Ritorni di crisi

Mentre si cerca la mediazione e la pace, un attentato terroristico contro un pullman ha causato il ferimento di 21 israeliani a Tel Aviv, salutato con soddisfazione (anche se non rivendicato) da Hamas e con scene di esultanza popolare nella Striscia di Gaza. Il nostro ministro degli esteri Giulio Terzi, informato a Parigi, dove accompagna […]

Mentre si cerca la mediazione e la pace, un attentato terroristico contro un pullman ha causato il ferimento di 21 israeliani a Tel Aviv, salutato con soddisfazione (anche se non rivendicato) da Hamas e con scene di esultanza popolare nella Striscia di Gaza.
Il nostro ministro degli esteri Giulio Terzi, informato a Parigi, dove accompagna il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in visita di Stato, ha definito l’attentato: “Un atto di violenza barbaro che non può trovare alcuna giustificazione, e suscita sdegno ed orrore”, dicendosi “vicino ai feriti ed alle loro famiglie”.
Spiragli per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza erano arrivati nella mattinata di ieri, con le dichiarazioni di Israele di un congelamento dell’offensiva terrestre, mentre dal Cairo arrivavano voci di un accordo vicino per la tregua, entro 24-48 ore.
Lo stesso presidente egiziano, Mohamed Morsi, aveva affermato che la “farsa dell’aggressione israeliana” alla Striscia di Gaza sarebbe finita nella giornata di oggi e fonti di Hamas e della Jihad islamica avevano confermato che l’annuncio sarebbe stato questa sera dal Cairo alle ore 20.00 italiane per entrare in vigore alle 23.00.
Ora, dopo l’ultimo attentato, il clima è di nuovo arroventato. A Tel Aviv è arrivata, intanto, a sorpresa, Hillary Clinton, inviata da Obama per siglare in fretta una tregua. La Clinton farà poi sosta a Gerusalemme e Al Cairo, al fine di fermare un conflitto che rischia di sovrapporsi alla crisi fra Autorità nazionale palestinese e Israele che incombe alle Nazioni Unite.
Infatti, il 29 novembre il presidente palestinese Mahmud Abbas darà luce verde alla presentazione all’Assemblea Generale dell’Onu di una bozza di risoluzione per il riconoscimento della Palestina come Stato non-membro – al pari della Santa Sede – e visto che dispone dei voti per farla approvare ciò significa per Israele una violazione delle intese di pace del 1993 e 1994, capace di far franare l’intero edificio costruito sugli accordi di Oslo. La sovrapposizione fra guerra a Gaza e crisi all’Onu minaccia, pertanto, di travolgere ciò che ancora rimane del progetto di veder convivere due Stati fianco a fianco in Medio Oriente in pace e sicurezza.
Un altro grave ritorno di crisi riguarda la crisi europea, con Spagna e ora anche Francia, che si vede togliere da Moody’s la tripla a causa del fatto che ha sì un rapporto debito/pil al 90% (cioè 30 punti percentuali più basso di quello italiano), ma esso degradando più rapidamente, anche perché il peso della spesa pubblica complessiva francese sul pil nazionale e’ al 57%, la più alta fra i Paesi della Ue. Non a caso il quotidiano tedesco Bild (2 mln e mezzo di copie, quindi grande influenzatore dell’opinione pubblica tedesca) del 31 ottobre scorso ha scritto, anticipando di fatto la sanzione di Moody’s dello scorso lunedì: “Il problema più serio della zona euro, in questo momento, non sono più la Grecia, la Spagna, i Paesi Bassi o l’Italia ma la Francia perché essa non ha ancora fatto nulla per migliorare la produttività del suo sistema”.
Il motivo di questa debacle si deve al fatto che Hollande e’ stato eletto soprattutto sulla base delle sue irrealistiche promesse che, cozzando poi contro la realtà, non sono state mantenute. L’impressione dei francesi e’ che Hollande, da quando e’ salito all’Eliseo, non sappia che cosa fare, poiché è presidente di un Paese che e’ sinora vissuto splendidamente al di sopra dei suoi mezzi, ad esempio, in Francia, si va in pensione a 60 anni e la settimana lavorativa e’ di 35 ore, la più corta tra tutti i 27 Paesi della Ue.
Naturalmente oggi, a causa del downgrade francese, tutte le borse sono in calo e anche se Graham Bishop, strategist di Exane BNP Paribas afferma che questa “è solo una reazione emotiva che non cambia i giochi”, il cuore de l’Europa continua a palpitare per il futuro.
Intanto è durata tutta la notte la riunione fiume dell’Eurogruppo che doveva sbloccare i 44 miliardi della seconda tranche di aiuti alla Grecia, con le resistenze tedesche che stavolta hanno fatto saltare l’accordo. E ora Atene rivolgendosi all’Ue dice che “Senza l’accordo è a rischio la stabilità dell’euro”. Il presidente Jean Claude Juncker ha annunciato ufficialmente una nuova riunione per lunedì, ma l’accordo si preannuncia difficile, anche perché Pil rating dell’Efsf dipende da quello dei Paesi membri e la perdita della tripla A da parte della Francia significa che il livello di garanzie su cui può contare il fondo non è più adeguato.
Comunque, a quanto si apprende, l’Eurozona è disposta a dare due anni in più alla Grecia per risollevarsi dal debito, fissando nuovi paletti al 120% da raggiungere nel 2020; ma è il Fmi che invece non intende cedere. L’Eurogruppo ha però individuato un pacchetto di misure credibili per contribuire in modo sostanziale alla sostenibilità del debito greco, ma la Germania vi si oppone, considerandole ancora garanzia non sufficiente.
Da noi le cose, anche se fra mille tagli e difficoltà, vanno meglio e va riconosciuto che il governo Monti si è rivelato come una efficace, dal punto di vista capitalistico, opzione di governance, che ha saputo intervenire contemporaneamente sia sul piano interno che sulla scena europea.
Ma quanto accaduto in Grecia e in Spagna e quanto ora accade in Francia, oltre al fatto che non pare placato del tutto il processo speculativo sul debito, ci fa pensare che da noi e in gran parte d’Europa, vi sarà un inasprimento delle lotte ed un allargamento sociale del conflitto. Questo perché, in assenza di risposte efficaci della governance, e anzi con un suo ripiegamento sull’austerity e sulla privatizzazione dei beni pubblici e del welfare come unica risposta, la possibilità perché si apra in termini sociali una stagione di proteste, di lotte di resistenza, e quindi anche di potenziale progetto di alternativa, è sempre più sinistramente concreta.
A questo punto, io credo, la funzione di regolatore di tensione del governo Monti, la misura in termini di efficacia delle sue politiche, peraltro devastanti peggio che nei vent’anni berlusconiani, sul rapporto tra crisi e condizioni materiali; è venuta meno ed il malcontento ora supera largamente la paura della prima fase e la rassegnazione successiva , alimentato dalla sempre più forte convinzione che quello di Monti sia un governo dei banchieri e fatto solo per i banchieri e non per i larghi strati della popolazione.
Che senso hanno oggi, nel tempo del fiscal-compact, del pareggio di bilancio elevato a strumento di normazione politica europea, dei processi di unificazione bancaria e fiscale, se non solo quello di esercizi demagogici e populisti, come anche tutte le ipotesi politiche che si fondano su un anti-europeismo di bandiera?
Per essere per contro questa Europa siamo obbligati a costruirne un’altra, in cui sia evidente che nessun piano neo-riformista keynesiano può risolvere una crisi che è di sistema e anche di prospettiva.
Io la penso come Jacques Attali, saggista ed economista francese il quale pensa che la vera bomba da disinnescare in Europa sia la Germania, perché, a ben vedere, è proprio lei, a causa , della sua demografia e del suo catastrofico sistema bancario, ad essere in crisi e alla base della crisi e, a medio termine, sarà in una situazione ancora più grave dei paesi che ora bacchetta, in compagnia di Inghilterra e Stati Uniti.

Carlo Di Stanislao

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