La tv pan-araba al-Arabiya sostiene che la firma sull’accordo per il cessate il fuoco fra Israele e Palestina è questione di ore, con l’Egitto chiamato a mediare fra le due parti e Israele che ha messo in stan by i piani per l’invasione da terra di Gaza.
Secondo fonti televisive saudite, tra le clausole dell’accordo vi è la fine dell’embargo israeliano sulla “Striscia” e l’apertura dei valichi di frontiera con l’enclave palestinese.
Ban Ki-moon ha confermato l’intenzione di recarsi a breve a Ramallah per incontrare il presidente dell’Autorita nazionale palestinese, Abu Mazen, “i cui sforzi – ha concluso il numero uno dell’Onu – per una soluzione basata su due Stati sono più cruciali che mai”.
Ed ha rivolto oggi un appello agli israeliani e ai palestinesi parlando dal Cairo, in una conferenza stampa congiunta con il segretario generale della Lega Araba Nabil al-Arabi, dove ha affermato che un’invasione di terra da parte di Israele provocherebbe una pericolosa escalation.
Una escalation di violenza, ha proseguito il numero uno dell’Onu, che metterebbe a rischio l’intera regione.
Certamente, almeno a livello ufficiale, gli USA non hanno esercitato alcuna pressione su Israele e anzi, dalla Cambogia, dove è impegnato nel vertice dei paesi del Sudest asiatico, Barack Obama ha fatto dichiarare che la Casa Bianca non ha chiesto al governo israeliano di bloccare l’invasione né di limitare il proprio diritto all’autodifesa.
Secondo il New York Times, comunque, presto sarà diramato un messaggio della Clinton rivolto a Israele e ai palestinesi, il cui contenuto centrale sarà che un’escalation del conflitto non è nell’interesse di nessuno.
Secondo la stessa testata se è chiaro il calcolo politico di Hamas, che guadagna consensi anche in Cisgordania a scapito dell’Anp, è privo di prospettive di lungo raggio quello del premier israeliano Netanyahu, che delegittimando Abu Mazen e attaccando Gaza ha rafforzato l’interlocutore più scomodo nella Regione: Hamas.
Secondo fonti del ministero della Sanità di Gaza, il numero di vittime palestinesi ammonterebbe a 110, a fronte di tre soli israeliani sin’ora uccisi.
A parte USA e Gran Bretagna, la più parte delle Nazioni mostrano una grande difficoltà a riconoscere come legittimo il diritto di Israele a difendersi.
E’ certo che la recente escalation di attacchi sul sud di Israele sia stata innescata da terroristi della striscia di Gaza, verosimilmente affiliati alla Jihad Islamica palestinese, che il 10 novembre scorso hanno sparato un razzo anti-carro contro una jeep delle Forze di Difesa israeliane in normale servizio di pattuglia sul versante israeliano del confine, nei pressi del kibbutz Nahal Oz. I quattro soldati della Brigata Givati a bordo della jeep sono rimasti feriti, uno in modo molto grave.
Dopo quell’attacco condotto totalmente a freddo, più di 150 fra razzi e colpi di mortaio palestinesi sono stati sparati contro centri civili del sud di Israele come Ashdod, Ashkelon, Gan Yavne, Netivot, Sderot e altri. Centinaia di migliaia di abitanti della zona – uomini donne e bambini – vivono nella costante paura di essere colpiti da un razzo o da un proiettile di mortaio.
E non è la prima volta che terroristi della striscia di Gaza controllata da Hamas lanciano raffiche di attacchi prendendo deliberatamente di mira civili israeliani. Gli abitanti del sud di Israele conoscono purtroppo molto bene i mortai e i razzi Qassam e Grad sparati dalla vicina Gaza. Solo dall’inizio di quest’anno sono stati sparati un migliaio di ordigni su città e cittadine del sud di Israele.
Ma, nonostante tutto, Israele è sempre ritenuta colpevole. Un esempio è il rapporto di Richard Goldstone, a capo della commissione di indagine nominata dal Consiglio Onu per i Diritti Umani dopo l’operazione anti-Hamas “piombo fuso” del gennaio 2009, in cui si accusavano i militari israeliani d’aver intenzionalmente preso di mira i civili palestinesi; anche se, dopo alcuni mesi, con un editoriale apparso sul Washington Post, lo stesso Goldstone ammetteva che Israele: “come linea di condotta non ha preso intenzionalmente di mira i civili”.
E se in Medio-Oriente, fra Siria e area di Gaza si spara e si muore, non meno spinose e cruciali sono altre questioni che ci riguardano più direttamente. In primo luogo le incertezze sul futuro politico della nostra nazione e, ancora, l’economia tutt’altro che in ripresa, con strette e tagli su tutto ed incremento continuo di disoccupati.
Ed anche se Monti parlando alla Camera di commercio di Dubai, tappa del suo tour nel Golfo per attirare investitori, dice che: “Siamo riusciti ad evitare un totale disastro”, i segni di tale evitamento sono molto difficili da scorgere nelle borse e ancor più nella società.
Ieri Piombino si è fermata per un giorno ed è scesa in piazza per difendere le sue fabbriche a rischio, con diecimila persone, tra studenti, lavoratori e cittadini, che hanno partecipato alla manifestazione ‘Piombino non deve chiudere’, organizzata dai sindacati Fim, Fiom e Uilm di Cgil, Cisl e Uil.
La Lucchini di Piombino è in grave difficoltà ormai da anni, come lo è l’intero comparto siderurgico (da Taranto a Trieste) del nostro Paese.
Mentre altre Nazioni, come Francia ed Ucraina, puntano a sostenere la siderurgia con piani che preservino produzione e ambiente, da noi l’intero settore è in una crisi profonda, tanto che il parlamento europeo ha accolto, ieri pomeriggio, la richiesta del Presidente della Commissione industria, Amalia Sartori, di inserire una risoluzione sulla crisi della siderurgia.
A Terni i lavoratori sono a spasso da anni e non si intravedono soluzioni, mentre Bruno Ferrante, presidente dell’Ilva, nell’esporre alla commissione Lavoro del Senato lo scenario che attende a breve il più grande impianto siderurgico d’Europa, dichiara che dovrà presto essere attivata la cassa integrazione per 2mila dipendenti, con necessario ricorso ai contratti di solidarietà, per gestire l’applicazione dell’Autorizzazione integrata ambientale che certamente comporterà una produzione minore nello stabilimento di Taranto.
Secondo un recentissimo studio di Deloitte, perdiamo posti anche in settori in cui eravamo forti, ad esempio in quello manifatturiero, collocandosi al 32°, con uno scivolone di 11 posizioni in un solo anno.
A ciò si aggiunga l’allarme che viene dal tradizionale incontro della Banca d’Italia con i vertici delle principali banche italiane, in cui il Governatore ha ricordato che, anche se da noi le ricapitalizzazioni pubbliche sono state pari allo 0,2% del Pil, nove volte meno di quanto è stato chiesto al contribuente tedesco, oggi la situazione è tale da destare più di qualche agitazione e non perché si possano avanzare dubbi sulla solidità delle banche italiane, ma perché nelle attuali condizioni esse tutto riescono a fare, tranne che assicurare un flusso consistente di credito all’economia. Infatti, indagine dopo indagine, i segnali dell’ aggravarsi del credit crunch si intensificano.
Non si tratta di insensibilità delle banche alle esigenze dell’economia reale. È l’amara realtà di questa crisi che detta le condizioni o, se si preferisce, che rende impraticabile l’uscita “morbida” dalla crisi che aveva ispirato le autorità monetarie e la politica europea.
Questa strategia è riuscita a scongiurare il pericolo più drammatico della prima parte del 2012, cioè ad evitare che le banche fossero trascinate nel gorgo della crisi del debito pubblico. Il patrimonio delle prime sei banche oggi supera del 10 per cento quello alla fine del 2011. Ma non ha migliorato gli altri problemi sul tappeto, a cominciare da quello dell’offerta di credito all’economia.
Il Governatore Visco sollecita da tempo le banche ad aumentare l’efficienza operativa, proprio come strada per trovare dall’interno le risorse necessarie per limitare l’impatto del credit crunch ed aggiunge che la riduzione dei costi operativi delle banche non è sufficiente a risolvere i problemi che abbiamo di fronte, ma certo è una condizione necessaria, soprattutto per garantire nel breve termine un’offerta di credito adeguata alle esigenze dell’attività produttiva.
Se poi guardiamo agli ultimi dati ISTAT, si vede in modo chiaro sempre più difficile fare impresa in Italia, come dimostra il dato sui fatturati che era previsto in calo dello 0,8% ed invece ha raggiunto una riduzione del 4,2%, segnale che attualmente le imprese faticano a fare reddito.
Senza reddito continueranno i tagli creando una spirale viziosa che non può che affossare lavoro e società.
Insomma, con solo tecnica e niente politica, sarà molto difficile uscire dal roveto spinoso in cui ci troviamo.
Si ricorderà che a luglio la Commissione Europea aveva raccomandato al governo italiano un programma in sei punti: 1) obiettivi di deficit e debito per la finanza pubblica; 2) efficiente sfruttamento dei fondi UE per ridurre la spesa pubblica nazionale; 3) incentivi per l’acceso dei giovani nel mercato del lavoro e la promozione di start-up; 4) sostegno all’occupazione femminile con supporti sociali e nuova contrattazione sindacale; 5) lotta all’evasione fiscale e spostamento della pressione sulle imposte indirette, riducendo esenzioni, detrazioni e privilegi di categoria; 6) liberalizzazioni e semplificazione normativa.
Si è detto che il governo Monti avrebbe certamente raggiunto tutti questi obbiettivi senza il freno tirato da una politica irrequieta e preoccupata per le prospettive elettorali.
Ma se Monti ed i suoi sono dei tecnici perché avrebbero dovuto essere condizionati dalla politica? E ancora, comportandosi da tecnici si deve essere concentrati solo sui conti o valutare anche l’effetto che tali conti determinano sulla società? Due domande legittime e che ormai molti italiani, un tempo entusiasti, si fanno con sempre maggiore frequenza.
Perché un governo di tecnici veri dovrebbe capire che non si può portare l’Italia fuori dalla crisi senza credere sinceramente nell’Agenda Digitale, senza combattere l’evasione fiscale e gli squilibri macroeconomici con gli strumenti del Six-pack, senza introdurre una governance coordinata della politica economica, interpretando coerentemente il patto si stabilità e senza sostenere con convinzione un nuovo modello dei mercati finanziari a livello comunitario.
Giovedì 15 novembre, il presidente della Banca centrale europea ha inaugurato l’anno accademico alla Bocconi con una lezione che è non ha certo fatto piacere a Mario Monti. Soprattutto, come nota Panorama, quando ha sentito lodare Alberto Alesina, l’economista che non ha mai smesso di criticare il governo dei tecnici perché ha fatto troppo poco dal lato della spesa e troppo dal lato delle entrate.
Il sabato successivo è toccato a Monti parlare nella “sua” università e il professore non si è lasciato scappare l’occasione per beccare indirettamente i suoi critici: “Al mio governo darei un voto meno buono di quello che mi dicono gli osservatori stranieri, meno cattivo di quello che mi dicono gli economisti, specie se bocconiani”, ha replicato il presidente del Consiglio con il sarcasmo al quale ormai ci ha abituati.
Monti in gioventù era un monetarista, uno dei primi in Italia e Guido Carli nelle sue memorie racconta di quando andava in Banca d’Italia e chiedeva di rimpiazzare il modello econometrico di stampo neokeynesiano costruito da Modigliani e Fazio, con il paradigma monetario basato sulle tre M (M1, M2, M3). Draghi nasce alla scuola di Federico Caffè, un keynesiano di sinistra, ha come mentore Carli, passa buona parte della sua carriera nell’amministrazione dello Stato. Dalla sua ha anche la Banca d’Italia di Ignazio Visco e Fabrizio Saccomanni i quali hanno insistito più volte, e recentemente, sulla necessità di cambiare l’asse della politica economica adottando il triangolo magico meno spese, meno tasse, più crescita.
Dunque, non sono solo punzecchiature o rivalità accademiche.
Il Fondo monetario internazionale, nel suo ultimo rapporto ha puntato il dito contro una politica di austerità che è andata oltre misura e ha provocato effetti eccessivi, inattesi e controproducenti. Il Fmi ha fatto autocritica e ha riconosciuto che è stato sottovalutato il moltiplicatore fiscale. Non è vero, cioè che una stangata pari a un punto di prodotto lordo provoca una riduzione della crescita di mezzo punto, secondo quel che mostrano i modelli tradizionali. Tutto questo Monti e il suo governo faticano a riconoscerlo.
In un editoriale di un mese fa sul Corriere Francesco Giavazzi ed Alberto Alesina hanno scritto che, in Italia, l’esperienza degli ultimi 30 anni insegna che le manovre per lo più costruite su tagli di spesa (le poche che sono state fatte) hanno inciso sull’economia in misura trascurabile. Invece quelle attuate per lo più aumentando le imposte hanno avuto un “moltiplicatore” pari a circa 1,5: cioè per ogni punto di Pil) di correzione dei conti l’economia si è contratta, nel giro di un paio d’anni, di un punto e mezzo. Inoltre, hanno aggiunto che, Stato e amministrazioni locali spendono ogni anno (dati del 2010 e senza contare gli interessi sul debito) circa 720 miliardi. Togliendo i 310 miliardi che vanno in pensioni e spesa sociale, ne restano 410; sicché una riduzione del 20 per cento di queste spese, senza alcun taglio alla spesa sociale, consentirebbe di risparmiare 80 miliardi e una riduzione della pressione fiscale di circa 10 punti.
Infine aggiungono, rimproverando al governo tecnico di non aver ancora dato attuazione al piano Giavazzi di compensazione tra crediti d’imposta alle imprese ed imposte per le medesime, che lo Stato eroga ogni anno circa 30 miliardi di sussidi diretti alle imprese e altri 30 nella forma di detrazioni fiscali. Le Ferrovie ad esempio ricevono (senza contare i fondi spesi per l’alta velocità) oltre 4 miliardi l’anno. Una parte di questo denaro è un sussidio alle classi a reddito medio-alto: ad esempio gli sconti agli anziani (per le Ferrovie si diventa anziani a 60 anni, 5 prima dell’età di pensionamento) concessi a tutti, anche a chi guadagna un milione di euro l’anno. Non sarebbe meglio far pagare il costo del servizio e, di nuovo, compensare i poveri con imposte negative sul reddito?
Sempre sul Corriere, ma a maggio, Giavazzi e Alesina avevano anche criticato la “spending review”, cioè cioè l’analisi e revisione della spesa pubblica, che, a loro dire, ha partorito un timido topolino, ovvero non un fiore all’occhiello, ma un risultato quasi imbarazzante per il governo.
In poche settimane dopo il suo insediamento, il governo Monti (che poi ha fatto peggio) ha alzato la pressione fiscale di tre punti, dal 42,5 al 45,4% del Pil (era il 40% sette anni fa).
Sulla spesa invece non ha fatto quasi nulla, tranne gli interventi sulle pensioni, certo importanti, ma i cui effetti si verificheranno in modo graduale nei prossimi anni. I tetti agli stipendi più elevati dei dirigenti pubblici, la cancellazione della maggior parte dei voli di Stato, i limiti all’uso delle auto di servizio, la rinuncia al compenso per alcuni membri del governo, hanno un significato etico assai importante, ma nessun effetto macroeconomico.
La spending review di Monti parte dall’ipotesi che sia “rivedibili” solo la spesa che non riguarda i trasferimenti sociali: ma se non si rimette mano in qualche modo anche al nostro stato sociale, rendendolo più efficace nel contrastare la povertà, anziché disperdersi in sussidi alle classi medie (si pensi all’università) non si fanno passi avanti. Su questa materia sarebbe utile rileggere il rapporto della Commissione Onofri scritto oltre un decennio fa, ma disatteso, come molte altre cose, dai tecnici ora (e forse anche dopo) al timone.
Mi tuffo al cinema a vedere “Acciaio”, un film zoppicante ed altalenante ma che, come il libro, sembra la metafora perfetta di questa Italia di oggi, cupa e senza né prospettive né speranze, con spiagge di Piombino fotografate (dal compianto Marco Onorato) nella loro parte più suggestiva, ma mostrate come infinite distese di sabbia e sterpi, dominate da relitti di un passato che si sgretola senza presente né futuro.
E il lavoro (quanto c’è), è tale da fagocitare la natura, il paesaggio, ma soprattutto le esistenze, relegandole a livello di un mero andare avanti, senza una sola prospettiva al di sopra della sopravvivenza.
Carlo Di Stanislao
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