“La democrazia è il governo del popolo, dal popolo, per il popolo”(Abraham Lincoln, 1863). La figura del grande Presidente repubblicano unionista Abraham Lincoln nel capolavoro cinematografico di Steven Spielberg (www.thelincolnmovie.com/) vuole essere un omaggio a quanti credono nell’Umanità e nella Libertà dei Popoli sulla Terra. Perché tutto è connesso. Il passato, il presente, il futuro. E chi viola la Legge Naturale a qualsiasi titolo personale ed oggettivo, deve essere pronto a subirne le conseguenze drammatiche razionalmente prevedibili. Centocinquanta anni dopo Lincoln, la schiavitù nel mondo (in tutte le sue forme e in tutti i suoi vizi antichi, nuovi e futuri, come avverte l’inenarrabile, cruento, fantapolitico, apocalittico, metastorico, inspiegabile film multiplo interconnesso, omosessualizzante e cristianofobico “Cloud Atlas” dei Wachowski per non si sa quale “libertà” negli Stati Uniti Marziani!) è ben lungi dall’essere totalmente debellata e sconfitta, senza invocare la temuta Unanimità. Sono in corso guerre per sradicarla dal pianeta Terra, ma soprattutto azioni (i Cristiani vengono uccisi nel mondo per annunciare il Vangelo di Cristo) umanitarie per diffondere la Cultura dell’Amore e della Fraternità. Il Presidente “boscaiolo” Abraham Lincoln (www.lincolnilfilm.it) fu un uomo di Pace. Ma soprattutto fu l’uomo costretto alla Guerra Morale per abolire la schiavitù ed affermare la Libertà negli Stati Uniti d’America, il “tempio” delle Libertà fondamentali della Persona e dell’Impresa che in Italia stiamo impercettibilmente perdendo. “Ho sempre voluto raccontare una storia su Lincoln – dichiara il regista Steven Spielberg – vedevo una potente figura paterna in quel modo di essere completamente devoto al proprio ideale, alla sua visione del mondo”. Il film Lincoln, dal 24 Gennaio 2013 nelle sale
italiane, è una spettacolare caratterizzazione drammatica in costume delle reali motivazioni ora perfettamente ingegnerizzate (sono 12 le candidature dell’Academy all’Oscar AD 2013, tra cui la Nomination per Miglior Film e Miglior Regia, dopo il Golden Globe Award, con sette Nomination, al protagonista Daniel Day-Lewis, e le dieci Nomination al Premio Bafta) che condussero i fratelli Americani alla loro prima Guerra Civile dal 1861 al 1865. Quella che gli Italiani avrebbero combattuto (alcuni pure in America, tra cui molti “briganti”, nei due fronti!) ideologicamente per i successivi centocinquanta anni su altri campi di battaglia. Ma solo Steven Spielberg, il favorito della prossima premiazione degli Academy Awards che si terrà a Los Angeles il 24 Febbraio, poteva tanto. Perché è lui, Spielberg, l’unico inimitabile “re Mida” del Cinema, a rendere prezioso e geniale qualsiasi progetto cinematografico al quale lavora. Un sogno irrealizzabile in Italia. Le “entusiastiche” celebrazioni ufficiali autoreferenziali del nostro 150mo anniversario dell’Unità d’Italia non hanno saputo e voluto meritare altrettanta attenzione istituzionale nei confronti della Settima Arte. Il nostro cinema (le logorroiche cause ideologiche e politico-economiche sono ben note) con i suoi “maestri” e le sue “maestranze”, è stato messo immeritatamente nelle condizioni di tacere al popolo italiano le sue potenzialità liberamente esprimibili altrove! Ma non in Italia. Per apparire così del tutto “incapaci”, non professionalmente s’intende, a finanziare e sostenere progetti simili al kolossal Lincoln per ideare e rappresentare magnificamente il nostro Risorgimento, la nostra Guerra Civile per l’Unione e la Libertà del popolo italiano, e scene eroiche come quelle combattute e vissute realmente dai suoi protagonisti Civitellesi nella grandiosa Fortezza di Civitella del Tronto assediata dai Piemontesi. Fatta naturalmente eccezione per l’immortale “Gattopardo”, tratto dal romanzo di Giuseppe Tomasi da Lampedusa, pellicola sublime di Luchino Visconti dell’Anno Domini 1963, filmata a cento anni esatti dai fatti di Lincoln, ed ogni tanto trasmessa sui canali digitali. Nel suo capolavoro Lincoln, Steven Spielberg dirige il due volte premio Oscar Daniel Day-Lewis in una pellicola biografica che racconta gli ultimi tumultuosi mesi del 16mo Presidente degli Stati Uniti d’America. In una Nazione divisa dalla guerra e dai grandi venti del cambiamento “industriale”, il Presidente Lincoln persegue una rigorosa linea d’azione per far finire la guerra civile, unire le Persone degli Stati Americani continentali, abolire la schiavitù, difendere la Patria dalle aggressioni esterne, aprire l’Economia americana al mondo intero. Grazie alla sua moralità ed alla feroce determinazione che scaturì dal desiderio di voler ottenere il successo politico-militare, le sue scelte cambieranno il destino delle generazioni future degli Usa. Un kolossal nasce da altrettanta volontà e determinazione. L’idea del progetto prende vita quando Steven Spielberg incontra la scrittrice Doris Kearns Goodwin che aveva appena finito di scrivere il suo libro “Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln” pubblicato nel 2005 e letto dallo stesso Spielberg in anteprima, su concessione della scrittrice. Così il regista decide di “salire in campo” per fare un film sulla vita di Abraham Lincoln con appena 50 milioni di dollari, basandosi sul libro della Goodwin. Le riprese del film iniziate il 17 Ottobre si sono concluse il 19 Dicembre 2011. Dal 9 Novembre 2012 è nei cinema americani. Dal 16 Novembre in tutto il mondo. In Europa dai primi giorni del 2013. Il successo della pellicola e la consacrazione di Spielberg sembrano assicurati. L’attesa per la fatidica frase “The winner is”, è un grandioso “assist” alla scoperta della vita di Abraham Lincoln, la terza persona storica sulla quale si scrive di più, dopo William Shakespeare e Gesù Cristo. Ieratico, paterno ed autorevole, Lincoln troneggia nel firmamento tutt’altro che massonico e retorico dei Padri della Patria statunitensi, come rivelano le storiche pagine dell’Harper’s Weekly – Journal of Civilization nelle fatidiche date: 16 Marzo 1861, 18 Marzo 1865, 29 Aprile 1865, 6 e 13 Maggio 1865. È Lincoln, infatti, la scaturigine delle Libertà fondamentali che oggi ci sogniamo pure in Italia. Fu il 16esimo Presidente Usa a consegnare alla Storia la sua “Proclamazione della Emancipazione”(1863) che aboliva la schiavitù, rivoluzionando l’economia americana aperta al mondo. Per farlo capire a tutti, lavora di cesello Steven Spielberg con il suo tocco magistrale in stato di grazia. Un sogno altrettanto nascosto, perduto e mai ritrovato per i registi italiani europei. E c’è un perché fondato su un’abissale intima struggente consapevolezza. Nella biografia dell’autore e produttore di pellicole immortali come E.T., Indiana Jones e Schindler’s List, la cinematografia si fonde con la realtà e si trasfigura a “icona” in grado di assemblare concetti apparentemente lontani anni luce in un tessuto di suprema eccellenza artistica. “Credo che la peggior cosa che mi sia capitata negli ultimi anni – rivela Spielberg – sia stato il mio volontario esilio da mio padre. E la cosa più grande, invece, è stata quando ho visto la luce e ho capito che avevo bisogno di amarlo, in un modo che anche lui potesse restituirmi amore. Lincoln era il padre d’una Nazione che aveva bisogno di un riparo. In un certo senso, è il film che mi ha fatto riflettere sulla relazione positiva tra me e mio padre negli ultimi 25 anni”. Dopo essersi riconciliato con papà Arnold (95 anni), ingegnere informatico ex-alcolista che lasciò la madre di Spielberg, Leah (92), ferendo il 19enne Steven, per il Nostro giunge il momento di universalizzare la creatività riconciliata sul Grande Emancipatore, affidandone l’interpretazione a Daniel-Day Lewis, attore capace di immergersi nel personaggio con potente efficacia. “Il mio film è su un leader al lavoro – spiega Spielberg – che deve assumere decisioni ponderate, buttando in faccia all’opposizione crescente le cose già fatte”. Semplicemente geniale è l’atto di condensare in 150 minuti (speriamo nella versione estesa speciale!) le 800 pagine del bestseller “Team of Rivals” della storica Doris Kearns Goodwin. Grazie allo sceneggiatore Tony Kusher, tutto è possibile. Ha sfoltito lo “script” caratterizzando il lato umano di Abraham Lincoln, caro a Barack Hussein Obama, il primo presidente Usa afroamericano “figlio” di Lincoln. “Lincoln ha avuto una vita interiore molto complicata – sottolinea Spielberg – al contempo estremamente chiara. Gli piaceva parlare, argomentando ogni aspetto delle questioni. I nemici gli rimproveravano di non venire mai alla conclusione”. Il regista “dribla” gli effetti speciali e illustra una sola scena di battaglia all’inizio del film per poi concentrarsi sugli ultimi anni di vita di Lincoln nel 1865. “Il mio è un film sulla leadership – fa notare Spielberg – ed è una lezione sull’importanza del dire la Verità. Lincoln viveva con due agende ed entrambe avevano a che fare con un’unica soluzione: abolire la schiavitù e far finire la guerra”. Idee chiare come quelle del Premier Mario Monti, il novello “unionista” riformista italiano, condensate però in una sola Agenda. Quella di un uomo che, come Lincoln, vuole fare la Storia d’Italia e d’Europa: abolire la schiavitù del politichese, unire i riformisti e far finire la guerra civile ideologica, economica, politica, sociale e culturale tra il Nord e il Sud d’Italia e d’Europa, che strozza i “sudditi” e “cittadini” del Vecchio Continente e del Belpaese da 150 anni. Steven Spielberg affida a Sally Field il ruolo di Molly Todd, moglie nevrastenica di Lincoln ed a Tommy Lee Jones il ruolo del radicale abolizionista Thaddeus Steven. Gli Oscar e i 150 milioni di dollari al box-office americano, tuttavia, non bastano a Spielberg. Con Lincoln il regista vuole correggere certe “esagerazioni” cinematografiche sulla Guerra Civile Americana, lasciate passare nell’immaginario collettivo con fin troppa facilità da “Via col vento” e “Gettysburg”. Lincoln, celebrato 27esimo film di Steven Spielberg, è molto più del classico prodotto commerciale da Oscar. Nordisti e Sudisti, molto più acculturati dei loro “emuli” italiani d’oltre Oceano che non giungeranno mai a una soluzione pacifica presidenziale, unionista e repubblicana, nel Nuovo Continente se le danno di santa ragione a cominciare dai “gabinetti” di guerra. I rispettivi “stati maggiori” combattono una guerra totale per il futuro degli Stati Americani: sul piano ideologico, economico, politico e militare. Lincoln, quindi, è soprattutto una bella lezione di Storia che piace ai giovani. C’è chi potrà sorridere: il cinema non insegna la Storia. Spielberg può farlo tranquillamente. Perchè il grande cinema può generare curiosità ed analisi. Stimoli che mancano nella scuola italiana, a cominciare dalle Elementari dove la figura altrettanto storica e ieratica del Maestro e della Maestra deve recuperare la sua autorevolezza. Il Presidente Lincoln di Daniel Day-Lewis, narra aneddoti di vita vissuta e spezza la tensione della Guerra Civile chiacchierando con i telegrafisti, gli uomini del suo gabinetto o con l’attendente insonnolito. La scrittura di Tony Kusher è astuta, piena di contrappunti tra la scrosciante verbosità del “Re Abramo l’Africano”, com’è sbertucciato Lincoln dai rivali in un Parlamento del 1865 che, forse perché tutto è quantisticamente connesso, somiglia al nostro, abitato com’è da risse verbali e non solo, e l’aneddotica di maniera. È il Lincoln che non ci si aspetta nel cinema italiano abituato a più ipnotiche, volgari e torrenziali amenità troneggianti da quattro soldi. In barba alla grande Storia d’Italia foraggiata a chiacchiere dai nostri presunti giurassici “conservatori e progressisti” di sinistra, destra e centro. Lincoln, tuttavia, non è una fiaba popolare. Funziona la scelta di concentrare la figura presidenziale ritraendola come marito, padre, commilitone, uomo delle Istituzioni, amico del suo popolo, negli ultimi quattro mesi prima del suo assassinio in teatro per mano di John Wilkes Booth. L’attesa e la soluzione di mostrare una battaglia pantografica, nello scontro tra Nordisti e Sudisti, è risolta a Wilmington. Un gruppo di militari si avvinghia omericamente in acque paludose, poi in dissolvenza e subito il Presidente porge ascolto a due soldati di colore. Si capisce che il “boscaiolo” è un uomo del popolo. “La vista di una chiatta piena di schiavi neri mi ha sconvolto” – rivela Lincoln, persuadendo un deputato a votare per il 13esimo Emendamento voluto per abolire la schiavitù. E qui spunta la classica “bustarella” da sempre in voga, anche negli Usa degli 1865, tra i Repubblicani Unionisti guidati da Thaddeus Stephens, un Tommy Lee Jones strepitoso come sempre, mentre autorevolmente si impone per ottenere l’uguaglianza dei diritti, e i Democratici conservatori dei privilegi sudisti. I dollari utili a conquistare i voti necessari sono infilati nel “menu” istituzionale. L’importante è vincere con noncuranza la riottosa opposizione dei bigotti avversari feudali. E che dire delle scene in cui il Presidente Lincoln si lucida gli stivali in penombra, prende il figlio Teddy a cavalluccio, litiga con la disturbata moglie Molly (Sally Field), mentre lotta contro il pregiudizio e ricorda agli Americani i teoremi di Euclide, mostrando il lato nobile della Politica? Qualcosa di cui in Italia e nel mondo si è perduta per sempre la Memoria. Con le relative conseguenze. In tempi storici di campagna elettorale per le Elezioni Politiche e Presidenziali italiane del 24-25 Febbraio 2013, è salutare imbattersi in un film storico come Lincoln che illustra come in certi casi la compravendita dei voti e dei seggi parlamentari in assenza di sondaggi (il sondaggismo è una patologica forma, non più rara, di randagismo politico-istituzionale da Far West, di assalto alla diligenza dei cittadini elettori, di avvelenamento dei pozzi della Democrazia e della Libertà!) possa mirare, in nome del popolo sovrano, a un risultato più nobile e più duraturo del proprio tornaconto personale o politico. Ad esempio la difesa della dignità umana e dei diritti non negoziabili dell’uomo e della donna. Lincoln, il kolossal di Steven Spielberg candidato a 12 Premi Oscar, celebra non soltanto l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti. Quello che in una versione europea da Entaconsulta, avrebbe potuto trasformarsi in un’estenuante fiction Tv su un noioso iter legislativo, diventa con Spielberg (il solo che avrebbe potuto celebrare degnamente l’Unità d’Italia con un kolossal spettacolare!) un racconto pieno di grazia e una preziosa lezione di Storia. E se i pochi che hanno visto il film “Noi credevamo” di Mario Martone, sono rimasti schiacciati dall’inesorabile gravitas ideologica che faceva sembrare quasi inutile il sacrificio dei Patrioti risorgimentali del Nord e del Sud, il Lincoln di Spielberg è universalizzato dalla percezione storicistica di una conquista civile globale incancellabile, coronata oggi dalla presenza (rinnovata nel secondo Mandato) del primo Presidente Obama e della prima First Lady Michelle di colore alla Casa Bianca. “Niente lo sorprende, per questo nulla di lui è sorprendente” – osserva un personaggio di Lincoln parlando di un politico disincantato. Ma il film di Spielberg meraviglia per la capacità di sorprendere. Non a caso il soprannome del Presidente repubblicano unionista abolizionista era proprio “Honest Abe”. Lincoln però evita l’agiografia e la predica restituendo ai personaggi della Storia, la loro misura. La candidatura all’Oscar del direttore della fotografia, Janusz Kaminski, celebrato dal Premio Internazionale per la Fotografia Cinematografica “Gianni Di Venanzo”, per la sua nobile capacità di collocare le luci al posto giusto in ogni inquadratura storica, anche in Lincoln illumina magistralmente tutti i protagonisti, spesso inquadrati in silhouette, esaltandone la complessità. Merito certamente del drammaturgo Tony Kushner, pluripremiato a teatro per “Angels in America” e autore del copione di “Munich” dello stesso Spielberg. Kushner costruisce in Lincoln personaggi pluridimensionali autenticamente interconnessi. La moglie del Presidente è uno dei pochi personaggi femminili davvero articolati del Cinema. I dialoghi fortemente evocativi e ironici consentono a Kushner di esaminare la figura del leader Lincoln spaziando ovunque: dal discorso sulla responsabilità umana alla politica della leadership e di un potere che, in una Repubblica presidenziale come gli Usa, può davvero decidere le sorti di un’intera Nazione fondata da tanti popoli (“E Pluribus Unum”) ed ora unita per sempre. Il che consente un’operazione degna delle mani di un Padre della Patria. Bellissima la riflessione sull’esistenza della tautologia necessaria perchè è giusto ciò che è giusto, e ciò che è giusto va fatto, a maggior ragione se si hanno “i pieni poteri per farlo”. Che promanano dal popolo per il popolo. Il grande Spielberg è il regista perfetto per affrontare la figura di un Presidente leggendario, oggi immortale nel Lincoln Memorial di Washington D.C., e per restituirne la valenza iconica universale senza farne la solita macchietta. Forse la versione estesa speciale del film si interromperà cinque minuti prima delle due ore e mezza totali della prima versione cinematografica, alla scena “gattopardiana” che vede il Lincoln allontanarsi per andare incontro al suo destino fatale. Il suo caratteristico profilo, spalle ricurve e cilindro in testa, è il profilo della Grande Storia che avanza inesorabile verso il futuro. “È possibile ingannare tutti qualche volta ed è possibile ingannare qualcuno sempre. Ma non è possibile ingannare tutti sempre” – disse Abraham Lincoln. Nel 150mo anniversario della Guerra civile americana (1861-65) e dell’Unità d’Italia, auguriamo agli Americani in Italia e nel mondo di fare tesoro della nostra e della loro Storia per onorare la memoria di tutti i caduti. Il 12 aprile 1861 scoppia la Guerra di secessione americana tra gli Stati del Sud e quelli del Nord in un conflitto cruentissimo senza precedenti nel Nuovo e nel Vecchio Mondo, immortalato nelle storiche pellicole cinematografiche italiane:“Il buono, il brutto e il cattivo” e “Una ragione per vivere, una per morire”, rispettivamente dei registi Sergio Leone e Tonino Valerii. Le cause sociali, culturali, economiche e politiche sono più complesse di quanto si creda. La decisione presa nel Novembre 1860 da undici Stati schiavisti (Carolina del Sud, Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Louisiana, Texas, Virginia, Arkansas, Carolina del Nord e Tennessee) di costituirsi in Confederazione autonoma a seguito dell’elezione a Presidente degli Usa di Abraham Lincoln, tuttavia, fu il tentativo di difendere non tanto l’istituzione della schiavitù (della quale l’Europa cristiana era stata maestra nel mondo) quanto i diritti degli Stati a fronte del potere federale centrale. La prima guerra civile americana fu evitata per un soffio già nel 1832 quando l’adozione di leggi doganali protezionistiche a difesa della produzione industriale nazionale, tutta concentrata negli Stati del Nord, era stata contestata dagli Stati del Sud dove l’economia prevalentemente agricola, basata sulla grande proprietà e sul potere dei piantatori, dipendeva dagli scambi con l’estero. Mentre il Nord dei piccoli proprietari terrieri, delle grandi città e degli industriali, non aveva ragioni per mantenere la schiavitù. Anzi, ne aveva per abolirla e così incrementare la forza lavoro nelle fabbriche per la produzione manifatturiera e poi militare. Casus belli immediato del conflitto fu l’espulsione della guarnigione federale (Yankees) da Fort Sumter il 12 Aprile 1861, con una serie di attacchi delle truppe sudiste guidate dal generale Lee (Bull Run, 21 Agosto 1861) che, respinto il tentativo unionista di conquistare Richmond, capitale dei confederati (Giugno-Settembre 1862),
lanciò una vasta offensiva a nord (Dicembre 1862-Maggio 1863). Alla caduta di New Orleans era seguito il blocco delle coste sudiste e l’isolamento economico degli stati confederati (Aprile 1862) le cui difese dovettero cedere (Febbraio-Giugno 1862) agli attacchi vittoriosi del generale Grant. Che con la campagna di Vicksburg (Novembre 1862-Giugno 1863) divise in due il fronte avversario. La nuova offensiva di Lee giunse a minacciare la stessa Washington, ma venne fermata nella sanguinosa battaglia decisiva di Gettysburg (1-3 Luglio 1863). La fase finale del conflitto rese celebre il generale nordista Sherman che occupati Tennessee, Georgia e Carolina (Settembre 1864-Febbraio 1865) aggirò le forze confederate sudiste impegnate sul fronte settentrionale. I sudisti, ormai circondati, tentarono l’inutile difesa di Richmond nella battaglia di Five Forks del 1° Aprile 1865, prima di arrendersi al generale Grant ad Appomattox il 9 Aprile 1865. Se gli Americani oggi, elaborata la loro Storia anche grazie a un kolossal come Lincoln, possono tranquillamente sventolare le bandiere di guerra confederate e unioniste accanto a quella ufficiale istituzionale a stelle e strisce e dei singoli Stati, senza tema di finire in galera, qui in Europa e in Italia le cose vanno diversamente da 150 anni. Ancora oggi, con le feste istituzionali comandate, si stenta a credere che i cittadini facciano non poca fatica a sostenere che l’Unità d’Italia e il nostro Risorgimento furono azione di popolo in tutti gli schieramenti politici e militari protagonisti sul campo con pari dignità. Il 17-20 Marzo 1861 con la resa della fortezza di Civitella del Tronto (Regione Abruzzo) si compiva un fatto storico senza precedenti per la nostra Storia patria. Doveva nascere un’Italia federale e, invece, fu “sanzionata” e proclamata, dal nulla “ipso facto” una Unità politico-amministrativa sardo-piemontese che avrebbe creato non pochi problemi in tutto il Paese. Alcuni libri, discorsi presidenziali ed articoli, proferiti e pubblicati di recente, vengono a lenire almeno in parte quel senso di frustrazione che normalmente affligge i ricercatori della Verità dei fatti. A causa del passato disinteresse della vulgata ufficiale nei confronti della nostra Storia. Chi ricorda il discorso di Giuseppe Ferrari al Parlamento subalpino, il 2 Aprile 1861, sulla questione del Brigantaggio meridionale? Chi erano i Briganti? Perché furono sterminati in circa 9mila, secondo le cifre ufficiali? Perché le opere di Cattaneo sono state dimenticate non solo dalla scuola pubblica ma anche dal Cinema? Duole constatare che l’età dell’oro dei giganti della Storiografia italiana sia ormai soltanto un altro mito. Come per la Guerra civile americana, imperversano opere ed articoli retorici che sembrano piuttosto le conseguenze infauste del politically correct in quanto pretendono di plasmare la Verità della Storia in base alle esigenze politiche del momento, dimenticando o facendo finta di dimenticare che l’intrusione di fini politici significa la morte della Storia come scienza critica e la sua sostituzione con un insieme di favole e di grossolane falsificazioni. Contro le quali dobbiamo, in quanto Italiani in un’Europa secolarizzata, immorale, nichilista ed atea, opporre la sincerità e la giusta Verità della nostra identità storica. Siamo il Paese che conserva e cerca di valorizzare il 70 per cento del patrimonio culturale dell’Umanità. Non possiamo permetterci altre “guerre” civili culturali in nome dell’umanitarismo. Memorizziamo, quindi, con il più vivo e schietto entusiasmo le parole del Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano (www.quirinale.it) e di quanti, storici e giornalisti, hanno degnamente celebrando il 150mo anniversario dell’Unità d’Italia rivolgendo il pensiero a chi sui diversi fronti, benché già Italiani da secoli per religione e cultura, versò il proprio sangue per la Libertà. Tutti, nessuno escluso. È giusto rendere l’onore delle armi e della memoria a quanti si schierarono contro i sardo-piemontesi, contro Garibaldi, contro le camicie rosse, contro i 250mila soldati italiani dispiegati per combattere il brigantaggio, sterminando decine di migliaia di persone. È giusto rendere l’onore delle armi e della memoria a quell’esercito dimenticato del Regno delle Due Sicilie. A quanti, finita la guerra per l’Unità del Regno di Vittorio Emanuele II, chiesero inutilmente ai Savoia, al nuovo Re d’Italia, di essere reintegrati nell’esercito e nell’amministrazione del nuovo Stato, e di ottenere una pensione di guerra. E, invece, furono “deportati” negli Stati Uniti d’America per combattere un’altra guerra civile! Senza tema di smentita o di accusa di revisionismo neoborbonico, è ineludibile che l’Ottocento sia stato il secolo delle nazionalità, come ci ricordano Adolfo Omodeo e Raimondo Luraghi. Formidabili miti apocalittici in grado di liberare, come l’energia di uno tsunami, quell’immensa forza ideale di lotta e sacrificio (Inno di Mameli, il Canto degli Italiani) che guida le masse in battaglia. Ma anche in grado di tradirle quando la sua forza devia dagli obiettivi principali, dalle promesse iniziali e si spegne nella “conservazione” del potere e dei privilegi, nella vuota retorica della politica territoriale al servizio di pochi borghesi. Con le masse ignoranti e disperate incapaci di reagire. Pena il plotone di esecuzione sabaudo, borbonico e italiano. Quello di “nazione” fu uno dei miti più forti creati dalla Rivoluzione francese del 1789, in grado di imprimere ai combattenti rivoluzionari la volontà di distruggere la Tradizione, l’Antico Regime, gli eserciti reazionari d’Europa e d’America, e inermi cittadini. La “nazione” portò al potere la nascente classe borghese e industriale sostenuta dalle masse (ignoranti e contadine nel Vecchio continente) cui la Rivoluzione e i condottieri durante le battaglie e i moti (Garibaldi, i Mille e i Savoia in Italia, celebrati dal Presidente Barack Hussein Obama che ha invitato gli Americani a studiare il nostro Risorgimento; noi invitiamo gli Italiani Europei a studiare la Guerra di secessione americana e la vita di Lincoln) avevano promesso la terra. Le invincibili fanterie ed artiglierie moderne (anche il Giappone imperiale si scatenò contro i clan Samurai) del nascente mercato nazionale e razionale, si alimentavano così grazie a quest’ideale irresistibile e inarrestabile, seminato e diffuso dalle armate napoleoniche in Europa e indirettamente attraverso intellettuali sudisti come Thomas Jefferson negli Usa e in Estremo Oriente. “I diversi Stati, costituenti gli Stati Uniti d’America, non sono riuniti in base al principio dell’illimitata sottomissione al loro governo centrale – scrive di pugno Thomas Jefferson nelle risoluzioni dell’Assemblea legislativa del Kentucky – ma che essi costituirono, in base a un contratto avente la forma ed il nome di Costituzione degli Stati Uniti con relativi emendamenti, un governo generale per fini specifici, delegando a tale governo certi poteri ben definiti, e riservandosi ogni Stato tutti i residui diritti di autogoverno”. Per la pace, la felicità e la prosperità degli Stati Uniti. Gli stati nazionali creati o imposti con il ferro, il fuoco e il sangue (Bismarck) fecero dell’Ottocento il secolo delle rivoluzioni incompiute che preparono la strada alle tre guerre mondiali (due calde e una fredda) del Novecento. Lo storico Raimondo Luraghi evidenzia il fatto che “non vi fu stato nazionale che non sorgesse grazie alla lotta armata, intesa a dare il potere alle classi emergenti nazionali ed a piegare mediante la forza la resistenza” degli oppositori. “Secondo il mito che guidava le varie lotte nazionali si trattava di creare qualcosa di nuovo, mai precedentemente esistito, per lo meno nella forma di stato nazionale”. Ecco allora, con tutti i limiti del caso, un ponte ideale tra la lotta risorgimentale dei patrioti italiani ovunque schierati e la lotta per la “grande Repubblica” di Lincoln (“che della nazione americana fu il Bismarck e il Cavour”) anch’essa “mai veramente esistita prima e forgiata tra il fuoco e il sangue della Guerra civile” e delle Guerre indiane. E che alcuni credono continui tuttora nel mondo attraverso guerre senza soluzione di continuità (Webster Tarpley, “La fabbrica del terrore: origini e obiettivi dell’11 settembre”, 2007, Arianna Editrice). Anche quelle espressamente “umanitarie”. In Asia e in Africa. In America i sudisti replicavano al grande Presidente nordista queste parole:“noi non siamo una nazione, ma un’unione di stati indipendenti e sovrani”. Era il vecchio Sud a parlare. Il nuovo Nord, artefice degli attuali Stati Uniti, rispondeva con Lincoln, Grant, Sherman e la migliore industria bellica della società moderna. Fu il loro “risorgimento” per fare dell’Unione una Repubblica nazionale su base federale. Gli oppositori cercarono, come qui in Italia, di opporre un loro nazionalismo fondato sulla difesa della Tradizione, degli antichi e sacri valori neoclassici che la rivoluzione industriale nazionale avrebbe cercato di distruggere con tutto il volume di fuoco possibile e immaginabile (cf. film “Via col vento” e “Gettysburg”). Ma il nazionalismo borbonico fu solo un pallido tentativo smorzato sul nascere. I Borbone avevano curato assai poco i rapporti con la stampa e l’educazione dei propri sudditi. Il divario con l’America era abissale. D’altra parte le masse ignoranti d’Italia (negli Usa quasi tutti i contadini sapevano leggere e scrivere sopra i venti anni; le invenzioni, i giornali e le rotative si svilupparono all’inverosimile) cosa avrebbero potuto opporre all’invasore? La difesa di un vecchio mondo ormai condannato sarebbe stata mai possibile? Il Sud americano e italiano, così profondamente “lontani” furono soltanto questo? Rinviamo il Lettore ai libri:“La Spada e le Magnolie” e “Storia della Guerra civile americana” di R. Luraghi; e “Italiani nella guerra civile americana (1861-65)” di Emanuele Cassani. Il conflitto americano non fu solo un evento limitato agli Stati Uniti. Fu il primo conflitto moderno per gli armamenti utilizzati, l’entità degli eserciti contrapposti, la mobilitazione generale insieme militare, civile ed economica. A confronto il nostro Risorgimento, ci ricorda Indro Montanelli nella sua Storia d’Italia, “fu impresa modesta e rabberciata ma la più decente da noi compiuta come nazione”. Sui campi di battaglia (cf. Storia della guerra civile americana, di R. Luraghi) del Nuovo Mondo si scatena un fenomeno inaudito e letale: la guerra industriale, culmine supremo della guerra totale. Tutto il peso della potenza economica di un paese-nazione viene mobilitato per schiacciare il nemico. È questa la Guerra civile americana, prologo della Prima Guerra Mondiale per l’uso spietato di letali strumenti bellici (impensabili nelle nostre guerre d’indipendenza) prodotti dalla potenza dell’industria in mano alla borghesia nazionalista. Fenomeno agghiacciante che d’ora in avanti avrebbe macinato milioni di morti. Il soldato diventa così l’artefice e la vittima di quel meccanico processo produttivo di ferro, acciaio, fuoco e battaglia. Oggi, consumismo! Le cose non sembrano affatto cambiate: i missili si producono e devono pur essere lanciati da terra, da cielo, da mare e dallo spazio, verso qualche obiettivo! Si scatenano rivoluzioni e guerre, si destabilizzano governi e regni, per accaparrarsi i combustibili fossili in nome della solidarietà, della libertà, della difesa dei civili e dell’umanitarismo. È la volta del Mali e della Siria. Un giorno dell’Iran. Nell’era nucleare la lezione va appresa in fretta perché i regimi cambiano più velocemente e la globalizzazione mette pericolosamente a rischio le identità e i valori dei popoli. C’è chi ancora oggi sogna ideali di democrazia e libertà forgiati in base alle esigenze politiche, all’interno di quel mostruoso processo produttivo che lega il nostro Risorgimento e quello americano a tutte le guerre combattute nel mondo fino ai nostri giorni. Pensate a cosa accadrebbe se tutti i popoli invocassero il diritto al proprio “risorgimento” manu militari. Altro che Primavera Araba! Centocinquanta anni fa la vita degli italiani e degli americani fu sconvolta per sempre. Edifici costruiti da secoli e radicati nelle coscienze attraverso miti, consuetudini, credenze, tradizioni, ideologie e interessi economici, precipitarono nel pozzo della guerra civile. Altri miti si fecero strada. Dalle macerie e dai fiumi di sangue del Nord e del Sud nacquero un nuovo mondo e nuovi problemi politici ancora irrisolti non solo in Italia e negli Usa (il Presidente Obama credo sia d’accordo sulla necessità e l’urgenza di un’elaborazione razionale della nostra Storia che metta d’amore e d’accordo non solo i Bilanci delle nazioni). L’immane conflitto nord-americano fu infinitamente più cruento delle nostre guerre d’indipendenza risorgimentali. La secessione o guerra civile, come affermò Tocqueville, avrebbe travagliato la società americana per molto tempo. Riflessioni su misura che si sposano perfettamente al caso italiano e ci aiutano a capire meglio che cosa festeggiamo in Italia e negli Usa. Sappiamo tutto sul Risorgimento e sulla Guerra civile americana? Nonostante le profonde differenze tra i due popoli, non si possono tacere le complicate e difficili apparenti analogie. Ogni generazione riscrive daccapo la sua Storia, offrendo al lettore la sua visione e valutazione dei lucidi fatti che mito e leggenda non sono. L’immenso dramma che 150 anni fa ebbe per teatro tutta l’Italia e il Nord America può e deve a buon diritto collocarsi tra i grandi fenomeni che gli studiosi, anche grazie a registi intelligenti come Steven Spielberg, non finiranno mai di esplorare nella miniera inesauribile della verità storica. “Né si deve dimenticare – evidenzia Luraghi – che nessun fatto è storico prescindendo dalla mente che come tale criticamente lo pensa; e poiché inesauribile è il pensiero critico, inesauste sono le prospettive insite in ogni problema: e l’idea che si possa mai giungere ad una storia definitiva di un qualunque fatto è da respingersi come illusoria”. L’avventura dello storico è straordinaria perché rivive attraverso la ricerca sul campo “tutta l’affascinante vicenda in perenne contatto con quegli uomini del passato, ridestati come per magia”. È stato fatto per il Risorgimento italiano? Quella che gli americani chiamano “la storia dietro la storia”, è un’ottima chiave di lettura e di ricerca della verità anche sulla delicata questione dei rapporti tra gli Stati italiani pre-unitari (anche dopo il 17 Marzo 1861) e gli Stati Uniti d’America. Tema non ancora esaminato in gran dettaglio e ben lungi dal ritenersi sviluppato in maniera soddisfacente. La Storia è andata com’è andata e non come sarebbe potuta andare. Non c’interessa la retorica del vano fantasticare. Piuttosto di comprendere quanto è accaduto in Italia e negli Usa. Tsunami d’inchiostro scorrono nelle tipografie senza aver neppure sfiorato l’argomento mentre il chatting elettronico e mediatico sul 150mo Anniversario (ahinoi tutto istituzionale nonostante le coccarde, i fiocchi, le gite presidenziali e il Tricolore su giacche, piazze e balconi) assume proporzioni bibliche se non apocalittiche. Eppure nell’Anno Domini 2011, per Legge dello Stato, in pieno Governo e Maggioranza parlamentare “conservatori”, i politici italiani consapevolmente “esautorarono” la Festa della Vittoria del 4 Novembre 1911, della nostra Quarta Guerra d’Indipendenza che completò l’Unità d’Italia consacrando lo spirito nazionale, in nome della netta polarizzazione delle letture di questa pagina decisiva della biografia d’Italia. Qualcuno ha mai provato a spiegarlo al Milite Ignoto caduto nella Grande Guerra, che evidentemente ancora non era nato il 17 Marzo 1861? L’apologia enfatica dell’accademia ufficiale e la detrazione più radicata delle galassie di elaborazione culturale indipendenti, non sono riuscite a risparmiare agli Italiani la creazione di quest’altro mito. Che se tale non fosse, avrebbe già convinto chi di dovere a consacrare definitivamente il 17 Marzo come la prima Festa nazionale civile di ogni anno (dopo la “prima” 150ma già festeggiata) seguita dal 2 Giugno e dal 4 Novembre. Anch’esse Feste nazionali civili indispensabili per la piena consapevolezza del nostro “essere” italiani in Europa e nel mondo. Perché a pagare le conseguenze di quella polarizzazione sono gli ambiti scientifici e i giovani, anche se a trionfare è certamente l’agone mediatico dove il pedigree accademico scarseggia. Tra i due fronti così diversi per volume di fuoco, incontriamo la verità del fatto storico che certa retorica patriottarda ha già revisionato ad abundantiam. La fitta trama dell’apparato mediatico risorgimentale non si lascia bucare tanto facilmente. Ne è convinto lo storico Oscar Sanguinetti che mette in luce le schermaglie tra l’accademia e i “guerriglieri” culturali indipendenti. Quali sono state le conseguenze del 17 Marzo 1861 sulla storia successiva? Che cosa rimane oggi nella memoria pubblica e privata in cui affonda le radici la nostra convivenza nazionale? È buona norma cercare di capire la prudenza degli storici. La storia è analisi, è anamnesi, non è amnesia. Il 17-20 Marzo 1861 si compie in gran fretta lo sforzo plurisecolare di edificazione di un organismo politico ed amministrativo unitario in Italia, sostituendo istituzionalmente la visione civico-religiosa di nazione (fondata sulla cultura cattolica tradizionale dei popoli della Penisola) con i “semi” laici delle libertà promesse dalla Rivoluzione francese. Che da ideale si era tradotta in res gestae (istituzioni, stati, eserciti, scienza, riforme del diritto, costume) nel ventennio di Napoleone Bonaparte. Il secolo dei risorgimenti nasce in Francia ma i fenomeni popolari di resistenza divampano ovunque in tutto il mondo, tant’è che nel periodo fra il 1792 e il 1814 prendono il nome di insorgenza. L’Italia era già federale da secoli (cf. Petrarca e Cattaneo). La contrapposizione fra l’Italia delle minoranze progressiste, ideologizzate e rivoluzionarie da una parte, e l’Italia del senso comune popolare fondato sulla Religione e la Tradizione dall’altra, fu inevitabile. Idem tra il Paese legale e il Paese reale. Il fatto stesso che ancora oggi dopo 150 anni ne discutiamo, dimostra la mole di lavoro necessaria sul territorio per completare l’Unità nazionale dei cittadini del nord, del centro e del sud Italia, fondata sull’obiettiva volontà di unire interessi, progetti, valori, ideali comuni in un Paese che, in piena decadenza economica e demografica, invecchia troppo in un mondo che cambia altrettanto velocemente e che rischia di fagocitarci. Bisogna cristallizzare le memorie dei nostri Padri della Patria. E bisogna farlo in fretta. Il fatto risorgimentale è più importante del fatto unitario? Pur di attuare il Risorgimento, le forze che lo animarono sarebbero state disponibili anche a soluzioni federali, non unitarie o, al limite, dispotiche pur di spazzare via l’antico regime? Agli Italiani non fu imposta la Repubblica Romana del 1849. Fu imposta una nuova cultura nazionale trasmessa dai sardo-piemontesi grazie all’autorità dello Stato, attraverso una mitografia nazionale e letteraria (cf. i romanzi:“Pinocchio” di Collodi e “Cuore” di De Amicis) che insegnava un nuovo senso comune, nuovi valori in cui credere, nuovi pensieri, nuovi stili di vita anche per il Pater familias (e il Maestro elementare). Il quale avrebbe dovuto rinunciare alla forza lavoro dei suoi figli maschi offrendoli allo Stato per la lunga leva. Eppure, fin dai tempi di Giotto, San Francesco, San Domenico, Santa Caterina, Petrarca e Dante, l’Italia aveva già conosciuto una svolta antropologica senza precedenti in Europa. Cristallizzata nel Rinascimento. Nacque la nuova cultura nazionale italiana forgiata da geni del calibro di Leonardo, Raffaello, Michelangelo e Galileo Galilei, che avevano scosso il pensiero occidentale influenzando Cartesio, la modernità umanistica e razionalistica. Grandi scienziati italiani furono e sono esponenti della Religione e della Chiesa. La cultura laica e individualistica francese enfatizzò con la Rivoluzione del 1789 (altro flop fu la mancata festa del Bicentenario, vissuta a Parigi e testimoniata direttamente dal sottoscritto, poche settimane prima del crollo del muro di Berlino!) la cultura delle libertà come valori assoluti e non come condizioni, allo scopo di annientare l’influsso del Cattolicesimo sulla cultura europea e sugli statuti dei popoli, Italia compresa. Per rimuovere Regni, Tradizioni e ogni altra cultura nazionale pre-unitaria, per ridurre all’emarginazione ed all’insignificanza il fatto religioso e prodigioso del Divino nella vita pratica dei sudditi non ancora cittadini. Nacque così il secolarismo che continua a inquinare fasce sempre più ampie della società e delle culture. Queste sono le basi etiche dell’Unità d’Italia? La smania di novità (“rerum novarum cupido”, la definisce Papa Leone XIII) è cultura della modernità che ha sostenuto, secondo alcuni storici, la decadenza civile dell’Italia fin dal Medioevo, annichilendo il prezioso tesoro classico (costumi, esperienze, pratica religiosa, buon senso e famiglia italiani) accumulato nei secoli da generazioni di Patres, di nostri antenati, colti ed analfabeti ma già Italiani. Tutto fu dilapidato? I più liberi, gaudenti e spregiudicati che sostituirono le vecchie aristocrazie con altre oligarchie, continuarono a spargere veleno e i loro emuli oggi non possono festeggiare nulla se non la parabola del loro fallimento e il prologo di una nuova tragedia internazionale nel Mediterraneo. Il modo di pensare sempre più secolarizzato, naturalistico, darwiniano, cinico, materialistico, moralmente superficiale, ambiguo ed ambizioso del giovane nipote Tancredi Falconieri che magistralmente Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) contrappone nel suo romanzo “Il Gattopardo”, alla mentalità tradizionale del principe Fabrizio Salina, è l’Italia burocratica del 17 Marzo 1861. Alla quale si oppose strenuamente la fedelissima fortezza di Civitella resistendo, non invano, all’invasore. Se solo Steven Spielberg sapesse! Come oggi l’Italia reale dei cittadini (non sudditi) resiste ai venti di guerra di chi nelle segrete stanze di oscure “cancellerie” ha già deciso una nuova catastrofe mondiale in nome dell’umanitarismo. Nell’Ottocento fu la “nuova” Italia sabauda a creare e ad alimentare la Questione Meridionale che porterà alla crisi dello stato liberale, delle dottrine politiche, della scienza e del foro, fino alla morte della Patria nel fascismo. L’Italia laicista e incompiuta che costringerà la Chiesa (espulsa da canoniche, conventi, corti, università, tribunali e società) a clericalizzarsi, ad arroccarsi in autodifesa. Una Chiesa che seppe resistere senza abdicare al suo alto magistero evangelico, non solo tra i ceti più umili, annunciando il Vangelo grazie ai cristiani laici italiani ed alle numerose fraternità francescane e domenicane che difesero la cristianità in mezzo alla tempesta rigida ed aggressiva del laicismo pubblico, la nuova religione civile. La novità assoluta del 17 Marzo è l’affermazione dello Stato moderno, un unico organismo amministrativo e politico italiano che si espande per la prima volta in tutta la società raggiunta dalla conquista. Una società lontana anni luce dal progresso americano di quegli anni. La leva obbligatoria è il primo contatto dei giovani con l’autorità dello Stato che assume il ruolo da protagonista assoluto nella vita degli Italiani. Anche il mondo della scienza apparentemente ci guadagna. Lo Stato non è più solo un contenitore di difesa e regolazione della vita pubblica e privata, ma diventa l’architetto di ogni italiano. Nascono le grandi Società scientifiche alle dirette dipendenze dello Stato. Muta però l’ethos civile. Per la prima volta i cenacoli letterali ed esoterici del Rinascimento, le sette religiose del Seicento e le logge massoniche del Settecento e dell’Ottocento, sono costretti a cedere la missione etica e maieutica all’organo politico supremo, al Re Padre della Patria. Che nella visione idealistica del liberalismo italiano (cf. l’hegeliano teatino Bertrando Spaventa, 1817-1883) diventa il principale artefice del cambiamento sociale, la più potente leva del progetto unitario concepito non dalle masse (altrimenti sarebbe stato federale) ma da minoranze illuminate per instaurare un nuovo ordine sociale secolare, cosmopolitico, ugualitario e plebiscitario quanto basta, a misura di italiano borghese e colto. Il 17-20 Marzo 1861 alla Nazione italiana plurisecolare fondata su ben altre possenti colonne portanti culturali che oggi incredibilmente, senza la comicità di alcuni geni, facciamo fatica a ricordare e valorizzare, fu inferto il colpo ferale per aprire la via non alla vittoria sull’analfabetismo ma allo stato pedagogo fascista ed all’ingresso dell’ideologia internazionalista comunista nella politica italiana. Fu vera gloria quell’indipendenza e quell’unità attuata a prezzo di non poche rinunce, compromessi, sacrifici, problemi, questioni, delazioni, tradimenti e vendette? Quella “Italia dei notabili” fra il 17 Marzo 1861 e il 4 Novembre 1918, oltre a smentire la leggenda rosa risorgimentale, presenta al mondo un Paese diviso su tutto, dove le libertà individuali appartengono a pochi eletti ed elettori (che poi sono sempre gli stessi!) di quel ceto borghese laico e liberale dominato dalla figura del Re. L’Italia del 17 Marzo 1861 è omologata a una morale scettica e relativistica ispirata ai dettami delle massonerie europee. È un Paese-Stato che, sconfitto il Papato, discrimina i preti, i frati e i laici cristiani in ogni ambito della vita sociale. Come ultimi della classe degli stati nazionali, bisognava recuperare il tempo perduto: l’Italia assume subito (grazie a Cavour fin dal 1855) un ruolo attivo ed aggressivo nelle relazioni internazionali. Destra e Sinistra storiche dovranno vedersela con le opposizioni reali al governo del Paese: cattolici, repubblicani e socialisti contesteranno il sistema con ogni mezzo, non solo all’interno del Parlamento nazionale ma come “anti-Stato” alla consorteria laica al vertice del Paese. Il divario tra Nord e Sud Italia cresce ma non degenera in un conflitto stile secessione americana. Per un sacco di buone ragioni. L’inutile strage (Benedetto XV, 1914-1922) della Prima Guerra Mondiale fu per noi italiani l’evento clou dell’Unità nazionale. Fu la nostra Quarta Guerra d’Indipendenza, ben più efficace di tante bande e fanfare propagandistiche di tanti miti risorgimentali, liberali e festaioli della retorica patriottarda. La Grande Guerra per la Vittoria del 4 Novembre 1918 riuscì laddove avevano fallito i politici, amalgamando fra loro i Comuni d’Italia che la storia aveva forgiato come tante Legnano. Nella comune disgrazia, nel medesimo dolore, nel lutto, tra le trincee fangose e putride, tra i gas asfissianti del nemico, sui monti, tra le valli e nei fiumi, tra scariche di mitraglia, nell’assalto all’arma bianca, il 4 Novembre nasce la Nazione Italiana moderna. Un titolo da poter vantare fra le altre potenze mondiali. Quello che la consorteria laica del Re non era riuscita a realizzare pacificamente ma che una certa impietosa casta militare poté soddisfare grazie all’aiuto dell’industria militare. Oggi diciamo giustamente che ne è valsa la pena. I nostri Caduti che onoriamo nel Tricolore sono i nostri Patres dell’Italia unita di oggi. Guai a noi se lo dimentichiamo. Ma che sia di monito a tutti quei popoli che vogliono giustamente conquistare la libertà e la democrazia. Da soli. Noi Italiani non abbiamo mai goduto di una “no fly zone” né di una risoluzione Onu né di un bombardamento preventivo! Non abbiamo mai gioito o sparato fuochi d’artificio dopo aver perso battaglie e guerre! Certo che ne è valsa la pena: l’Unità d’Italia non si tocca, neppure nel contesto euro-mediterraneo. Il suolo patrio è sacro e va difeso da qualunque invasione per mare, per cielo e per terra. Ma l’Unità d’Italia non fu figlia di una risoluzione sovranazionale né di un disegno opaco che avrebbe dovuto magicamente concludersi nella soluzione di problemi ancora oggi aperti dopo 150 anni e stranamente irrisolti. Se quell’Unità del 17 Marzo fosse stata largamente condivisa e partecipata da tutti gli Italiani, avrebbe potuto benissimo condurci per primi sulla Luna e su Marte, molto prima dell’America e dell’ex Unione Sovietica. Ma così non è stato. I romanzi di J. Verne rimangono sulla carta. Dovevamo dedicarci alle guerre coloniali per tenere il passo. L’analfabetismo completò l’opera e impedì a quell’Unità di schiudere orizzonti sconfinati di progresso e opportunità uniche, reali e improcrastinabili per il Paese. Iniziò la fuga dei cervelli verso altri Stati come l’America (il grande Meucci, l’inventore del telefono!) e si aggravarono le condizioni del Sud depredato. Iniziarono le politiche dell’assistenzialismo. I piatti della bilancia costi-benefici di quell’Unità sono l’altro tabù che per decenni ha costretto storici e sociologi alla prudente dottrina del silenzio. Guai a mettere in discussione le scelte fatte e i traguardi conquistati; guai a non parlarne se non in termini entusiastici. Ma se oggi non possiamo ancora disporre in ogni ospedale d’Italia di un dispositivo non invasivo per la prevenzione e cura dei tumori di tutti i cittadini in tempo reale, sappiamo di chi fu la colpa. Di chi ha frenato la scoperta e la ricerca nucleare nel nostro Paese! Così nel 1911, nel 1961 e nel 2011 abbiamo celebrato la retorica. Chi può dire tra 48 anni chi saremo e cosa faremo? Il Bicentenario verso cui navighiamo a vista, è ancora lontano. La “rivoluzione” risorgimentale che alcuni oggi vorrebbero importare in Italia e in Europa direttamente dalle coste Nord Africa, magari in versione arabesca tra palme, cammelli, datteri e dune, si affievolì molto presto all’indomani del 17 Marzo 1861. Certamente i dieci anni successivi furono un capolavoro politico-diplomatico. Non mancarono le annesse stragi di civili, di ex ufficiali borbonici, di contadini e di intellettuali (cf. Il Sangue del Sud, di Giordano Bruno Guerri che rilegge il Risorgimento e il Brigantaggio come la Storia d’Italia). Quella “prima” Unità invece di offrire a tutti gli Italiani un unico scudo istituzionale, per diverse ragioni lascia fuori porzioni non trascurabili di nazione italiana: la Corsica, Nizza, il Ticino svizzero, ampie zone adriatiche e Malta. Fra il 1912 e il 1918 il Regno d’Italia annette vivaci minoranze etniche: albanesi, aostani, greci del Dodecaneso, tedeschi del Tirolo meridionale, slavi dell’Istria e delle città adriatiche. Non si riesce a compensare la grande fuga (emigrazione) dei ceti italiani più umili, che aumentata dal 1876. Un flusso mai visto nella storia d’Italia. Questi nostri Italiani privano il Paese del loro lavoro e del loro genio a favore di altri stati d’Europa e d’America. È l’Italietta giolittiana che segna il passo verso la più grande tragedia della nostra storia (1915-1945), la Guerra civile europea. Dei trent’anni. Le famigerate leggi razziali fasciste. L’Olocausto, la Shoah. A quell’Italietta dobbiamo ancora oggi lo stereotipo dell’Italiano all’estero tutto pizza e mandolino, mistico, libertino, mammone, cuoco, sarto, profumiere e latin lover. Lo Stato unitario fu l’opera dell’intelligente capolavoro strategico e politico di Camillo Benso Conte di Cavour, sotto la pressante emergenza della rivolta meridionale e della Questione Romana. Fra il 1861 e il 1870 furono bruciate tutte le tappe per varare rapidamente un ordinamento territoriale statuale mai esistito prima e destinato a seguire, nel bene e nel male, il futuro del popolo italiano frammentato politicamente (culturalmente e spiritualmente già unito da secoli) e dell’intero continente europeo. Quella felice “fretta”, per alcuni colpa e superficialità, che caratterizza anche il lavoro dei media odierni dimentichi delle conseguenze dell’operazione risorgimentale nel Sud Italia, ci risparmiò lutti e distruzioni ben peggiori. Con la forza della ricchezza, delle baionette e dei cannoni, salì al potere una classe burocratica insensibile al grido di dolore del popolo italiano ed alle Questioni aperte: romana, cattolica, federale, repubblicana, meridionale. Furono demolite d’ufficio le istituzioni pre-esistenti, gli ordinamenti e gli assetti sociali, gli organismi politici e i codici. Stipendi e rendite furono annullati, esautorando e licenziando moltissime persone, razziando le risorse finanziarie e le industrie del Sud. Antiche città capitali della gloriosa storia plurisecolare d’Italia, furono ridotte a capoluoghi di provincia, a luoghi di villeggiatura. Il popolo fu tradito. Il sistema economico unitario creò forti squilibri fra le varie regioni del Paese esposte all’azione delle “lobby” di famiglie e clientele, alla miseria che costringerà milioni di persone all’espatrio. Nel 1861 l’uniforme ordinamento sabaudo porrà fine alle autonomie territoriali e dei sistemi di autogoverno (vero antidoto ai fascismi) con l’accentramento totale dell’amministrazione nella figura del Prefetto napoleonico. Gli espropri dei “beni nazionali”, la soppressione degli ordini religiosi, la riorganizzazione dell’apparato ecclesiastico sul principio di rigida separazione fra Stato e Chiesa, la guerra giacobina contro i cristiani, contro la stessa vita spirituale dei fedeli, contro la pratica religiosa pubblica, terranno lontani dalla vita pubblica e istituzionale un’intera fetta sociale della nascente nazione. Sessant’anni di lotta contro il cristianesimo romano, desteranno dal sonno milioni di italiani e muteranno sensibilmente la poetica risorgimentale e il destino dell’Italia. Scuola e leva obbligatoria diventano i “tabernacoli” civili della nuova religione di Stato, i luoghi dell’uniformazione linguistica, politica e culturale, sotto lo sguardo vigile del Re. Il quadro è quello storico, talmente oggettivo da destare curiosità e meraviglia tra gli americani. Come si sarebbero comportati i Sudisti d’oltreoceano? Garibaldi e i suoi Mille con chi si sarebbero alleati, con i Nordisti o con i Sudisti? Cinquant’anni fa gli americani celebrarono il generalissimo e il primo centenario dell’Unità d’Italia, azzardando una risposta ambigua: con il primo presidente degli Stati Uniti, il massone George Washington. Ma forse la verità non la sapremo mai. Quei “peccati” originali non ci fanno certo rimpiangere gli “ordini” pre-unitari dell’antico regime, ma scatenano naturalmente una serie di interrogativi sulle loro mancate nocive conseguenze che il nuovo regime costituzionale di Vittorio Emanuele II seppe scongiurare. La nostra Storia fu diversa da quella del Nord America. In Italia i Savoia misero in campo capillarmente tutto il loro potenziale liberale, accentratore, d’ordine pubblico e di potere che trova i suoi prestigiosi “simboli” in istituzioni, opere ed eventi altrove sconosciuti: la figura mitica del Carabiniere e del Maestro Elementare; la Terza guerra d’indipendenza del 1866 contro l’Austria; le varie spedizioni coloniali per scimmiottare le capacità belliche e strategiche delle altre potenze; la scuola pubblica nel romanzo “Cuore” e il senso del dovere nel romanzo “Pinocchio”; negli organi di stampa (dove i Borbone avevano fallito) sempre più determinanti per plasmare l’opinione di chi sapeva leggere ed ascoltare; l’Inno di Mameli. Anche il ruolo del clero fu paradossalmente determinante per evitare una guerra civile disastrosa tra Nord e Sud Italia, addolcendo l’amara pillola dei sudditi cattolici. La guerra tra Stato e Chiesa combattuta nelle alte sfere, si smorza non tanto nelle Guarentigie quanto piuttosto grazie all’azione capillare e diretta di preti, frati e laici cristiani tra le masse disperate. Nelle parrocchie, nei santuari, nelle chiese, nelle cappelle e nei conventi d’Italia, ardono e risplendono le nuove fiaccole della civiltà cristiana italiana che oggi celebriamo come Nazione. Gli italiani rinacquero intorno alle figure di santi come il giovane passionista abruzzese san Gabriele dell’Addolorata (Isola del Gran Sasso). La rivoluzione risorgimentale si smorza. Ogni velleità militare, ogni disagio, ogni conflitto trova in questi luoghi sacri la sua valvola di sfogo. Ma non di rassegnazione. La Chiesa locale svolge così la sua funzione educatrice quale fattore di coesione e di equilibrio sociale. Vengono smentiti clamorosamente dalla storia gli anticlericali che accusavano il Papa di sobillare le masse. A conferma del fatto inequivocabile che gli italiani pre-esistevano all’Unità del 1861. Come altrimenti la Chiesa avrebbe potuto ammortizzare lo tsunami militare, politico, sociale e costituzionale del nuovo ordinamento sardo-piemontese? Non solo la Chiesa, ma anche clan e famiglie si adoperarono per spegnere sul nascere qualsiasi tentativo di rivoluzione delle masse contro lo Stato sabaudo, giocando poi un ruolo non secondario all’indomani dell’8 Settembre 1943. Quando lo Stato venne meno al suo dovere e si ritirò improvvisamente abbandonando gli italiani che misero a nudo “il meglio” della costituzione materiale incarnata ben prima del 1861. In America quelle nostre Questioni avrebbero probabilmente fatto saltare l’intero continente, facendo da detonatore a una guerra civile ben più sanguinosa. In Italia, invece, incredibilmente quelle Questioni tennero unita una Nazione durante la tragedia della guerra civile 1943-45, dell’azione partigiana contro l’invasore e dell’indiscriminata guerriglia internazionalista comunista anti-italiana ed anti-nazionale. Queste sono le realtà della storia, fatti che gli Usa non hanno mai conosciuto né prima né dopo (solo nei due film fantastici “Red Dawn”) la loro Guerra civile. In Italia questa trama plurisecolare di istituzioni e culture “associate” – sottolinea lo storico Oscar Sanguinetti – “misconosciute se non schiacciate dall’ordine postunitario”, insieme a questa “assunzione di responsabilità per senso dell’onore e per amore del bene comune”, garantiscono dopo eventi catastrofici “la tenuta e la ripresa dell’organismo nazionale di fronte al disastro” e della sovrastruttura istituzionale, ponendo le basi alla riforma costituzionale repubblicana (cf. discorsi del Presidente Repubblica, dei Presidenti di Camera e Senato, e del Presidente del Consiglio dei Ministri, sul tema del 150mo Anniversario dell’Unità d’Italia). Le antiche e tenaci strutture familistiche e religiose del popolo italiano, fanno la differenza tra l’ordine e il caos: pur contestando politicamente il regime, salveranno sempre lo Stato unitario. Dunque, ne è valsa la pena grazie a Cavour. L’Unità politica, l’unica allora possibile, è stata necessaria e feconda per l’Italia. Come ci ricorda il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, “altrimenti saremmo stati spazzati via dalla storia” e dalle vigorose pressioni secolarizzatrici e omologanti del laicismo. Che oggi minacciano l’Europa sempre meno cristiana. È un fatto storico: l’Unità d’Italia non poteva avvenire diversamente, nel senso che non poteva essere più rinviata per l’ingresso nel concerto degli Stati moderni. Il dato storico è ciò che conta: non ha alcun senso contestarlo se non per attirare attenzione e “audience”, immaginando scenari cinematografici fantastici di realtà alternative (stile “Wild West”, anche se la lotta al brigantaggio trasformò il Meridione d’Italia in un “Far West” ancora sconosciuto al grande cinema!) di uno Stato federale italiano ottocentesco controllato da geniali agenti speciali al servizio del Presidente! La Storia come la Natura non procede per “remake”. Duole riaffermalo con forza, convinzione e determinazione ma bisogna riconoscere che nel XIX Secolo l’Italia non poteva nascere diversamente: senza la conquista militare da parte del “meno italiano” degli Stati; senza imporre il suo Re Padre della Patria e il suo ordinamento istituzionale; senza annientare quel che c’era prima e senza litigare con il Papato e la Chiesa. Ferite oggi rimarginate (cf. discorso del Cardinale Bagnasco). Quel che conta è che l’Italia istituzionale (cornice) nacque il 17 Marzo 1861, tre giorni prima della resa della fortezza borbonica di Civitella del Tronto. Ma la Nazione (il quadro) subì “un processo di alterazione dei suoi paradigmi etici” che “ne ha intaccato profondamente la salute morale e civile”. Quella radiazione ionizzante del 1861 cercò di modificarne il Dna, il nucleo vitale, ma fu il popolo italiano (in patria ed all’estero) a cambiare le istituzioni. Non viceversa. Questa è la nostra ricchezza che nessun altro popolo potrà emulare. Gli Italiani, le masse popolari, non accettarono mai il compromesso al ribasso, mai si piegarono ai principi anti-cristiani e ambigui della modernità, potenzialmente dirompenti e che oggi minano alle fondamenta non solo l’Italia e l’Europa ma il mondo intero. Si possono indossare tanti “abiti” politici e costituzionali, nella divisione dei poteri e nella vita sociale, ma non si può tradire l’Italianità. Politologi e sociologi ne sono convinti. La classe politica li ascolta? La costituzione materiale prevale sempre su quella formale. Anche oggi siamo in piena emergenza democratica e politica: l’inverno demografico e produttivo affligge l’Italia cristiana del terzo millennio. La frammentazione, la devitalizzazione, la senescenza precoce, la perdita d’identità e di cittadinanza attiva, caratterizzano la nuova “agonia” dell’Italia. Ci risiamo. La storia vuole metterci di nuovo alla prova. I politici ignorano i fatti sotto i loro occhi prima e dopo il 150mo anniversario dell’Unità d’Italia, fantasticando su scenari impossibili, tra brindisi, cene e fuochi d’artificio inverosimili, mentre l’universo mondo e la natura sembrano annunciare un tragico: basta! Altro che rivoluzione dei gelsomini! Chissà se si apriranno davvero i nostri occhi sulla realtà vera. Non si possono ignorare queste emergenze internazionali che sono di ordine politico e naturale. Esse sembrano alimentarsi delle sofferenze diffuse e quasi empaticamente sincronizzate, che mettono a rischio non solo il sistema della protezione civile planetaria, ma anche gli ordinamenti democratici. Quante guerre “per la libertà e la democrazia” possiamo sostenere? Quante emergenze naturali alleviare? Quante catastrofi sismiche e nucleari evitare? Siamo liberi? Mai nella sua storia, l’Italia unita e oggi finalmente “federale” si scopre così determinante per i futuri assetti democratici sulla Terra, non solo nel Mediterraneo. Il raggiungimento di un così alto e nobile “magistero” è costato molto sangue fin dall’antichità. Né possiamo e dobbiamo permettere che altrove, magari a pochi chilometri dall’Italia, scoppi la pentola a pressione delle masse disperate d’Africa. L’Unità nazionale si va perfezionando non solo nelle missioni all’estero ma all’interno dell’Unione Europea e del concerto internazionale. Abbiamo il dovere, come Italiani, di “contaminare” le Istituzioni e gli strumenti operativi politici, culturali e militari su base democratica, con questi nostri valori e diritti autenticamente risorgimentali e cristiani. Occorre farlo nella misura in cui sapremo fare dell’Italia il principale attore ed artefice del sogno di Giuseppe Mazzini: gli Stati Uniti d’Europa. Non un mito, ma un progetto politico vero. Non siamo mica fessi. Non siamo schiavi delle “sette sorelle” né di un’Europa burocratica neutra, esotica, ideologica, relativistica e nichilista, predisposta al Gran Califfato islamico! La Nato è un dispositivo di difesa e non di attacco e conquista. L’Onu si assuma le sue responsabilità. L’Italia può oggi impedire la Terza Guerra Mondiale e la fuga di milioni di profughi da tutte le zone del pianeta controllate da regimi non democratici. L’Italia ha il dovere di contrastare con ogni mezzo questi pericoli che in passato, senza quell’Unità, ci avrebbero sommersi.
Eppure sembriamo ancora divisi e vulnerabili. Cristianesimo, romanità, germanesimo, ebraismo, sono le nostre colonne portanti. Anche in Inghilterra e negli Stati Uniti (un po’ meno in Francia) lo hanno capito: il travaglio della (post)modernità è indecifrabile quando la storia si compie. È l’identità nazionale (non il nazionalismo patologico) che salva. Guai a noi se perderemo la nostra identità in nome di ambigue “limitazioni di sovranità” ad uso e consumo affaristico e commerciale. L’identità previene lacerazioni, guerre civili, dittature, ideologie e la fine della civiltà. L’Unità d’Italia del 1861-1918 che festeggiamo a cominciare dal 17 Marzo e dal 4 Novembre di ogni anno, poggia sulle fondamenta solide dell’identità del Popolo italiano, sulla sua storia plurisecolare cristiana ed ebraica. Non sulle sovrastrutture burocratiche, consumistiche e imperiali che non sono democratiche. L’Europa ne sia cosciente e consapevole perché non possiamo, non vogliamo e non dobbiamo abdicare alla nostra natura di Italiani Europei. L’Onu, la Nato e l’Unione Europea, sono strumenti di civiltà e di governo mondiale per la Pace. Non sono dogmi dell’Unanimità né i beni supremi né la panacea di tutti i mali. Sono un mezzo per esaltare i Popoli liberi, le loro identità e culture, per un ordinamento costituzionale mondiale unitario che non può ignorare l’Italia, la sua storia, la sua identità, il suo sacrificio, il suo ordinamento costituzionale e i suoi Caduti per la libertà. Per conseguire il bene comune, nel rispetto dei diritti e dei doveri della Persona, abbiamo rinunciato ai baciamano ed agli inchini di comodo ai dittatori della storia. Questo dimostra, al di sopra di ogni ragionevole dubbio o sospetto, la nostra capacità di discernere gli eventi, di non seguirne più la corrente infausta e, soprattutto, di sapere “risorgere” dalle macerie (sempre) grazie a quelle radici plurisecolari italiane, uniche e vitali. Quale tesoro per l’Onu, la Nato, l’Europa e i Popoli liberi del mondo. I “complessi” dell’Unità 1861 sono stati superati. Ora spetta all’Europa democratica degli Stati Uniti Federali fare altrettanto per liberarsi delle pesanti zavorre imperiali del nichilismo.
Nicola Facciolini
Il Presidente del Senato Schifani Giovedì 17 Gennaio 2013 ha incontrato a Palazzo Madama Steven Spielberg, il regista del kolossal dedicato alla figura del Presidente americano Abraham Lincoln. Al colloquio, immortalato dai fotografi, c’erano anche gli attori protagonisti, Daniel D. Lewis e Sally Field. Al regista americano, Schifani ha suggerito di realizzare un film sulla fame nel mondo. Non sul Risorgimento Italiano. Spielberg aveva in bella mostra sul bavero della giacca la spilla di Cavaliere di Gran Croce, l’Alta Onorificenza conferitagli dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel 2003. La visita in Senato di Spielberg dipende non soltanto dal fatto che il film Lincoln narra la vicende storiche dell’approvazione, grazie al Presidente repubblicano unionista Abraham Lincoln, dell’Emendamento che abrogò la schiavitu’ negli Stati Uniti d’America, e dal fatto che il film è ambientato nelle aule delle Istituzioni Usa. Ma soprattutto dalla grande Amicizia che lega Spielberg all’Italia degli Italiani.