Cattive notizie

Anche se in generale sono d’accordo con Michele Loporcaro che nel suo bel libro (edito da Feltrinelli nel 2006) “Cattive notizie. La retorica senza lumi dei mass media italiani” ci dice che i media di oggi parlano e mostrano con brutale immediatezza le cose, cifra di uno stile che impone la semplificazione populistica all’analisi, l’emotività […]

Anche se in generale sono d’accordo con Michele Loporcaro che nel suo bel libro (edito da Feltrinelli nel 2006) “Cattive notizie. La retorica senza lumi dei mass media italiani” ci dice che i media di oggi parlano e mostrano con brutale immediatezza le cose, cifra di uno stile che impone la semplificazione populistica all’analisi, l’emotività al raziocinio; non vi sono dubbi che le cattive notizie non sempre sono create apposta, ma ci circondano, ormai quasi giornalmente. E questo fine settimana non pare fare eccezione rispetto ad altri tragici e cupi week-end recenti.
In primo luogo con una nuova tragedia della follia negli USA, la terza in pochi mesi, la più agghiacciante di sempre, con 20 bambini uccisi in una scuola di Newtown, un paesino fra i boschi a 100 chilometri da New York.
L’omicida, ucciso a sua volta dalle forze di polizia, aveva dapprima ammazzato in casa la madre, insegnante nella stessa scuola elementare dove poi ha portato a termine, con lucido delirio, la sua mattanza.
Il bilancio finale è di 27 morti, fra cui 20 bambini fra i 5 ed i 10 anni e dopo la strage si è appreso dal fratello, che il giovane ventenne responsabile della strage, Adam Lanza, soffriva di autismo.
“Ci sono state troppe stragi così negli ultimi anni”, ha affermato il presidente degli Stati Uniti Barack Obama senza trattenere le lacrime in diretta tv. “Dobbiamo agire per impedire che stragi come queste si ripetano, al di là della politica”, ha aggiunto, parlando alla nazione lentamente “come genitore” ancor prima che presidente, mentre da più parti torna a levarsi il dibattito sulle ‘armi facili’ negli USA.
Secondo la Nbc, le armi usate nella strage della scuola elementare di Newtown in Connecticut erano state acquistate legalmente e registrate a nome di Nancy Lanza, la madre dello sparatore che, lo ripetiamo, è affetto da una grave forma psichiatrica.
Come ricordano oggi vari quotidiani, i punto è sempre lo stesso: abbattere le lobby dei produttori di armi e di quelli che li sostengono.
Ad agosto 2012, a meno di un mese dal massacro di Denver, oltre il 60% degli americani si schierò a favore del secondo emendamento, quello che dà diritto alla detenzione di armi, il famoso diritto all’autodifesa sancito in Costituzione.
Secondo il Federal bureau of investigation (Fbi) i privati cittadini americani possiedono tra 240 e 270 milioni di armi, senza contare quelle presenti negli arsenali delle forze armate e dell’ordine. In pratica circa ogni cittadino ne possiede una, al di là della effettiva necessità e soprattutto del proprio stato di salute psico-fisica.
Il principale gruppo di pressione, la National rifle association (Nra) conta 4 milioni e 300 mila di iscritti e nelle ultime elezioni politiche, come da tradizione ha fatto il tifo per il candidato del Grand old party, Mitt Romney.
Dicono in molti negli USA che avere una pistola non trasforma direttamente in assassini. Ma uno studio del New England Journal of Medicine sostiene che la possibilità di commettere un omicidio per chi è proprietario di un’arma da fuoco è tre volte superiore alla media e cinque volte se si parla di suicidi.
La facilità con cui negli USA ci si può procurare una pistola o un Kalashnikov mette i brividi. In ben 50 stati, infatti, per comprarsi un’arma basta entrare in un negozio specializzato presentando semplicemente un documento d’identità, sicché si calcola che il 45% degli statunitensi è detentore di un’arma potenzialmente mortale.
L’altra cattiva notizia riguarda la condanna a 11 anni (meno i sei mesi già trascorsi in carcere), dell’ex poliziotto Dmitry Pavlyuchenkov, per l’assassinio di Anna Politkovskaya, giornalista critica da sempre verso il governo Putin, uccisa nella capitale russa la sera del 7 ottobre 2006.
Dopo sei anni e un processo annullato, c’è dunque un verdetto in primo grado che individua un colpevole, ma non chi ha ordinato l’omicidio della scomoda giornalista della Novaya Gazeta, non chi le ha sparato, bensì soltanto chi ha passato l’arma del delitto al killer.
Un processo a parte dovrà giudicare il ruolo di cinque altre persone gravitanti intorno agli ambienti ceceni, quegli ambienti che Anna Politkovskaya conosceva bene e su cui aveva indagato con passione e ostinazione, denunciando le violazioni dei diritti umani ai danni dei civili.
Accusato di aver organizzato l’omicidio è Lom-Ali Gaitukayev, che, per eseguirlo, avrebbe ingaggiato tre suoi familiari: i fratelli Rustam, Ibragim e Dzabrail Makhmudov e un altro ex poliziotto, Sergei Khadzhikurbanov. Uno dei Makhmudov, Rustam, è sospettato di essere stato l’esecutore materiale.
La cattiva notizia riguarda il fatto che dopo sei anni resta ancora in attesa la risposta alla domanda più importante: chi ha voluto la morte di Anna Politkovskaya?
L’ultima cattiva notizia è relativa ai nostri due marò detenuti in India, che, con profonda amarezza dei familiari e segni di sconforto del nostro ministro degli esteri Giulio Terzi, che sulla sua pagina Facebook si sfoga dicendo che l’Italia è stata snobbata dagli alleati, vedono allungarsi la loro detenzione in terra straniera.
Netta contrarietà in una nota ufficiale è stata espressa da Palazzo Chigi, che scrive: “Il differimento della pronuncia della Corte Suprema – non appare assolutamente comprensibile agli occhi delle istituzioni e dell’opinione pubblica italiane e provoca forte preoccupazione. Il Governo italiano, proseguirà con immutato vigore la propria azione volta a far prevalere le proprie ragioni e a riportare così in Italia quanto prima i due militari del Battaglione San Marco”.
Ma c’è chi, sulla stampa di destra, afferma che il nuovo rinvio di tre mesi della corte suprema indiana, dovrebbe indurre l’Italia a ritirarsi da missioni come il pattugliamento dei mari davanti alla Somalia o le missioni in Libano e Afganistan.
Va detto che a giudizio della più parte dei giuristi, il comportamento delle Autorità indiane è del tutto contrario al diritto internazionale, dato che gli organi dello Stato sono immuni dalla giurisdizione penale dello Stato straniero quando svolgono attività iure imperii. La giurisdizione sui fatti commessi dai propri organi in territorio straniero spetta allo Stato di nazionalità come, ad esempio, avvenne nel caso del Cermis dove correttamente la nostra Corte di Cassazione dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice italiano ed il pilota del velivolo militare fu poi processato da un tribunale militare statunitense. A ciò si aggiunga che, come emerge dalla ricostruzione della vicenda, il fatto è anche avvenuto (il 15 febbraio scorso, ben dieci mesi fa ) al di fuori delle acque territoriali indiane. Il difetto di giurisdizione indiano è quindi ancor più evidente. L’India avrebbe dovuto affrontare la questione della presunta responsabilità dei marò italiani dal punto di vista diplomatico (ad esempio, elevando una protesta ufficiale e/o chiedendo garanzia circa l’apertura da parte italiana di un’inchiesta sui fatti) e non giudiziario.
Fra una settimana si correrà il Gran Premio di formula 1 in India e il Giornale si è fatto latore di una campagna, che ha già raccolto 3.500 firme, perché le rosse di Maranelo gareggino con fiocchi gialli, in segno di solidarietà con i due fucilieri della Marina detenuti da dieci mesi, con una giustizia, quella indiana, che rinvia di altri tre mesi la sentenza sui ricorsi presentati dall’Italia in difesa della giurisdizione nazionale e della immunità funzionale dei due marò.
Siamo una società attraversata da lutti e disagi e alla disperata ricerca di felicità, quella che nella contraddittoria America, è un diritto costituzionale.
Le accademie e le ricerche scientifiche in ambito umanistico sono state per decenni sequestrate dal Comportamentismo prima e dal Cognitivismo dopo: ed erano rivolte a capire quale percorso nel labirinto di cartone avrebbe preso il topino di turno, qualora fosse costretto alla visione di un programma televisivo pomeridiano.
Ci siamo quasi abituati al dolore e lo abbiamo studiato in ogni suo aspetto, non per impostazione universitaria, ma a causa di una cultura che affonda le sue radici nella religione cattolica ed ebraica, che da oltre duemila anni è centrata su concetti di “Colpa” e “Peccato” , penetrando progressivamente nel nostro codice genetico, attraverso le varie declinazioni di “Trasgressione”, “Punizione”, “Espiazione”, “Male”, “Difetto”, eccetera. Queste radici sono quelle che fanno germogliare uno strisciante vittimismo sociale, culturalmente tollerato, con una ricerca scientifica che è figlia di una tradizione che immagina un demonio dentro l’uomo, cacciatosi in profondità fin dalla nascita.
E sono in pochi a comprendere che, invece di reagire con violenza alla violenza che ci circonda, dovremmo avere la forza di incrementare la saggezza, il coraggio, la naturale umanità, la tolleranza, la coralità e la cooperazione; di ricercare la bellezza che non è istintiva, ma è una potenzialità di natura trascendente.
In questo modo, la felicità non sarebbe più uno stato fragile e passeggero, un istante rapido e fuggevole, continuamente messo in forse dagli eventi. Ma semmai una sensazione difficile da spiegare a parole, che lentamente conquista maggiore spazio dentro il cuore e che, inspiegabilmente, lentamente finisce per possederlo tutto intero e dispetto di tutto.
Accanto al genere filosofico dell’utopia, la descrizione della società felice e perfetta, nel nostro secolo è nato il genere letterario della distopia, nel quale viene presentata, non più nel sogno ma nell’incubo, la società peggiore possibile.
Dall’osservazione che le distopie riproducono molti tratti delle utopie si è voluto spesso concludere che esse vanno considerate quasi uno smascheramento della loro implicita perversità. Ma il rapporto è più complesso: se l’utopia descrive una società senza nessuna connessione spazio-temporale con quella reale e totalmente fondata sulla razionalità, la distopia muove dalle tendenze esistenti e le esamina nelle loro ultime conseguenze. In entrambi i casi, tuttavia, si tratta di invitare alla progettazione di un mondo migliore.
Come scrive Paola Gatti, le distopie del nostro secolo, da parte loro, hanno una comune origine nella leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij. In essa viene sostenuta l’antinomia tra libertà e felicità: la prima diventa inevitabilmente per l’uomo un peso insopportabile, e solo un potere assoluto e autoritario è in grado di portare gli uomini alla felicità. Tale tema viene ripreso in forme diverse dai tre romanzi distopici Noi, Il Mondo Nuovo e 1984. Il primo sottolinea la perdita della nozione di individualità come condizione della felicità; il secondo presenta un totalitarismo fondato sul controllo tecnologico e sulla cancellazione dei processi naturali di riproduzione; il terzo infine costituisce una sorta di fenomenologia del potere, in cui la teoria della leggenda del Santo Inquisitore viene scardinata nell’affermazione di una crudeltà totalmente fine a sé stessa.
La soluzione fra crudeltà del mondo e felicità individuale, sta, secondo le filosofie orientali (cinese, indiana, tibetana, ecc.), nel recupero di un femminile accogliente in ciascuno di noi, un femminile sensibile che ricerca la propria felicità non negando quella degli altri. La Cabala ebraica per questo raccomanda: State molto attenti a far piangere una donna, che poi Dio conta le sue lacrime” ed il Talmud recita: “La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi perché dovesse essere pestata, non dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale…. un po’ più in basso del braccio per essere protetta, e dal lato del cuore per essere Amata….”

Carlo Di Stanislao

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