Medicina: cambiare statuto, non ridurla matematicamente

L’ultimo giro di vite del ministro Renato Balduzzi sull’offerta di cure a livello ospedaliero costringe, in queste ore, gli assessori alla Sanità a fare i conti con una geografia ospedaliera che deve essere radicalmente cambiata con, sul tavolo, non solo la diminuzione di oltre settemila posti letto (sugli oltre 230 mila attuali) come previsto dalla […]

L’ultimo giro di vite del ministro Renato Balduzzi sull’offerta di cure a livello ospedaliero costringe, in queste ore, gli assessori alla Sanità a fare i conti con una geografia ospedaliera che deve essere radicalmente cambiata con, sul tavolo, non solo la diminuzione di oltre settemila posti letto (sugli oltre 230 mila attuali) come previsto dalla spending review , ma anche il rischio di chiusura per 257 ospedali privati accreditati (e, dunque, equivalenti ai pubblici per la gratuità delle cure), con meno di 80 letti. La loro estromissione dal sistema sanitario è prevista dalla bozza di regolamento sulla riorganizzazione della rete ospedaliera appena stilata dal ministro di concerto con il ministro dell’Economia Vittorio Grilli. In verità il governo, rispondendo alle preoccupazioni del Capo dello Stato e di molte associazioni di cittadini preoccupati per un welfare sempre più a rischio, dice che non si tratta di tagli ma di riorganizzazione della offerta ed avverte, a tal proposito, che verranno cancellati 14.043 posti letto in eccesso per gli acuti, ma verranno potenziati quelli per la riabilitazione e la lungodegenza di 6.635 unità. Ma la cosa non convince i più e Massimo Cozza segretario nazionale Fp Cgil Medici, commenta: “Nella lotteria dei posti letto da tagliare perdono tutti, medici e cittadini”, aggiungendo caustico che: “a fronte di una sanità territoriale senza finanziamenti e dove il medico di famiglia 7 giorni su 7 rimane solo un slogan” i tagli costituiranno una ulteriore penalizzazione reale imposta alla parte più debole del Paese. Già i giornali commentano, in modo federalistico, che le regioni più colpite saranno Lombardia, Emilia Romagna e Lazio, che dovranno ridurre più posti letto ospedalieri, sia in termini relativi che assoluti, con l’Emilia che dovrà tagliare 2.543 posti (2.007 per acuti e 536 per post-acuti); la Lombardia 2.337 (1.426 per acuti e 911 per post-acuti) e il Lazio 1.963 (1.644 e 319).

Ad avere, invece, posti letto in più saranno l’Umbria (453) e la Sicilia (438) il che, nel secondo caso, ci sorprende considerando il buco della sanità nell’isola, paragonabile davvero al “pozzo di Democrito”.

Può anche farci piacere che il nostro Abruzzo (come Toscana, Liguria e Puglia), per effetto del gioco dei saldi, il numero dei posti potrà complessivamente aumentare con incremento di quelli per post-acuti e riduzione, però, degli acuti, ma di fatto occorre dire che crediamo il problema sia al solito male impostato e non tenga conto delle istanze dei veri attori: medici e pazienti.

Quella di oggi pare essere una medicina in crisi profonda, con una “perdita del centro”, uno smarrimento del rapporto autentico tra medico e paziente; una medicina malata di cui non è esente da responsabilità la stessa ricerca medica e farmaceutica che, se da una parte ha favorito la prevenzione e la cura di diverse malattie, dall’altra ha prodotto la trasformazione dell’industria del farmaco in un grosso affare condizionato dalle leggi del profitto. Hanno ragione coloro i quali colgono, come problema centrale nella sanità di oggi, il fatto che essa sia basata su regole solo economiche ed imprenditoriali , che tendono a considerare i lavoratori come un fattore produttivo da impiegare. In verità l’imperativo è ridare complessità al lavoro per far tornare ad essere, i professionisti della sanità, i mediatori tra il paziente e il percorso di cura, tra i problemi etici ed economici, tra i diritti e le risorse. Per realizzare tutto questo occorre però anche ridare ai professionisti della sanità l’autonomia di scegliere cosa serve e cosa non serve al paziente. Una scelta che oggi troppe volte è fatta da altri, con l’unico obiettivo del contenimento dei costi. Con il paradosso, peraltro, che il paradigma adottato porta alla medicina difensiva, che ha costi altissimi e non comporta alcun beneficio reale. Cambiare paradigma significa allora ricordare soprattutto che la medicina è scelta, cioè è il modo in cui il professionista decide di governare la complessità del malato e, insieme, di governare il sistema. L’operatore dei nostri sogni non è più il ‘competiere’ a cui è stata relegato oggi, ma è l’autore autonomo e responsabile che deve però anche rispondere delle sue azioni, soprattutto attraverso la valutazione degli esiti. Ricostruire la complessità dei professionisti significa affidar loro la presa in carico del paziente in tutta la sua complessità, un po’ come accadeva nella Cina antica, in cui ogni errore medico era a carico del medico stesso e non della intera comunità. Un’altra cosa molto importante in sanità, è comprendere l’inutilità di ogni cambiamento se non si cambiano i modelli in cui si opera e non si tiene conto del fatto che l’unico modello vincente è basato sulla relazione e sulla collaborazione; in pratica su una “rete” in cui i pazienti, altri attori del processo, sono titolari di diritti, ma anche di doveri ed il cittadino non è visto come un costo, ma come una risorsa importante che occorre responsabilizzare ed educare ad un uso corretto delle risorse.

Oggi vi è una crisi nello statuto della medicina che è generata da una domanda sociale completamente diversa dal passato e che, molto in sintesi, va ben oltre l’idea di tutela, cioè l’idea di una medicina che media tra il bene e il male dentro un ordine naturale incontrovertibile. Oggi si sa che l’ordine naturale è un risultato storico, che è sempre provvisorio e che non è per niente incontrovertibile.

Un secondo errore riguarda il fatto che i paradigmi correnti appartengono ancora al positivismo ottocentesco e ormai fanno acqua da tutte le parti. Cioè sono sempre più inattendibili. Se dovessimo in estrema sintesi, condensare la crisi nel canone in una asimmetria, dovremmo dire che i criteri che vedono al malato in modo sostanziale, fisicistico, monistico e quindi scientistico, oggi devono essere ridefiniti sul piano dell’integrazione tra fatti sostanziali, teorie di riferimento e valori condivisi. Una medicina che conosce solo la sostanza, è una medicina che si limita a conoscere solo una parte della realtà del malato. In effetti occorre sottolineare ancora una volta che in ragione della complessità del malato, delle sue tante peculiarità, il metodo generale deve confrontarsi ad personam con lui, fino ad accettare l’idea di diventare un metodo ad hoc, capace di collimarsi e rispondere alle sue esigenze singole e particolari, con un procedimento clinico che resta, sul piano generale, un ragionamento fondamentalmente ipotetico-deduttivo e sul piano personale un ragionamento eminentemente idiografico e quasi per nulla normotetico.

E’ indubbio, che oggi la medicina è traversata da grandi processi che la spingono a ridiscutersi, ma nello stesso tempo, paga la difficoltà a farlo, quasi come se in ragione di una forte inerzialità concettuale, tendesse più a conservarsi che a rinnovarsi. Per cui, proprio rispetto alla sua scientificità, sorgono i problemi di congruità con una sempre nuova società, una nuova domanda, un nuovo malato, ecc. C’è da chiedersi quante cose riescono a stare dentro questa scientificità e quante cose restano fuori, sapendo che quello che resta fuori alla fine va altrove e gestisce i propri bisogni in modo delegittimante nei confronti della medicina stessa. Nella vecchia scientificità sembra non trovare posto la complessità del malato, le cosiddette esigenze di umanizzazione, ma anche le nuove sfide della razionalità legate a nuove visioni epistemologiche, oltre che ontologiche, a nuove modalità logiche, a nuove metodologie, a nuove forme del fare e dell’agire. Di fronte a ciò, il malato vive sulla pelle le insufficienze della medicina e cerca soluzioni altrove, o si organizza attraverso un numero incredibile di associazioni, o dà corso a migliaia di contenziosi giuridici contro medici e istituzioni sanitarie e, comunque, registra il suo personale scontento. Inizia così una sorta di convivenza difficile tra necessità e possibilità, tra il bisogno rispetto alla scientificità che c’è e la scientificità che ci dovrebbe essere, tra soddisfazione e insoddisfazione, delineando un rapporto tra medicina e società sempre più difficile, anche a causa di malati poco educati e quasi per nulla consapevoli.

Recentemente lo psicologo danese Jacob Piet, ha studiato, nel corso del suo dottorato presso il Dipartimento di Psicologia e Scienza del Comportamento della Università di Aarhus, l’effetto di una terapia psicologica basata a consapevolezza, piantata su tecniche buddiste di meditazione, su un ampio gruppo di pazienti con cancro, rilevando un andamento meno aggressivo della malattia di base e la riduzione considerevole di terapie di supporto per astenia, nausea e vomito, dolore e depressione. Con l’alleanza terapeutica il sanitario si accontenta di acquisire il consenso, mentre le pratiche di sanità condivisa si distinguono per l’incidenza dei soggetti sulla cultura medica e sul funzionamento dei servizi. Intendiamo quindi, come nostro ulteriore scopo di gruppo, favorire l’iniziativa dei malati singoli e associati al fine di creare un gioco dialettico tra profani da un lato, ricchi di esperienze dirette, e professionisti dall’altro, che, secondo noi, può condurre a risultati straordinari non solo nei singoli casi ma nella promozione di un rinnovamento del sistema.

Un sistema con due protagonisti egualmente maturati: un paziente consapevole ed un medico (o terapeuta) che sia “guaritore ferito”, capace di accostarsi al prossimo non con atteggiamenti di sicurezza e superiorità, ma nello spirito di umanità e sensibilità, maturato attraverso le proprie esperienze di vulnerabilità e sofferenza e, con in più, capacità di ascolto e di rispetto e, infine, visione d’insieme in cui la persona non sia ridotta ad un organo malato, ma meritevole di approccio globale, con a tutte le dimensioni dell’essere umano: corporea, psichica, emotiva, sociale ed anche spirituale.

Occorre oggi , facendo tesoro degli insegnamenti che ci vengono dal passato con i suoi errori, cominciare a ripensare i modelli all’interno di una cornice ontologica  del “non-ordine”, più coerente con l’attuale complessità, in cui focalizzandosi sui risultati attesi (output), bensì sulle condizioni di partenza (input) da cui possono “emergere” soluzioni, idee e innovazioni sostenibili e coerenti con un mondo in trasformazione, si possano contemperare , previsione, efficienza e genialità individuale con intelligenza collettiva e collaborativa, contaminazione dei saperi e continuo desiderio di esplorazione.

E non mortificare tutto riducendo un processo complesso a mera e ragionieristica operazione di computi matematici. 

Carlo Di Stanislao

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