Sul ponte di Messina, per non pagare la penale milionaria prevista, il governo prende tempo, con una decisione che gli ambientalisti definiscono “pilatesca” ed “indegna” di un gruppo di tecnici, con una dura reazione del WWF nei confronti del Consiglio dei ministri che l’altra notte, dopo una riunione fiume, ha preso una controversa decisione a proposito di un’opera ancora più controversa, iniziata nel 1981 e con una struttura, guidata dell’ex deputato Zamberletti, ideatore della Protezione Civile, che ha ancora 54 dipendenti, alcuni dei quali in predicato di pensione, dopo anni di lavoro attorno ad un inutile progetto.
In sostanza il governo ha deciso di non decidere: l’intento, come era del tutto evidente, sarebbe stato quello di dire un secco no alla faraonica impresa (ri)voluta da Berlusconi, ma questo avrebbe comportato il pagamento di una congrua penale di 300 milioni alle imprese coinvolte nel progetto. E dato che quei milioni in cassa non ci sono, si è rinviato tutto di due anni, con la formula (che alcuni definiscono scusa o pretesto) di valutare meglio la “fattibilità” e la “bancabilità”.
Usa parole di velluto, beninteso, il governo, affidando la sua decisione ad un comunicato ancora più morbido e sinuoso; mentre seccamente censorio, almeno con la Fornero (che oggi risponde al giornale sulle sue presunte gaffe, definendole solo “amore di verità”) e Passera, a Marchionne, che vuole mettere in difficoltà lavoratori e sindacati a Pomigliano, in risposta alla sentenza della Corte d’Appello di Roma che obbliga l’azienda ad riassumere nello stabilimento campano 19 iscritti alla Fiom, in quanto discriminati.
Passera dice senza giri di parole di non condividere Marchionne e lo invita a soprasedere mentre la Fornero si spinge più in avanti, invitando il Lingotto a bloccare l’avvio della procedura di messa in mobilità, in attesa della verifica di una possibilità di dialogo che non riguardi soltanto “il fatto specifico”, ma “l’insieme delle relazioni sindacali in azienda”.
La risposta dei due ministri l’indomani della interpellanza dell’Idv (in smantellamento o quasi) sula triste vicenda che vede ancora Fiat e Fiomi impegnati in un caparbio ed insensato braccio di ferro.
Sembra ora vi sia spazio per un “lodo” da concepire fra Monti e Marchionne, mentre il patron di Tod’s, Diego Della Valle, scende in campo affermando che: “il Presidente della Repubblica Napolitano e il Premier Monti devono intervenire e richiamare Marchionne e gli Agnelli al rispetto e al senso di responsabilità che devono al Paese” e un appello al dialogo viene lanciato dal leader del Pd, Pier Luigi Bersani, che considerando “inaccettabili i 19 licenziamenti annunciati”, che “aggravano i problemi” ed invita l’azienda ad aprire il confronto per non scaricare sui lavoratori il peso di un errore (ma intanto non riconosce errori politici per il bagno di sangue in Sicilia del suo partito).
Insomma, sulla questione Fiat, si cerca un ponte per sanare una difficile situazione, con Marchionne che mostra i muscoli ed i sindacati che non sono disponibili a firmare un accordo con l’azienda per attivare le procedure delle legge 223 del 1991 sulla mobilità (anche se ciò non impedisce alla Fiat di procedere unilateralmente).
Sul Fatto Quotidiano Alfredo Faietta ricorda che, in attesa di un accordo con Monti e Passera sul sostegno all’export, il Lingotto che conferma la leadership in Sudamerica, continua a beneficiare ,oltre che degli sgravi locali, dei crediti fiscali previsti da una normativa italiana del 1980.
I dati diffusi in queste ore, ci dicono che Fiat, nel mese di ottobre, ha aumentato la sua quota nel mercato brasiliano fino al 23,1%, quando ha immatricolato 80.799 automobili e commerciali leggeri, crescendo del 41,4% rispetto a ottobre del 2011.
Con questo risultato, l’azienda riporta vendite per 692.428 unità da gennaio a ottobre, con una crescita del 11,9% sullo stesso periodo del 2011, quando sono state vendute 618.833 unità. In pratica Torino sta crescendo più del mercato brasiliano, che è progredito del 7,2% in confronto all’anno scorso, con 2,99 milioni di automobili e commerciali leggeri commercializzati tra gennaio e ottobre del 2012.
E questi dati potrebbero convincere il Lingotto a disinvestire da noi ed investire dove c’è più rendimento.
Ma l’esperto di fatti economici Palo Annoni, ha scritto che l’offerta Fiat, annunciata il 30 ottobre non è certo passata inosservata, tanto da indurre una caduta del titolo del 10% in due giorni, quando lo stesso Marchionne, al Corriere, dichiarava l’idea di usare la non vendita italiana per l’estero ed egli stesso la definiva una “scelta per non deboli di cuore”.
Sul Wall Street Journal, Daniele Chicca, ci ricorda che nel film “Il Gioiellino”, ispirato al crack Parmalat, il responsabile marketing chiedeva al Cfo del gruppo Leda (alter ego della casa alimentare parmense): “Ma lei chiederebbe un prestito per acquistare un’auto se avesse un milione in banca?”.
E concludeva che con una liquidità di 17 miliardi di euro sui conti correnti che va via via assottigliandosi, non si comprende perche’ Fiat non si occuia di ripianere un debito di 52,955, tenendo anche conto che, stando alle stime degli analisti, l’indebitamento netto e’ destinato a crescere.
Ma a questa domanda l’ad di Fiat non intende rispondere e nessuno, neanche gli accigliati membri del governo, sembrano volergli porre la questione, anche dopo che i conti non hanno superato l’esame degli analisti e del mercato, con la accensione, sulla stampa, di un presunto faro acceso dall’Authority “sulla reale consistenza della liquidità dichiarata a bilancio”, che negli ultimi tempi ha contribuito a schiacciare i titoli del Lingotto.
Pertanto, pare, Marchionne non solo ha problemi di ponti con i sindacati, ma anche con la finanza che non si fida più di quanto da lui dichiarato.
Nota il Wall Street, che, se da un lato nei primi nove mesi del 2012 il tasso complessivo che il gruppo Fiat ha pagato sul suo debito ingente e’ solo del 3,11% (dal 2,35% del 2011), alcune delle obbligazioni pagano interessi reali di oltre il 6%.
E allora non converrebbe ripianare il debito con il cash a disposizione, ammesso che vi sia e sia così consistente?
Anche se il tasso annuale complessivo pare basso, assume tutt’altre proporzioni se la percentuale si calcola sui 52,995 miliardi di euro di debito totale: su base annuale significa un aggravio di 434 milioni di euro (tendenziali) di soli interessi che peseranno sul bilancio 2012. Si direbbe una politica controproducente, per non dire suicida.
Ciò che insospettisce davvero è il fatto che i 17 miliardi di cash liquido che il gruppo dichiara non vengano impiegati, per lo meno in parte, per abbattere il debito ed invece si chiedono finanziamenti tramite bond ad un tasso reale di oltre il 6% (a volte vicino al 7%).
Che Fiat navighi in acque agitate, sindacalmente e non solo, ce lo dice anche il fatto che gli analisti di Credit Suisse hanno sottolineato che negli ultimi tre mesi ha ridotto la propria liquidità di 2,73 miliardi e, in pratica, ogni giorno deve fare a meno di 15 milioni.
C’è un’altra questione che riguarda il ponte su cui Fiat viaggia con Marchionne. Oltre alle liti con i sindacati italiani, il Ceo della casa torinese e’ impegnato in un braccio di ferro con il fondo dei sindacati del Delaware che ha una quota di oltre il 30% in Chrysler e solo se questa tranche passasse di mano, la Fiat potrebbe assumere il 100% dell’azienda americana.
Il “maledetto ultimo ponte” di questo “ponte dei morti”, è poi l’avvicinamento fra Grillo e lo “svergognato” (da Report) col primo che invece vedrebbe bene al Quirinale.
Furioso si dichiara, in una intervista a l’Unità, il capogruppo dell’Idv Massimo Donadi, che ha già minacciato le dimissioni e adesso spara a zero su un leader che “è come Berlusconi” e che, mentre con i suoi “parlava di rilancio del partito, di date del congresso”, andava al Fatto quotidiano per dichiarare “sciolto il partito”.
Donadi aggiunge di sentirsi “truffato e tradito” e spera che si possa lavorare a una “nuova Idv”, aggiungendo che: “se il partito deciderà di suicidarsi obbedendo al necrologio di Tonino ognuno sarà libero di farlo”.
In un’ altra ‘intervista a “Repubblica”, lo stesso Donadi sottolinea che “da politico navigato qual è Di Pietro ha chiuso un’operazione sulla pelle dell’Idv”; ma intanto Beppe Grillo candida proprio Tonino al Quirinale, certificandolo unico uomo onesto della politica italiana.
In serata Di Pietro sul suo blog ha tirato le somme e confuso le acque: non lascia la guida del partito che però va rinnovato al prossimo congresso, sottolineando l’asse con Grillo, perché “rispetto ai tanti politici di professione, che hanno rovinato l’Italia in tutti questi anni, è un bene per il Paese che sia scoppiata la reazione della società civile”.
E chiudendo con: “Una reazione che anche tu, Beppe, anzi soprattutto Tu in questo periodo, hai saputo amalgamare e rappresentare”.
Pare evidente che, oltre che blandizie a dismisura, anche qui c’entra (o c’azzecca) Pilato e questo fa infuriare oltre modo il già arrabbiato Donati che ricorda al fondatore che: “l’ipotesi di un congresso dopo le elezioni non c’è più. Entro dieci giorni ci sarà un’assemblea autoconvocata con tutti quelli che vogliono difendere i nostri valori e l’esperienza di questi anni, e che non si riconoscono nel necrologio”.
In molti, comunque nel Movimento 5 Stelle non condividano il sostegno di Grillo a Di Pietro e sul web si è già scatenata una bagarre di dipietristi e grillini che se le suonano di santa ragione.
La sparata (o chiamata) del leader del Movimento 5 Stelle fa, comunque ha fatto immediatamente il giro del mondo ricordando, secondo il Secolo XIX, una simile sortita di sei mesi fa, ad aprile, con Grillo che si schierò a difesa di Umberto Bossi, appena spazzato via dal vortice di soldi che dai cassetti della Lega finivano in Tanzania e dalle spese private del Trota; affermando: “Bossi è un uomo onesto, sappiamo tutti che non ruba”.
Per il momento, a parte le dure esternazioni di Bellisari e Donadoni, in casa Idv lo scenario è quanto mai fluido e i capibastone restano coperti, anche quelli che vedono il “ponte” col Movimento 5 Stelle come fumo negli occhi.
Anche Libero, comunque, tende una mano (o appronta un ponte) a Di Pietro, con Filippo Facci che argomento che, dopo il pezzo di Sabrina Giannini, su Report, tutti nell’Idv hanno fatto finta di meravigliarsi per cose che già conoscevano e che, di conseguenza, lo “sputtanamento” mediatico è solo il segno di una penosa resa dei conti all’interno della micro-casta del partito.
Ma, al netto di opachi complotti, , ciò che il cittadino vede (o gli viene fatto vedere), è che Di Pietro si è fatto un suo partito personale, che ora è in rottamazione perché lui piglia i soldi pubblici, ha figli e famigli in politica, ha candidato inquisiti e persino piduisti, soprattutto ha già accumulato cinque mandati ed è in politica da 17 anni.
In realtà dovremmo criticare Di Pietro non solo per il suo comportamento (che però è identico a quello di molti politici di destra e di sinistra), ma perché è quello che prima difende l’accordo di Vasto, poi Vendola e il Pd lo respingono, allora lui straccia l’accordo di Vasto; poi propone un’alleanza a Grillo, Grillo lo manda affan-day, allora lui critica Grillo; poi chiede regole per le primarie, poi si candida alla premiership senza le primarie; poi attacca Napolitano su qualsiasi cosa; poi rivaluta Craxi; sostiene Ingroia; si autoinvita alla festa del Pd, il Pd lo respinge, allora lui attacca il Pd e insomma, è un pesce che si contorce sull’arenile, senza un disegno, una pianificazione, senza niente.
Carlo Di Stanislao
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