Il silenzio di Roth

E’ un colosso della narrativa mondiale, più volte candidato e poi snobbato dal Nobel, vincitore di un Pulitzer e due Award Book, sulfureo ed irriverente, acuto ed abilissimo nel descrivere e narrare le pieghe più profonde de l’animo umano. Da due anni voleva smettere di scrivere, da Nemesis, appunto, uscito nel 2010, ma ora, dal […]

E’ un colosso della narrativa mondiale, più volte candidato e poi snobbato dal Nobel, vincitore di un Pulitzer e due Award Book, sulfureo ed irriverente, acuto ed abilissimo nel descrivere e narrare le pieghe più profonde de l’animo umano.

Da due anni voleva smettere di scrivere, da Nemesis, appunto, uscito nel 2010, ma ora, dal suo editore, ci viene la conferma ufficiale: a 79 anni Philp Roth ha lasciato la penna e non vuole più occuparsi di letteratura, con tanto di disposizione che, dopo la sua morte, appunti e note inedite siano accuratamente distrutti.

Il suo ultimo lavoro, quindi, resterà Nemesi, scritto a 77 anni e storia di un fallimento inteso in senso passivo, traguardo inevitabile di un processo che condanna gli individui e l’umanità tutta a procedere di pari grado con la degradazione del corpo. Fallimento e vecchiaia, due strade parallele che quasi sempre tendono a incontrarsi nel più prevedibile dei punti. E che impongono rassegnato e dignitoso silenzio.

Quarto di una serie di romanzi che comprende Everyman , Indignazione e L’umiliazione  e che lo stesso Roth ha idealmente raccolto in un ciclo chiamato proprio “Le nemesi”,  affronta i temi legati a doppio filo di morte e fallimento, temi che vanno a colmare l’ingombrante vuoto lasciato da un Dio nella cui esistenza, Roth crede sempre meno.

In quell’estremo saluto alla scrittura Roth abbassa e restringe il suo orizzonte, semplifica le sue descrizioni e le sue psicologie, la natura e il dramma dei suoi personaggi.

Nel quartiere ebraico di Newark, – il luogo, appunto, dell'”origine”, – dove vive gente normale e modesta come poche, nel luglio 1944 scoppia un’epidemia di poliomielite, che miete vittime e lascia terribili strascichi, com’è ovvio, soprattutto fra i bambini.

In questo inferno si muove Eugene Cantor, detto Bucky, forte, responsabile, coraggioso, esemplarmente attaccato alla sua professione, che è quella di istruttore atletico di giovanetti ebrei del quartiere. Non è andato soldato a combattere la guerra americana, perché soffre di un grave difetto alla vista. Ma si trova a combattere del tutto imprevistamente una guerra nella guerra, – l’epidemia di polio, – che è doppiamente ingiusta e terribile, perché assale soprattutto gli innocenti, è imprevedibile e inafferrabile e lo spinge a un certo punto a dubitare di Dio.

Inoltre, scopre a un certo punto d’essere l’inconsapevole tramite del contagio fra i suoi ragazzi, prima di esserne lui stesso vittima. E a questo punto, – prova assoluta e disumana della sua serietà, – decide di punirsi della colpa non commessa, rinunciando per tutto il resto della sua vita a qualsiasi consolazione sentimentale o affettiva. Così, alla fine, la scelta  diventa per lui senso di colpa ed insieme espiazione.

Ancora una volta, in questo ultimo  romanzo, la capacità di Roth, pirandelliano-shakespeariana, di giocare sui diversi punti di vista, s’impone con evidenza esemplare, struggente pietà e impietosa ferocia; ma soprattutto con evidente lascito ed estremo monito testamentale,  spiegando  come da una fase cogitativa (espressa come scrittura), si debba sempre giungere ad una fattuale, principalmente composta di vita vissuta e di gesti e non soltanto di parole.

Nel suo racconto, considerato minore, Il Senso, Roth ci dice che chi troppo studia impazzisce, secondo un antico detto popolare che ha molta verità nel suo fondo e  ci racconta di un professore di letteratura – letteratura comparata, per la precisione – che un brutto giorno si trasforma in una mammella. Un’enorme palla ovale di un metro e ottanta, senza occhi, né braccia o gambe, e solamente una sorta di piega, come un ombelico, nella parte alta del corpo, da cui esce una linguetta che gli permette di parlare. Se si tratti di un sogno, di un incubo o di un prodigio, lo può decidere solo il lettore; di certo  il professor Kepesh – questo, il suo nome – si trova in un letto d’ospedale più o meno nella condizione del protagonista ferito e mutilato di “E Johnny prese il fucile”, il romanzo di Dalton Trumbo (1939) sulla Prima guerra mondiale da cui fu tratto un famoso film nel 1971. Che è pure, guarda caso, l’anno in cui Roth ambienta il suo racconto, anno in cui c’erano ancora il Vietnam e il ’68, con vari appelli  a fare l’amore e non la guerra, un periodo  in cui fiorirono i dialoghi dei massimi sistemi sulla topografia erotica dell’uomo e della donna, che non è detto – si disse – debba essere quella tendenzialmente solo genitale del maschio.

E Roth, da quel clima, come ha fatto Pasolini in Petrolio, deve avere pensato di mostrare la propria buona volontà prendendo in considerazione il punto di vista dell’altro sesso, inventando il personaggio del professor Kepesh e facendogli vivere la grottesca avventura della sua “senificazione”, che, a ben vedere, è uno scherzo, ma solo in parte. Così come non lo sono “La metamorfosi” di Kafka e “Il naso” di Gogol’, che Kepesh ha insegnato per troppi anni e che forse hanno contribuito a fargli dar di volta il cervello.

Ma, forse,  Kepesh non è pazzo, come in fondo spera, forse è davvero diventato “quella cosa” e le sue reazioni sono le comprensibili reazioni di chi scopre una malattia o un irreversibile sconvolgimento nel proprio corpo, un corpo che ha osservato e descritto, particolare per particolare, senza però mai averlo scoperto e vissuto.

Si perché, non contento di provare piacere sentendosi massaggiare, Kepesh – diventato altro-da-sé, cioè mammella – anela a penetrare con il proprio capezzolo tutte le donne che si avvicinano al letto ed assume, quindi, una doppia valenza maschile e femminile, per comprendere appiano che solo attraverso l’esperienza si giunge, meglio che attraverso i libri, alla conoscenza.

E non è la poesia di Rainer Maria Rilke sul Torso arcaico di Apollo del Louvre che pure cita, ma la comprensione corporale e diretta della sua ambivalenza che rende, infine, il professor  Kepesh sereno.

Forse è questo che ora Roth chiede al silenzio letterario: la comprensione diretta e corporale della vita, prima che tutto sia spento e che sia troppo tardi.

Kepesch è anche il protagonista del romanzo “L’animale morente”, scritto da Roth nel 2001 e da cui la catalana Isabel Coixet ha tratto il film “Lezioni d’amore” nel 2009, storia di una pura attrazione carnale tra una giovane di 20 anni e l’ormai più che maturo professore,  una passione-ossessione destinata a ribaltare ruoli e sentimenti e che consente di comprendere ciò che l’ultimo Roth ha voluto trasmetterci: solo vivendo e scandagliando gli abissi della superficialità, si crea l’estrema roccaforte al declino fisico e morale. Insomma, meglio che scrivere e leggere è vivere e farlo anche con la massima, lieve allegrezza.

Nel 2010, in una lunga intervista, Roth ricordava che il suo caro amico Bellow,  proprio negli ultimi anni della sua vita, si stupiva di come si fosse gettato a capofitto nella stesura di racconti e romanzi brevi, pur essendo un amante terminale della densità in prosa.

Forse fu allora che si accorse che la stessa tendenza lo stava riguardando, una tendenza involutiva a  colmare con la prolificità editoriale il tempo limitato che ci è dato in sorte, per non lasciare nulla d’intentato, per non lasciare nulla di non detto.

Per poi rendersi conto, che la vita vale più (e va ben oltre) di ogni possibile discorso, di ogni possibile parola.

 Carlo Di Stanislao

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *