“Le forze che prendono parte agli attacchi armati devono a ogni costo evitare bombardamenti indiscriminati e fare il massimo per evitare vittime civili”: così Paule Rigaud, vicedirettrice di Amnesty International per l’Africa, ha aperto l’appello che l’organizzazione in difesa dei diritti umani ha lanciato agli schieramenti in campo e alla comunità internazionale. Un appello rilanciato anche da Save the Children, tramite il suo direttore Tom Mc Cormack, con particolare riferimento alle condizioni dei bambini e delle donne coinvolti, loro malgrado, nel conflitto che sta infiammando il Mali in questi giorni.
Il conflitto nel grande stato africano è iniziato ad aprile dello scorso anno, quando alcuni gruppi armati di ribelli islamisti hanno tentato il colpo di stato e preso il controllo delle regioni settentrionali del paese in opposizione al governo centrale laico di Bamako: riuniti sotto la sigla del Movement for the liberation of Azawad, i gruppi islamisti, probabilmente legati ad Al Qaeda, hanno proclamato la secessione della regione di Azawad, situata all’estremità nord del paese, imponendovi l’applicazione della legge coranica.
Nell’incapacità di gestire la situazione sfociata in vera e propria guerra civile, il governo del Mali ha richiesto l’intervento della comunità internazionale per combattere i ribelli: un aiuto arrivato a gennaio con l’invio di truppe francesi nell’ambito dell’operazione “Serval”, mentre nel frattempo le Nazioni Unite hanno autorizzato l’intervento di una coalizione a guida africana che utilizzi tutte le misure necessarie per riconquistare il nord del paese per impedire che il fondamentalismo islamico dilaghi anche nelle regioni meridionali.
Come sempre avviene nelle guerre civili, però, a farne le spese è la popolazione civile. Negli ultimi giorni, in concomitanza con l’intensificarsi del conflitto, almeno sei civili sono morti nei combattimenti per controllare la città di Konna, un numero imprecisato di persone è rimasto coinvolto nel bombardamento degli aerei francesi nelle zone di Gao e Kidal e molti altri sono stati travolti dalla conquista della città di Diabaly, 400 chilometri a nord della capitale Bamako, da parte dei gruppi di terroristi islamici.
A questo triste bilancio va aggiunto poi il dramma dei bambini soldato, spesso utilizzati nelle milizie degli insorti, le gravissime violazioni ed abusi dei diritti umani perpetrate nei confronti della popolazione inerme in virtù dell’applicazione letterale della Shariah nei territori sotto il comando islamico – si parla di amputazioni, lapidazioni e frustate come sanzioni per chi non rispetta il diritto islamico o vi si oppone – e , infine, il problema dei profughi, in maggioranza donne e bambini, già messi duramente alla prova da condizioni di povertà estrema e dalla severa siccità che ha colpito le regioni del nord, costretti a fuggire dalle loro case per mettersi in salvo. Profughi che vanno ad ingrossare le fila dei disperati che si riversano nella capitale, dove manca qualsiasi struttura di accoglienza adeguata.
Su questi temi Amnesty International e Save the children hanno indirizzato il loro appello alla comunità internazionale con la precisa responsabilità di fare di tutto affinché si risparmino inutili sofferenze ai civili. Amnesty ha chiesto di favorire l’immediato dispiegamento di osservatori sui diritti umani, che monitorino con particolare attenzione l’uso dei bambini soldato, i diritti dei bambini e delle donne e la protezione della popolazione civili. Agli eserciti coinvolti si chiede inoltre di dare il maggiore preavviso possibile alla popolazione civile in vista degli attacchi e, da parte dei ai gruppi armati, di non piazzare obiettivi militari nei pressi di quelli civili, nonché di garantire l’incolumità degli ostaggi. Save the Children invece ha sollevato la questione dei profughi. Dallo scoppio della guerra l’anno scorso, già 350 mila persone sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni a cui si aggiungono massicciamente gli ultimi arrivati: un’emergenza nell’emergenza che rischia di provocare l’ennesima crisi umanitaria di fronte alla quale, si spera, la comunità internazionale non rimarrà ferma a guardare.
Giulia Lo Giudice
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