Il processo di ricostruzione che la città di l’Aquila, tra alterne fortune si accinge ad attuare, pone un grave interrogativo, peraltro comune a molte città italiane ed europee, dopo l’affievolimento della cultura industriale. Ci si chiede se sia possibile generare un nuovo modello di città all’interno di un’economia e di un sistema di scambi dominati ancora da un paradigma di sviluppo che trasforma gli individui in “intossicati indigenti,” sostituendo i legami di solidarietà che costituiscono la trama di una società con un progetto che si serve di una metodologia simile a quella che produce automobili o fibre di vetro. Conosciamo gli esiti negativi di questo modello che ha plasmato le periferie urbane, che è stato la causa dei grandi sconvolgimenti climatici, dell’inquinamento, della recessione, della folla di rifugiati che vagano a milioni: esiti tutti di una mutazione incalzante generata dall’utilitarismo, che sta trasformando l’homo oeconomicus in homo miserabilis. In questo modello di crescita non c’è soltanto la dilapidazione irreversibile dell’ambiente e delle risorse non sostituibili; c’è anche la distruzione antropologica degli esseri umani, trasformati in animali produttori e consumatori. Non si può uscire dall’attuale crisi, né si può realizzare a l’Aquila una nuova visione di città se si rimane ancorati all’esclusiva e conflittuale monogamia di Stato e mercato, il primo sempre più configurato come protesi del secondo. Occorre tornare a prendere in considerazione uno schema d’integrazione sociale basato sulla reciprocità solidale, che si realizza attraverso il dono. Nonostante le ideologie dominanti e il riduzionismo imposto dalla egemonia del discorso economico tacciano del “dono” come forma di scambio fondato sulla reciprocità personalizzata e differita e abbiano spostato lo scambio essenzialmente sulla sfera del mercato, nella realtà quotidiana la presenza del dono appare come una costante che domina gran parte della scena della vita contemporanea. Ispirato al triplice obbligo del dare, ricevere, ricambiare e ben lungi dall’essere relegato nella sfera familiare o affettiva, esso è presente nella sfera politica e in quella mercantile. Che cosa tiene uniti uomini e donne in una società se non il “mettere in circolo” legami, relazioni, azioni? Il pensiero più diffuso ritiene si tratti di forme di scambio mercantile, interpretabili secondo modelli e rapporti commerciali. Ma i legami sociali si spiegano davvero solo in termini di calcolo e interessi reciproci? Una parte considerevole della nostra stessa vita si esprime secondo le dinamiche del dono, dell’obbligo e insieme della libertà. Doni unilaterali agli estranei, agli sconosciuti, dono del sangue e degli organi, doni di cui si fa esperienza durante le catastrofi, volontariato, convivialità, accoglienza, gruppi di aiuto reciproco, sono alcune intonazioni presenti anche nella nostra città che, nonostante siano disgiunte, frammentate e spesso poco consapevoli del loro valore innovativo, costituiscono il substrato che può nutrire un progetto di complementarietà, capace di favorire quella ibridazione tra le tre forme di scambio (reciprocità, redistribuzione, mercato), che è considerata il punto più alto della concezione di società urbana su cui impostare una nuova visione di città. E’ forse la vera alternativa in grado di superare il vecchio paradigma utilitaristico e aprire le porte a nuove concezioni di città e di spazio urbano. Meno Stato e più scambi, non regolati dal denaro o dall’amministrazione, ma fondati su reti di aiuto reciproco di cooperazione volontaria di solidarietà autorganizzata, che coinvolgano le diverse categorie e fasce sociali presenti nell’intero contesto territoriale. E’ questo il principio a cui la società civile aquilana potrebbe ispirarsi per fecondare i propri umori rigenerativi.
Giancarlo De Amicis
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