missilistiche da Cuba e, grazie all’embargo totale imposto dagli Usa sull’isola caraibica, a far cambiare rotta alle navi sovietiche cariche di testate termonucleari. Sono molteplici le ragioni della vittoria americana da ricercare sia nella superiorità nucleare statunitense sia nella vicinanza geografica dell’area oggetto della contesa. Quello che gli statunitensi sanno e ricordano molto bene è, come ha sottolineato il presidente emerito del “Council on Foreign Relations” ed ex corrispondente per il New York Times, Leslie H. Gelb, che “JFK succeeded without giving an inch”: Kennedy non concesse ufficialmente spazio alcuno di manovra ai sovietici. Nessuna concessione all’Unione Sovietica. Così Washington  dipinse la situazione per circa vent’anni. Ma la realtà è che la politica del pugno di ferro nei confronti dell’Unione Sovietica fu accompagnata da un’abile azione diplomatica frutto di un sistema di mutue concessioni: l’Unione Sovietica accettò di rimuovere il proprio arsenale dall’isola, in cambio gli Stati Uniti promisero di non attaccare il regime di Castro e soprattutto di rimuovere i propri missili (obsoleti) dalla Turchia. Cinquant’anni fa gli Stati Uniti accettarono di scendere a patti con la controparte pur di non incorrere nel rischio di uno scontro ben più pericoloso. Non si trattò di un compromesso che non è certo nella lista dei termini favoriti degli Stati Uniti per quanto riguarda le politiche estere. Fu soprattutto per la protezione degli interessi strategici del Paese. Le risorse energetiche, al pari del nucleare militare, sono in cima alla lista delle priorità Usa. Ed infatti quel che accadde realmente a Cuba fu tenuto segreto fino al ventesimo anniversario della crisi e sempre Leslie Gelb, che dal 1967 al 1969 lavorò al Dipartimento della Difesa, ha dichiarato come dopo l’offensiva del Tet del 1968 non fosse nemmeno permesso cercare un compromesso nei confronti del Vietnam. Il film Red Dawn è una nuova scossa per i giovani americani. Washington si ritrova oggi nuovamente al centro di un’accesa questione sulle armi nucleari. La misura è quasi colma! Stavolta  Iran e Israele rischiano grosso. E se la crisi non sarà affrontata da un buon Presidente degli Stati Uniti, ancora una volta con lo stesso atteggiamento di Kennedy e della superpotenza decisa a non scendere a patti con nessuno, il mondo potrebbe finire per davvero! Il trattato di non proliferazione delle armi nucleari, secondo gli analisti, permetterebbe a Teheran di aumentare, pur con stretti controlli, le sue dotazioni di uranio di un 5 per cento, anche se questa sembra essere un’opzione che Washington non è disposto nemmeno a discutere. L’unica soluzione accettabile per gli Stati Uniti è privare completamente l’Iran della possibilità di dotarsi di armi nucleari, che alcuni vedono come inevitabile. Le opinioni a proposito di un improvviso attacco preventivo  militare all’Iran sono contrastanti. Da un lato c’è chi spinge verso la guerra regionale a bassa intensità, sostenendo che un intervento militare non può produrre effetti peggiori di quelli che provocherebbe un arsenale nucleare iraniano. Dall’altra c’è chi afferma che una gestione diplomatica della nuova crisi potrebbe contemporaneamente ridurre i rischi e migliorare le relazioni tra Usa, Iran e Israele per la cooperazione scientifica e tecnologica pacifica. Le diverse politiche utilizzate dagli Usa nei confronti dell’Iran nemico e dell’alleato Israele sulla questione nucleare, non aiutano a diminuire le tensioni. Alcuni analisti suggeriscono che gli Usa potrebbero ricercare una soluzione che permetta di raggiungere una maggiore stabilità in Medio Oriente piuttosto che una guerra regionale decennale dalla portata incalcolabile. Non depongono a favore di una soluzione pacifica gli storici attacchi israeliani agli impianti nucleari iraniani. Un colonnello israeliano che aveva partecipato ad una di queste azioni, morì da astronauta sullo Space Shuttle Columbia disintegratosi in circostanze assai strane nel 2003 al rientro nell’atmosfera terrestre. Proteggere Israele da eventuali rappresaglie ed alleggerire le tensioni nella regione senza apparire esitanti non sarà facile per il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America. Come non sarà facile restare fuori dal conflitto nel caso di un attacco all’Iran da parte di Israele, assalto che potrebbe condurre Teheran a soluzioni estreme per ottenere il nucleare. La guerra in Iraq è un esempio piuttosto recente di quello che potrebbe accadere. L’intervento militare, anche se preventivo, può facilmente degenerare. Altre opzioni dovrebbero essere prese in considerazione prima di lanciare una guerra che potrebbe coinvolgere l’intera Europa. Come la situazione verrà gestita dagli Usa, sarà uno dei punti fondamentali dell’agenda della prossima presidenza. Sarà sicuramente una questione cruciale che potrà far pendere l’ago della bilancia verso l’attuale presidente o verso il repubblicano Mitt Romney durante le prossime elezioni del 6 Novembre 2012. Gli Stati Uniti sono appoggiati nella loro campagna contro il nucleare iraniano dall’Unione Europea, come dimostrano le sanzioni imposte recentemente dall’Europa all’Iran. Quello che resta da vedere è se la Ue sarà disposta a fornire il proprio appoggio, in piena crisi economica, anche nel caso di una guerra. Quel che è certo è che non sarà così facile per Washington impedire che l’Iran ottenga ciò che vuole, diplomaticamente o militarmente. Gli Stati Uniti non amano scendere a patti, non senza poter dimostrare una supremazia sull’avversario. E L’Europa tergiversa in attesa degli eventi. Il conflitto tra le due superpotenze USA-Urss è analizzato, dibattuto e interpretato, ma ancora oggi molti aspetti sconosciuti della vicenda, e che la storia ancora oggi ignora, potrebbero mettere in luce una verità ancor più pericolosa e inquietante rispetto alla realtà sinora raccontata sui libri di storia e di cui siamo tutti al corrente. Qual era la dotazione degli armamenti strategici? Quale il suo potenziale di distruzione? Nell’ultimo numero di “Nuclear notebook”, Robert S. Norris, membro senior della Federation of American Scientists a Washington, e Hans M. Kristensen, direttore del Nuclear Information Project del FAS, hanno analizzato e indagato le informazioni-chiave a disposizione dei funzionari militari e civili, sia degli Stati Uniti sia dell’Unione Sovietica, al culmine della crisi, nei tredici giorni più lunghi del 1962. Il dettaglio sul numero e sullo stato delle armi in dotazione è stato ampiamente trascurato da molti autori, esperti e ricercatori nel corso degli ultimi 50 anni. Molte armi nucleari, sia statunitensi sia sovietiche, erano operative e molte di esse immediatamente disponibili per l’uso.  Gli autori ritengono che solo quando il mistero circa l’effettiva operatività dei rispettivi sistemi di armamento sarà risolto, sarà possibile valutare la vera natura della crisi dei missili di Cuba. Per calcolare con precisione il rischio di un conflitto mondiale nucleare, è fondamentale che venga chiarito il cosiddetto “Nuclear Order of Battle”. Questo può essere suddiviso in tre categorie. Forze locali: armi nucleari sovietiche e statunitensi presenti a Cuba e nei dintorni. Forze regionali: sia le armi tattiche degli Stati Uniti in Europa per colpire obiettivi in Unione Sovietica, sia le armi sovietiche nell’Europa occidentale dell’Urss destinate ad obiettivi europei. Forze globali: armi nucleari strategiche degli Stati Uniti, missili balistici intercontinentali ICBM, sottomarini lancia missili balistici SLBM e bombardieri a lungo raggio, in grado di raggiungere l’Unione Sovietica. E, naturalmente, armi nucleari strategiche sovietiche, capaci di raggiungere gli Stati Uniti. Come sarebbe finito il mondo nell’Ottobre 1962? Centocinquantotto testate nucleari sovietiche di cinque differenti tipi erano già a Cuba nel momento in cui fu imposto il blocco militare, il 24 Ottobre. Neppure oggi sappiamo quanto fossero realmente pronte ad intervenire o se fossero destinate specificamente alle città degli Stati Uniti.  In Europa, gli Stati Uniti disponevano di circa 500 armi nucleari per attaccare obiettivi occidentali in Unione Sovietica. Con le sue 550 l’Unione Sovietica aveva un arsenale leggermente più grande per colpire obiettivi europei. Il  premier sovietico Nikita Krusciov e i suoi consiglieri militari sapevano che le forze nucleari strategiche statunitensi erano numericamente inferiori, con un rapporto di 17 a 1 nel 1962. “Molto è stato scritto sulla crisi – dichiara Norris –  anche così, in decine di migliaia di pagine che interpretano e analizzano questo conflitto, mancano informazioni essenziali, in particolare, in merito ad un ordine globale nucleare di battaglia NOB. Esaminare in dettaglio lo stato di ogni armamento può mostrare la vera natura della crisi”. Grazie a Dio, Kennedy e Krusciov sappiamo (altrimenti non saremmo qui a raccontarlo) che una guerra nucleare globale fu evitata ma gli scenari geopolitici spinsero il mondo sull’orlo del precipizio. Allora il rischio fu probabilmente ancora più grave e pericoloso di quanto si fosse sinora pensato o stimato. Secondo la storia corrente, il presidente John F. Kennedy pubblicamente diffidò l’Unione Sovietica dall’introdurre i missili offensivi a Cuba. Il leader sovietico Kruscev decise di attraversare la linea rossa tracciata da Kennedy e di mettere gli americani di fronte al fatto compiuto. Alcuni dei consiglieri di Kennedy sollecitarono un attacco aereo e l’invasione per distruggere i missili. Kennedy mobilitò tutte le Forze Armate statunitensi, ma prese tempo annunciando il blocco navale su Cuba. La crisi si placò quando le navi sovietiche che trasportavano altri missili e testate si fermarono e tornarono in madre patria. Krusciov accettò di rimuovere i missili già installati sull’isola. Come dichiarò l’allora Segretario di Stato, Dean Rusk:“Siamo stati faccia a faccia, e credo che l’altro abbia appena sbattuto le palpebre”. Gli Stati Uniti, con il dito sul grilletto nucleare, decisero di non attaccare preventivamente le basi missilistiche sovietici relativamente vulnerabili. Perché il rischio che anche solo uno o due dei missili sovietici colpissero una città americana, scatenando l’apocalisse sulla Terra, era sufficiente a dissuadere da un primo attacco. Kennedy e Krusciov temevano che le strategie militari razionali e la cautela nei calcoli potessero sfuggire al controllo politico. Krusciov ne offrì una vivida metafora in una delle sue lettere a Kennedy, scrivendo:“Noi e voi non dovremmo tirare troppo le estremità della corda a cui è stato legato il nodo della guerra”. Nel 1987 quando un gruppo di studiosi si incontrarono alla Harvard University con i consiglieri ancora vivi di Kennedy per studiare la crisi, Robert McNamara, segretario alla Difesa di Kennedy, affermò che man mano che la crisi evolveva diventò più cauto. A quel tempo pensava che la probabilità di una guerra nucleare dovuta alla crisi avrebbe potuto essere una su 50. Valutò il rischio come molto maggiore dopo aver appreso nel 1990 che i sovietici avevano già consegnato le armi nucleari a Cuba. Douglas Dillon, il segretario del Tesoro di Kennedy, ha dichiarato che pensava che il rischio di una guerra nucleare fosse quasi nulla. Non vedeva come la situazione avrebbe potuto subire un’escalation fino alla guerra nucleare. Fu quindi  disposto a spingersi più in là con i sovietici ed a correre maggiori rischi rispetto a McNamara. Il generale Maxwell Taylor, presidente dello Stato Maggiore congiunto, riteneva che il rischio di una guerra nucleare fosse basso, e lamentava che gli Stati Uniti avessero lasciato che l’Unione Sovietica se la cavasse troppo facilmente. Pensava che gli americani avrebbero dovuto rovesciare il regime di Castro. Ma i rischi di perdere il controllo della situazione incisero pesantemente anche su Kennedy, che per questo adottò una posizione più prudente di quella che avrebbero voluto alcuni dei suoi consiglieri. La morale della storia? All’epoca un po’ di deterrenza nucleare rese molto. Tuttavia, molte ambiguità attorno alla crisi dei missili che rendono difficile attribuirne l’esito interamente alla componente nucleare, sono più vive che mai. Gli Stati Uniti vinsero soprattutto grazie al consenso pubblico. Secondo alcuni analisti ci sarebbero almeno due possibili spiegazioni del risultato, oltre alla resa sovietica al maggior potere nucleare americano. Una si concentra sull’importanza della rispettiva posta in gioco delle due superpotenze durante la crisi: gli Stati Uniti non solo avevano maggior coinvolgimento con la vicina Cuba rispetto ai sovietici, ma potevano anche mettere in campo forze convenzionali. Il blocco navale e la possibilità di un’invasione degli Stati Uniti rafforzarono l’attendibilità della deterrenza americana, condizionando psicologicamente i sovietici. L’altra spiegazione mette in dubbio la premessa che la crisi dei missili di Cuba sia stata una vittoria assoluta per gli Stati Uniti. Gli americani avevano tre opzioni: uno “shoot-out”, un rigore (bombardare i siti missilistici), uno “squeeze out”, ossia un’opzione (imporre il blocco a Cuba per convincere i sovietici a ritirare i missili), e un “buy out”, un investimento (dare ai sovietici qualcosa che loro volevano). Per molto tempo, i protagonisti della crisi hanno mantenuto la segretezza assoluta sugli aspetti di quest’ultimo punto della soluzione. Ma le prove successive suggeriscono che la silenziosa promessa di Kennedy di rimuovere i missili Usa obsoleti dalla Turchia e dall’Italia, fu probabilmente più importante di quanto si pensasse in quel momento. Gli Stati Uniti diedero anche pubbliche assicurazioni che non avrebbero invaso Cuba. Se così fosse la deterrenza nucleare pesò nella risoluzione della crisi e certamente la dimensione nucleare fu centrale nel pensiero di Kennedy. Ma non fu tanto il rapporto tra gli armamenti nucleari a contare quanto il timore che anche poche armi nucleari avrebbero causato una devastazione intollerabile. Quanto furono reali questi rischi? Il 27 Ottobre 1962, poco dopo che le forze sovietiche a Cuba avevano abbattuto un aereo di sorveglianza degli Stati Uniti uccidendo il pilota dell’U-2, un aereo simile incaricato del prelievo routinario di campioni di aria vicino all’Alaska violò inavvertitamente lo spazio aereo sovietico in Siberia. Fortunatamente, non fu abbattuto. Ma, ancora più grave, all’insaputa degli americani, le forze sovietiche a Cuba erano state incaricate di respingere l’invasione degli Stati Uniti e per farlo erano state autorizzate a utilizzare le loro armi nucleari tattiche. Fatti ignorati dai libri di storia. Secondo gli analisti è difficile immaginare che un tale attacco nucleare sarebbe rimasto solo tattico. Kenneth Waltz, uno studioso americano, recentemente ha pubblicato un articolo intitolato “Perché l’Iran dovrebbe ottenere la bomba”. In un mondo razionale, prevedibile, tale risultato potrebbe produrre stabilità. Nel mondo reale, la crisi dei missili cubani suggerisce che potrebbe non essere così. Come diceva McNamara, “abbiamo avuto una bella fortuna”. Che non si ripete nella storia. Il commentatore politico russo Eugene Ivanov, nel  ripercorrere le tappe di uno dei momenti più critici della Guerra Fredda, ricorda:“ avevo otto anni quando scoppiò la crisi dei missili di Cuba. Che ci crediate o no, la ricordo chiaramente”. Nonostante la tenera età, era particolarmente interessato alla politica. “Ascoltare la radio e leggere i giornali, erano ormai azioni entrate a far parte della mia routine quotidiana. Ovviamente, il quadro completo di quello che veramente accadde in quei tredici fatidici giorni di Ottobre del 1962 iniziò a formarsi solamente quando divenni grande. D’altronde non era possibile pretendere di avere le idee chiare con la propaganda sovietica dell’epoca. Ma ricordo perfettamente il tentativo di spingere i cubani e il loro carismatico leader Fidel Castro a ribellarsi contro gli “imperialisti”, contro gli Stati Uniti d’America. Un invito accompagnato dalla rassicurazione che l’esercito sovietico sarebbe stato in grado di sconfiggere chiunque avesse cercato di interrompere il cammino pacifico verso la costruzione del comunismo”. Ricorda poi una conversazione avvenuta nel cuore della notte tra i suoi genitori, convinti che stesse dormendo nella sua stanza. “Parlando a bassa voce, nel tentativo di non svegliarmi, mia madre chiese con ansia a mio padre cosa stesse accadendo. Lui, un uomo quieto e riflessivo, rispose cercando di apparire calmo e fiducioso. Senza però credere lui stesso a quello che stava dicendo, così come ho capito solamente molti anni più tardi. Finalmente, quando la crisi cessò, mi restò impressa una vignetta pubblicata sulla prima pagina della “Pravda”: il disegno rappresentava il leader sovietico, Nikita Krusciov, come il capitano di una nave, con il timone in mano. Al centro del timone c’era una bussola, e l’ago indicava la parola “Pace”. Mi sono riempito d’orgoglio nel rendermi conto che vivevo in un Paese che aveva contribuito a preservare la pace. La volta successiva in cui tornai a fare i conti con questa crisi, fu quando mio figlio a scuola, non molti anni fa (vivevamo già negli Stati Uniti), decise di scrivere un tema sulla crisi dei missili di Cuba. Fui felice di questa sua scelta e, con entusiasmo, mi misi a rispolverare alcuni documenti per aiutarlo”. Improvvisamente i suoi ricordi di infanzia tornarono ad essere nitidi, compresa la vignetta sulla Pravda. “In una forma che avrebbe fatto commuovere anche un veterano della Guerra Fredda, mio figlio scrisse che un giovane presidente americano riuscì a superare in astuzia un vecchio e stolto leader russo. La conclusione del tema era piuttosto semplice: scoppiò la crisi. Gli americani vinsero. L’Unione Sovietica perse. Decisi di non criticare l’opera di mio figlio. Tuttavia non riuscii a trattenermi del tutto, e gli chiesi:“Beh, visto che gli Stati Uniti possedevano basi militari vicino all’Unione Sovietica, in Turchia, perché allora all’Unione Sovietica non era concesso di tenere basi militari a Cuba, ovvero vicino agli Stati Uniti?”. Mio figlio non seppe rispondermi. Di questa cosa, in classe, non avevano discusso”. L’anniversario di qualsiasi grande evento offre l’opportunità di rivedere i fatti che hanno segnato la storia umana. “Lascio agli esperti stabilire quante gravi crisi mondiali sono state evitate dalla cosiddetta “hot line” tra Mosca e Washington, la linea di comunicazione diretta tra il Cremlino e la Casa Bianca nel periodo della crisi cubana. Per quanto mi riguarda comunque la lezione della crisi cubana può essere sintetizzata in poche semplici parole: bisogna conoscere il proprio nemico. All’epoca fui, infatti, colpito dal livello di ignoranza di entrambe le parti, che non conoscevano assolutamente nulla dell’avversario: né i piani né le intenzioni e tantomeno la mentalità. Spero che da allora le cose siano migliorate”. Cos’altro aggiungere? “Solo una piccola considerazione: i leader dei singoli Paesi dovrebbero sapersi ascoltare di più, gli uni con gli altri. Solo in questo modo la crisi cubana potrebbe restare per sempre l’unica crisi di tale portata che commemoreremo in futuro. O meglio, che celebreremo”. Se la pellicola di Milius era stata indicata come fortemente patriottica, forse uno degli ultimi esempi di cinematografia e narrativa in grado di affrontare il pericolo comunista e il tema della “resistenza americana”, qui nella nuova Alba Rossa siamo di fronte a una più tradizionale dimensione di storia alternativa (un universo mica tanto parallelo al nostro caratterizzato da una crescente “paranoica” resistenza culturale all’inevitabile successo della Cina!) che lascia sullo sfondo la politica e predilige l’azione dei giovani americani. Il pericolo giallo si materializza sul grande schermo con spettacolare efficacia drammatica. Ma è solo l’incipit della vera invasione che giungerà dai cieli ed unirà tutte le nazioni della Terra per la prima volta nella Storia dell’Umanità.

Nicola Facciolini

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