Ultime da Sandy e nuove paure americane

Ha già ucciso 48 persone e causato danni non inferiori al black-out del 2003, continuando a flagellare, spietata, la costa orientale degli Stati Uniti e minacciando, ora, le centrali nucleari nel New Jersey, dove, oggi pomeriggio, si recherà il presidente Obama che, nel frattempo, ha dichiarato lo stato di calamità. Si è già all’opera per […]

Ha già ucciso 48 persone e causato danni non inferiori al black-out del 2003, continuando a flagellare, spietata, la costa orientale degli Stati Uniti e minacciando, ora, le centrali nucleari nel New Jersey, dove, oggi pomeriggio, si recherà il presidente Obama che, nel frattempo, ha dichiarato lo stato di calamità.

Si è già all’opera per ripristinare i servizi pubblici che Sandy nel suo incedere devastante e luttuoso nelle prime 48 ore a frantumato e si lavora senza sosta a New York (e altrove), per ripristinare la metropolitana, mentre, da oggi pomeriggio, riaprirà l’aeroporto Kennedy, meno danneggiato del La Guardia.

Ma Sandy non si è limitata a colpire New York e condizioni critiche si registrano in ben dieci stati, soprattutto Connecticut, Maryland, North Carolina, Pennsylvania, Virginia e West Virginia, oltre che in Canada, dove ha ucciso una donna e inferto danni ingentissimi.

Tuttavia, siccome, come è noto, il denaro non dorme mai, Wall Street ha già riaperto stamani, mentre Lower Manhattan è ancora senza corrente e resterà tale per almeno quattro giorni e la Grande Mela ha cancellato la tradizionale parata di Halloween, annullata per la prima volta in 39 anni.

Tornando al denaro, il New York Stock Exchange non chiudeva per maltempo dal 1888 ed aveva chiuso tre giorni, dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre.

Dopo Katrina, Sandy è destinata a divenire il flagello più costoso d’America, con danni che potrebbero giungere alla cifra record di 100 miliardi, dieci volti più alti di quelli di Irene, che colpì gli USA la scorsa Estate.

Un brutto colpo per l’economia, come scrive il Wall Street Journal, mentre si sta tentando con ogni mezzo di risollevarsi dalla crisi più grave dai tempi della Grande Depressione.

Secondo Mark Vitner, economista presso Well Fargo Securities, l’uragano potrebbe, a causa di una riduzione dei consumi, frenare la crescita del quarto trimestre in un range compreso tra 0,1 – 0,2%.

Un duro colpo per Obama in questi momenti finali e febbrili di campagna presidenziale.

La potenza distruttiva della tempesta, che per ora non accenna a diminuire, è stata paragonata a quella del Great New England Hurricane: una forza della natura che, 74 anni fa, si abbattè sulle coste americane, provocando la morte di 800 persone e la distruzione e più di 57mila case, con perdite economiche stimate in 306 milioni di dollari di allora (equivalente a 4.7 miliardi di dollari attuali) e danni ancora visibili sino al 1951, diciotto anni dopo.

Sandy, che anche se declassata a tempesta continua a fare paura, continua a viaggiare verso Nord-Ovest, alla velocità di quasi 30 chilometri orari, con venti fino a 120 chilometri, che portano piogge intense e inondazioni su gran parte della costa atlantica e abbondanti nevicate sulle montagne della Virginia occidentale.

Dicono gli esperti che l’apice è stato toccato ieri e che ora la tempesta comincerà a decrescere.

Sempre gli esperti ci dicono che una delle caratteristiche più distintive, sta nel fatto che durante il suo percorso Sandy si è trovata molto a Nord, verso il Canada orientale ed ha incontrato un’area di alta pressione che ne ha rallentato la progressione verso Nord, contribuendo, invece, a spostarla verso il territorio americano. Un’altra caratteristica distruttiva è consistita nel fatto che il suo fianco destro, quello che ha provocato le mareggiate più devastanti, si è trovata proprio nei territori più densamente popolati, dal New Jersey in su, in pratica da Atlantic City fino a Nord, con un comportamento alquanto anomalo e del tutto sfortunato.

Comunque, ce chi è poco ottimista sui prossimi giorni ed afferma che la tempesta, sopranominata, nel frattempo, Frankenstorm, potrebbe entrare in collisione con un fronte freddo proveniente dal Midwest e con una corrente sempre fredda in arrivo dal Canada ed il mix fra i tre sistemi potrebbe dar vita ad un ibrido terrificante nella giornata di oggi.

La differenza principale tra un ciclone tropicale e un ciclone invernale, spiegano gli esperti del National Weather Service (Nws), è la loro fonte di energia. I cicloni tropicali ottengono il calore dal mare e crescono di intensità, rilasciandolo poi nell’atmosfera, vicino al centro della tempesta. I cicloni invernali come Sandy, invece, si alimentano dal contrasto tra correnti di diverse temperature nell’atmosfera, accumulando energia che normalmente viene rilasciata su grandi aree.

Alla luce di queste differenze, i cicloni tropicali generano venti più compatti, sono più simmetrici e hanno un nucleo ben definito di venti molto forti. Le tempeste invernali, invece, mostrano forti contrasti di temperatura e sono caratterizzate da una distribuzione dei venti più ampia, accompagnata da pioggia o neve.

Per rimanere tale un uragano necessita dell’energia che gli può essere data dalle zone marine e oceaniche, in particolare dove esistono condizioni con molto calore nel primo strato superficiale dell’oceano ed una situazione atmosferica particolare”. Una volta spostato verso terra, quindi, l’uragano perde la fonte che lo alimenta.

Comunque, dopo Sandy, la paura degli uragani attanaglia l’America, divorata già da ogni tipo di paura, dall’11 settembre del 2001.

Come denuncia il New York Times, infatti, gli Stati Uniti rischiano di rimanere un anno, forse di più, senza satelliti capaci di restituire immagini preziose sul cammino degli uragani, per colpa di un insieme di fattori, dalla mancanza di finanziamenti a ritardi nei lanci, che hanno prodotto una generica cattiva gestione del problema.

I satelliti polari attuali infatti – quelli che nelle loro orbite passano sopra i poli e che servono a “vedere” tempeste e cicloni fin dal loro primo apparire– secondo gli esperti sarebbero in dirittura di arrivo, operando già oltre la loro durata programmata o comunque al limite della loro vita operazionale.

E i sostituti – i Joint Polar Satellite System (Jpss), la nuova generazione di satelliti polari per le osservazioni meteorologiche targata Noaa e Nasa –  tardano ad arrivare (si parla del 2017). Non abbastanza in tempo per scongiurare del tutto un pericoloso “buco” nelle osservazioni dall’alto.

Secondo alcuni esperti esterni, il progetto dei nuovi satelliti sarebbe stato mal gestito, generando un gap che può essere solo in parte colmato da misure dell’ ultimo momento, quali l’urgente revisione dei disegni della strumentazione e del badget per quel programma non funzionante che è diventato fonte di imbarazzo nazionale a causa di problemi di gestione cronici”, come la stessa Jane Lubchenco della Noaa ha definito.

L’America è spaventata ed Obama guarda con estrema preoccupazione all’andamento dell’uragano che ha già lasciato dietro di sé una lunga scia di morti (quasi mille) e devastazioni tra Haiti, Cuba e le Bahamas, per continuare sulle coste degli Stati Uniti.

Ad appena una settimana dall’Election Day, l’inquilino della Casa Bianca ha voluto sottolineare, comunque, di “non essere preoccupato per la campagna elettorale, ma per i cittadini e i trasporti”.

La priorità, ha detto Obama, è “assicurare che stiamo salvando delle vite” e garantire che “cibo, acqua e generi di emergenza siano disponibili per le comunità” che ne hanno bisogno. “Le elezioni – ha quindi concluso – andranno avanti la settimana prossima. Ora la priorità è rispondere all’emergenza”. Il presidente, così come il rivale repubblicano Mitt Romney, che ha annullato tutti gli eventi di campagna elettorale.

Intanto Greenpeace, sottolineando che uragani di questa intensità e a quelle latitudini, sono una novità degli ultimi anni, denuncia che la causa di tutto risiede nei cambiamenti climatici che saranno sempre più esiziali, senza un cambiamento radicale di rotta nella politica energetica.

Lo scorso settembre, dice sempre Greenpeace, la temperatura dell’oceano al largo delle coste del medio Atlantico era di 1,3°C superiore alla media. L’anomalia si è prolungata fino ad ottobre, consentendo a Sandy di alimentarsi di molta più energia dall’oceano di quanto accada di solito per gli uragani autunnali. Il riscaldamento dei mari causa inoltre molta più evaporazione, e quindi Sandy è più piovoso della norma.

Inoltre, aggiunge l’organizzazione, quando le “bombe d’acqua” (da noi l’evento più frequente) si scaricano a terra e la cura del territorio è latitante, i danno assumono poi dimensioni iperboliche.

Come scriveva Miche Serra su La Repubblica del 14 febbraio scorso, se è vero che l’attitudine (meritoria) a scompaginare i rapporti preesistenti con la natura è antica quanto l’uomo, è noto che negli ultimi anni l’intervento umano sulla natura ha subito un’accelerazione spasmodica e con una progressione inesauribile e geometrica.

Ora, se è immaginabile che in passato ad ogni intervento umano seguisse un periodo di assestamento, in grado di far “digerire” alla natura ogni novità, oggi la curva del mutamento si è impennata così bruscamente, e le novità sono tali per qualità e quantità, da far temere (ragionevolmente temere) che l’impatto sul sistema uomo/natura possa essere imprevedibile e incontrollabile.

E per un popolo che credeva di poter controllare tutto, questo è destabilizzante e terrorizzante.

Da sempre, come hanno mostrato al cinema grandi autori come Spielberg, Wes Craven, Stanley Kubrick ed altri, l’americano medio deve credere di essere al riparo da ogni sorpresa e vivere senza alcuna preoccupazione di attacco (naturale o terroristico), entro i confini della propria nazione.

Come ricordava in una recente intervista Eli Roth, regista e sceneggiatore, autore dell’horror da 50 milioni “Hostel”, seconda eccellente prova a soli 33 anni; solo il 12% degli americani possiede un passaporto, mentre tutti gli altri non si muovono mai da casa, perché è soli lì che si sentono al sicuro.

Ma le cose, negli ultimi 11 anni, sono cambiate ed ora la paura, anche a causa dei mass-media, è enormemente lievitata.

E’ interessante esaminare la sequenza animata che apre il film di Moore “Bowling a Columbine“, dove l’eterodosso regista ci spiega che la rivoluzione armata è sempre stata all´origine della storia americana e quindi gli americani vivono nel terrore di essere sterminati, sin dai tempi dei Padri Pellegrini e , di conseguenza, si difendono sterminando.

Inoltre, oggi, la psicosi della paura e della violenza alimentata dal senso di inadeguatezza e non accettazione che accompagna la vita sociale di molti americani, ossessionati da modelli irraggiungibili. Ed è rinfocolata, ogni giorno, dai mass media, con i bollettini di cronaca nera,  da una politica estera basata sull’attacco e da Presidenti (anche democratici e Nobel per la pace) pronti a inseguire cattivi in tutto il mondo e ad annientarli; alimentando così la paranoia collettiva contro idee non conformi alla “normalità” statunitense.

Tutto questo genera urobolicamente paranoia e paura che certo, dopo Sandy, non potranno migliorare. Anche se è una festa per bambini, Halloween, è una cerimonia horror incentrata sulla paura e non è strano, quindi, che sia una delle più tipiche cose americane.

L’enfasi di Halloween è sulla paura, sulla morte, sugli spiriti, la stregoneria, la violenza, i demoni e preoccupa che, dagli USA, la festa sia esplosa in tutto il mondo occidentale: un travaso pericoloso di celebrazioni druidiche che, il 31 ottobre, festeggiavano la vittoria delle tenebre sulla luce.

La paura del ritorno dello spirito defunto accomuna l’uomo preistorico all’uomo moderno, ma più dei fantasmi molto probabilmente si ha paura del proprio destino e del proprio futuro, sicché il successo di Halloween può essere inteso come il trionfo della paura e come il canto della disperazione, uno oscura cerimonia consumistica che non fa superare, ma anzi alimenta e celebra le nostre paure.

Può darsi che in futuro gli storici parleranno di quei tempi come dell’ultima epoca d’oro della primazia americana e, certamente, alla luce degli eventi che ci separano da dall’11 settembre, con due disastrose guerre, la peggior crisi economica dal 1929, il decollo dell’Asia, la possibilità è più che legittima.

In fin dei conti, gli Stati Uniti sono una potenza giovane: la loro ascesa risale al XX secolo. E se la storia dei grandi imperi del passato si è già consumata, quella dell’America è ancora in pieno svolgimento. La parola fine non è stata scritta. Eppure è stata annunciata un’infinità di volte, nel costante timore di scoprire che gli Stati Uniti non sono una nazione eccezionale e che, pertanto, non sono chiamati dalla loro virtù e dalla storia a giocare nel mondo un ruolo diverso da quello delle altre nazioni.

Thomas Jefferson definì l’America “l’impero della libertà”, in un momento storico in cui il paese era impegnato nel raggiungimento delle frontiere naturali.

E comprese che l’idea di progresso insita nella visione americana del mondo e del proprio ruolo in esso affonda le sue radici nell’illuminismo francese. Ed è dunque essenzialmente laica, che però il puritanesimo dei coloni declina in senso calvinista, colorandola di un millenarismo che affida all’America la missione etica di affrancare l’umanità dalla tirannide.

Ma tutto questo genera un guasto: il timore del libero arbitrio, antico quanto l’uomo stesso, la tensione costante tra le opportunità offerte dall’autodeterminazione e la possibilità che l’esercizio di questa degeneri in corruzione, morale e materiale.

È per evitare questo infausto destino che nel 2008 gli americani hanno portato alla Casa Bianca Barack Obama, presidente della speranza (Hope) eletto sulla scorta della promessa di un riscatto morale e materiale dell’America.

Ma le cose, in questo triennio sono andate molto diversamente con un presidente impegnato a contrastare lo spettro della bancarotta sovrana e a non risolvere molti dei problemi interni ed esteri che aveva promesso di sbrogliare.

Nelle fasi di maggior difficoltà, l’America resta invariabilmente irretita nella retorica della “nazione indispensabile”, che presuppone che il mondo non possa fare a meno degli Stati Uniti, ma anche che questi siano in grado di gestire la complessità del mondo.

Ma, ciclicamente, tale imperativo strategico cozza contro il principio di realtà, che, secondo le parole stesse di George Washington, ci dice che: “contrarre nuovi debiti non è il modo migliore di ripagare quelli vecchi” e soprattutto senza nuova speranza si resta vittime delle antiche paure.

 Carlo Di Stanislao

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *