Dopo quattro anni lo spettro della guerra torna ad incombere su Gaza, la striscia di terra fra Israele ed Egitto governata da Hamas dal 2007, ancora non riconosciuta internazionalmente come stato sovrano, ma al centro di tensioni che sembrano non trovare soluzione.
Ieri, questo martoriato lembo di terra, è stato oggetto di un bombardamento aereo da parte di Israele, risposta al lancio, due giorni fa, di due missili Fajr 5 in dotazione alle forze armate iraniane, caduti in mare, di fronte alla costa di Giaffa, il sobborgo meridionale di Tel Aviv, ultimi di una serie di 380 missili partiti proprio da Gaza, tra mercoledì e giovedì.
Oltre al raid aereo, a Gaza è in corso a tutti gli effetti un conflitto che, ad oggi, conta già 22 vittime: 19 palestinesi e 3 israeliani.
E’ la prima volta dal 1991 e dalla Guerra del Golfo, che Tel Aviv è sotto coprifuoco, con scuole chiuse e polizia che, in tutto il territorio israeliano e in Cisgiordania, ha elevato lo stato di allerta, paventando attentati terroristici e con l’esercito in stato di massima allerta e pronto all’intervento lungo i confini con Libano e Siria.
Mentre l’Egitto ha deciso di aprire il transito di frontiera di Rafah per consentire l’evacuazione dei palestinesi feriti, l’Onu ha riunito il consiglio di sicurezza e, nell’occasione, l’ambasciatore USA Susan Rice, ha sostenuto, in modo fermo, la risposta militare di Israele agli attacchi palestinesi.
Stamani, dopo una breve visita a Gaza, è rientrato in Egitto il primo ministro egiziano Hisham Kandil, mentre centinaia di connazionali hanno cominciato ad affluire a piazza Tahrir, per una manifestazione a sostegno del popolo palestinese.
La diplomazia internazionale rivolge i consueti appelli alla moderazione, ma, da parte americana, la reazione è stata finora di sostanziale appoggio a Israele.
Lo stesso Barack Obama, in un colloquio con Netanyahu, ha ribadito il sostegno degli Stati Uniti al diritto di Israele a difendersi dal lancio di razzi, pur invitando il premier a fare ogni sforzo per evitare vittime civili.
Il segretario di stato Hillary Clinton, intanto, rivolge un appello al nuovo Egitto di Mohamed Morsi, affinché “usi tutta la sua influenza” nella regione per una risoluzione pacifico ed è proprio il leader dei Fratelli musulmani, arrivato alla presidenza dopo la rivolta che ha destituito Hosni Mubarak, che ora è chiamato ad a una difficile prova di equilibrio tra le richieste della piazza e la necessità di mostrarsi moderato, anche per non compromettere i legami con gli Stati Uniti.
Nella regione le masse arabe scese in piazza in Egitto, in Siria ed altrove, garantiscono ad Hamas un forte sostegno ed Israele, in questo momento, deve fare i conti con la collera del mondo islamico (l’Iran, anche Egitto e Turchia in prima fila, in attesa della riunione straordinaria della Lega Araba fissata per domani al Cairo) e con gli inviti alla moderazione che rimbalzano dall’Onu e da mezzo mondo, compresi Vladimir Putin e di Francois Hollande, che si sono detti contrari ai raid aerei nel corso di loro telefonate.
In effetti lo scenario che si delinea è quello di una guerra aperta fra Palestina e Israele, 21 anni dopo gli attacchi di Saddam Hussein, con la Jihad islamica, alleata di Hamas, che ha preso di mira Tel Aviv e sul lato opposto , l’offensiva chiamata “Pilastro di nuvola” – iniziata ieri con l’eliminazione a Gaza del comandante militare di Hamas, Ahmed Jaabari e che prosegue senza sosta, al ritmo di 10 raid aerei all’ora.
Intanto, dalle prime indiscrezioni che trapelano dalla riunione del consiglio de l’ONU, rivelano una sostanziale frattura, fra Inghilterra e USA pro-Israele e Paesi arabi schierati sul fronte opposto.
Da un lato c’è l’occidente, capitanato dagli Stati Uniti, che ribadisce il diritto di Israele all’autodifesa ma chiede di fermare l’escalation e risparmiare “vittime civili”. Dall’altro ci sono i Paesi arabi, tra cui brilla quel Qatar ultimamente iperattivo nella regione, compatti nella condanna d’Israele (la Lega araba ha convocato per sabato una riunione d’emergenza, proprio a Il Cairo).
In mezzo si barcamenano la Turchia e la Russia che puntano l’indice contro Israele (Ankara più duramente), ma stanno tentando di lavorare sul piano diplomatico per impedire la guerra.
Preoccupa, poi, il fatto che l’Egitto si mostri, senza voler troppo urtare gli USA, dalla parte di Hamas e il ricordo che Izz al-Deen al-Qassam, l’eroe palestinese della lotta per l’indipendenza dagli inglesi nella prima metà del secolo scorso a cui sono dedicate le Brigate guidate dal defunto al-Jabari, sia stato uno dei primi aderenti – intorno al 1930 – al neonato movimento dei Fratelli Musulmani, di cui Morsi è adesso il più illustre rappresentante.
I venti di guerra che si agitano nella regione, sono rinfocolati dal fatto che i negoziati israelo-palestinesi, che quattro anni fa erano in cima all’agenda del governo Olmert, sono a un punto morto, tanto che il presidente Abu Mazen si prepara a chiedere all’Onu il riconoscimento della Palestina come Stato osservatore; ma anche dall’eco delle primavere arabe e dalla crisi siriana che ha acceso il Golan, dove per la prima volta dal 1973, c’è stato uno scambio di colpi tra Damasco e Israele. La Giordania contiene a stento la spinta della piazza che protesta contro la monarchia riluttante alle riforme e al caro-petrolio e ora anche contro l’intervento israeliano a Gaza. Il Libano, dominato dall’arcinemico Hezbollah, trema a ogni sparo che si ode dalla Siria. E infine l’Egitto, dove a custodire l’accordo di Camp David non c’è più il filoccidentale Mubarak, ma il Fratello Musulmano Mursi.
Carlo Di Stanislao
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