A ciascuno il suo “malfatto”

  Continuano gli scandali nel nostro Paese, tanto per rammentarci con quale creta siamo stati impastati. C’è una nuova indagine per bancarotta e corruzione che ha nel mirino una società già condannata per la truffa delle quote latte e che ora  ha portato la Guardia di Finanza in via Bellerio, la storica sede del Carroccio […]

 

Continuano gli scandali nel nostro Paese, tanto per rammentarci con quale creta siamo stati impastati.

C’è una nuova indagine per bancarotta e corruzione che ha nel mirino una società già condannata per la truffa delle quote latte e che ora  ha portato la Guardia di Finanza in via Bellerio, la storica sede del Carroccio già visitata un anno fa dai carabinieri per l’inchiesta sull’allegro utilizzo dei rimborsi elettorali da parte di Bossi e della Family.

Quando i finanzieri sono arrivati, martedì nel tardo pomeriggio, Maroni, Calderoli e Cota stavano discutendo delle liste del Piemonte per Camera e Senato ed anche se Maroni ostenta sicurezza e dichiara: “La Lega non c’entra niente: caso chiuso”, la Procura di Milano non la pensa così, tanto da aver avviato una indagine con incursione delle Fiamme Gialle anche nella sede leghista di Torino, dove lavora fra gli altri la segretaria Loredana Zola, anche lei interrogata.

L’inchiesta della Procura milanese porta la firma del pm Maurizio Ascione, lo stesso magistrato che prima a Saluzzo e poi a Milano aveva fatto condannare i soci di alcune cooperative di allevatori colpevoli di aver truffato lo Stato grazie al meccanismo delle quote latte. Una di queste cooperative – tutte molto vicine alla Lega Nord – è fallita durante il processo causa un buco di 80 milioni di euro.

Sicché Ascione ha voluto vederci chiaro ed ha aperto un nuovo fascicolo d’inchiesta contestando il reato di bancarotta.

Come ricostruisce Marco Zatterin su La Stampa, la produzione nei 27 Stati dell’Unione europea è definita da una precisa griglia di quote (il primo regolamento è il n° 856 del 1984)). Ogni Paese ha un limite nazionale che ripartisce tra gli allevatori. I singoli tetti vengono negoziati dai governi in sede europea, e non attribuiti autonomamente dalla Commissione o altre istituzioni. Se un Paese confeziona più latte di quanto ha accettato di mungere, deve pagare una multa.

Il che significa che le nostre fattorie e i nostri stabilimenti non possono fatturare liberamente. Però, se non ci fossero state le quote, le latterie della Penisola sarebbero da tempo state popolate da milioni di bottiglie di nettare bianco tedesco, meno costoso (le imprese sono molto più grandi e industrializzate delle nostre) e non necessariamente della stessa qualità. Le quote hanno avuto inoltre titolo di stabilizzare il reddito degli agricoltori. Nel bene e nel male, è stata una garanzia.

Ora, tornando alla inchiesta di Milano, l’ipotesi investigativa è che siano state sborsate mazzette a funzionari e politici in cambio di interventi ministeriali e legislativi per ritardare il pagamento delle multe sulle quote latte dovute alla Ue e vengono tirati in ballo due volti molto noti a Mantova, Giovanni Robusti, ex portavoce dei Cobas ed europarlamentare della Lega, originario di Piadena e nel 1994 eletto senatore nel collegio uninominale di Suzzara (e in precedenza assessore provinciale a Mantova nella giunta di Davide Boni) e quello della commercialista Cristina Maestri, ex assessore lumbard di Viadana (giunta Parazzi). Entrambi, insieme con altri, già  condannati nel luglio del 2011, per la truffa delle coop Savoia, e sulla mancata richiesta di risarcimento da parte della Regione passata in mano al leghista Roberto Cota.

Ora, a un anno e mezzo dalla condanna, potrebbero essere costretti a versare al Piemonte proprio quel maxirisarcimento di 203 milioni(pari al danno che sarebbe stato causato all’ente pubblico) che allora non fu richiesto.

Cota si difende dicendo che la richiesta è stata presentata a dicembre dalla Procura regionale della Corte dei Conti ed è  ora è al vaglio della Corte, con sentenza è attesa entro i prossimi due mesi, come anche la sentenza della Corte di Cassazione cui è stato presentato ricorso dai condannati.

Come ripercorre La Stampa, l’indagine è nata la primavera scorsa dopo il fallimento della cooperativa “La Lombarda”, di cui era titolare Alessio Crippa, chiamato dai suoi colleghi il “Robin Hood” del latte perché, a loro dire, rubava alla ricca Europa per dare ai poveri allevatori lombardi. È stato condannato a 5 anni e mezzo nel 2011 per peculato, per essersi appropriato dei soldi non versati all’Ue sulle `quote latte´, e per aver truffato, assieme ad altri produttori, l’agenzia governativa che si occupa di agricoltura (Agea) per 100 milioni di euro. Ora è indagato per bancarotta in uno dei `filoni´ dell’inchiesta che si è arricchita nel tempo anche del capitolo corruzione, con decine di persone sentite a verbale (atti secretati) tra esponenti del Carroccio – partito da tempo sensibile alla causa degli allevatori anti-Ue – e funzionari ministeriali. Agli atti intercettazioni come quella tra Antonio Vizzaccaro, ex consulente legislativo della Commissione agricoltura della Camera, e Gianluca Paganelli, responsabile di un’altra cooperativa. Con il primo che avrebbe detto al secondo: «il sistema è stato costruito per (…) non versare il prelievo (…) Aspettiamo che esca qualche provvedimento sulle quote latte, che fa decadere anche i vizi pendenti». Un «sistema» che, secondo gli inquirenti, avrebbe coinvolto cooperative lombarde e piemontesi e funzionari pubblici a libro paga che dovevano intervenire con provvedimenti per ritardare il versamento delle multe.

Al centro dell’indagine 350 milioni di euro di sanzioni non pagate (la Ue ha un credito nei confronti dello Stato che si aggira sui quattro miliardi di euro). Nel maggio scorso, il pm aveva ascoltato anche Gianna Gancia, presidente della Provincia di Cuneo e compagna dell’ex ministro Calderoli. Sentiti anche gli ex ministri dell’Agricoltura, Luca Zaia e Giancarlo Galan, oltre a Marco Paolo Mantile, ex vicecomandante del Comando Carabinieri politiche agricole e alimentari, all’ex presidente dell’Agea, Dario Fruscio, e all’ex capo di gabinetto del ministero delle Politiche Agricole, Ambrosio. È possibile che alcuni politici siano stati iscritti nel registro degli indagati, ma al momento non sono state notificate informazioni di garanzia.

In casa Pdl, intanto,l ‘ex sindaco di Parma Pietro Vignali, membro autorevole del partito,  è tra i destinatari di quattro provvedimenti di custodia cautelare agli arresti domiciliari, per peculato ecorruzione, disposti dalla Procura della città emiliana. L’operazione è stata condotta dalla Guardia di finanza e le accuse nei confronti dell’ex sindaco e degli altri arrestati sono peculato e corruzione. Secondo le indagini, si sarebbero appropriati di fondi pubblici del Comune, utilizzandoli per spese elettorali, per effettuare assunzioni pilotate nelle strutture pubbliche e anche distribuendoli a parenti e amici.

Sono venti, oltre ai quattro arrestati, gli indagati della Procura di Parma nell’ambito dell’inchiesta  denominata Public money.

Fra loro ci sono ex dirigenti del Comune e componenti dello staff dell’ex sindaco. E, naturalmente, da destra, si parla di giustizia ad orologeria e provvedimenti atti a orientare in senso sinistrorso, il voto nella tornata di febbraio.

Come scrive sul Milano Post Salvatore Todaro, questi due scandali e la non-concessione del legittimo impedimento sul caso Ruby, ennesimo capitolo del braccio di ferro tra Silvio Berlusconi e la magistratura italiana, hanno fatto rinascere la mia sopita discussione su una presenta “magistratura rossa” che fa politica in altre sedi e con altri mezzi.

A tal proposito vorrei ricordare quanto disse, su MicroMega, ad Antonio Trabucchi,  Francesco Saverio Borrelli, ex ‘capo’ della procura di Milan, nel 2002, a proposto del o  tentativo di restaurare la legalità in Italia e la guerra con cui il ‘partito delle impunità’ cercò e cerca ancora di affossarlo.

Disse Borelli allo scomparso scrittore che, in ogni caso,  la libertà dell’analisi costa fatica e se ho qualcuno che ci obbliga a riflettere con chiarezza, con lucidità sulle cose, siamo costretti d impegnarmi; ma se invece sono guidato per mano, se so già che aprendo quel determinato quotidiano troviamo tutti i titoli e gli articoli che vanno in una certa direzione, questo in fondo crea una facilitazione anche psicologica che ha fatto e fa comodo a molti.

E disse Trabucchi, già 11 anni fa, che la classe politica attuale, opera secondo i parametri dello storico letterario Bachtin,  creando carnescasceleschi contrari in cui è lei a giudicare la magistratura e non il contrario, servendosi, spesso, dei luoghi deputati alla manifestazione carnevalesca, cioè la piazza, che da una parte è quella reale e dall’altra quella di formato più piccolo ma certo più efficace che è lo schermo televisivo.

Ed è vero, se vogliamo davvero riflettere sullo stato delle cose, che vi è un capovolgimento nell’attuale, con la classe politica che vuole entrare nel merito dei processi, sostituirsi ai giudici e addirittura processare la magistratura. Forse in Italia la magistratura non è mai stata particolarmente popolare, forse in nessuna parte del mondo lo è.

In  Italia da decenni, o forse da sempre, si parla di crisi della giustizia, nel senso che il “servizio giustizia” non risponde alla domanda di giustizia che viene dalla collettività. Non risponde perché è lento, non risponde perché certi meccanismi sono obsoleti, non risponde perché a volte si intorcina dentro bizantinismi che la gente non capisce: per tanti motivi.

E’ certo però, che a far allungare incredibilmente i processi sono talvolta proprio coloro che rivolgono alla giustizia le critiche appena ricordate.

Il corpus delle innovazioni che si vogliono portare nel mondo della giustizia è tale da giustificare il più fondato e angoscioso sospetto che si voglia depotenziare la magistratura e in particolare la magistratura penale.
Si parla di separazione delle carriere, poi si tenta di dire: no, non parliamo di separazione delle carriere, parliamo di separazione delle funzioni. E anche qui mi sforzo da tempo di spiegare: ma le funzioni non sono già separate? Perché cosa significa “funzioni”?

La funzione dell’accusa, la funzione della difesa, la funzione del giudizio, la funzione dell’istruttoria, la funzione del giudizio di secondo grado, la funzione di cassazione: queste sono le funzioni, cioè tipologie di attività o di fasi che nel loro insieme ordinato danno vita al processo. Ma, ripeto, le funzioni sono già separate, perché non si è mai visto un pubblico ministero che abbia scritto una sentenza, o un giudice che abbia pronunziato una requisitoria. Chi fa il pubblico ministero fa soltanto il pubblico ministero e non giudica, chi fa il giudice fa soltanto il giudice.

E’ per questo che non ho apprezzato la “salita” (ora si dice così) in politica di Grasso, De Magistris, Ingroia e gli altri, che avrebbero fatto bene a continuare a servire la nazione nei loro specifici ruoli.

Vendo a fatti internazionali, oggi la stampa di destra ci dice che Monti e il suo governo, fornendo appoggio logistico alla Francia, hanno portato l’Italia nella pericolosa guerra del Mali, mentre la vendetta dei terroristi di Al Qaeda ha portato al rapimento di decine di occidentali in Algeria, con due uccisi.

Ma, poche ore fa, proprio mentre la Ue dà il via libera alla missione di addestramento dell’esercito del Mali, il nostro governo a chiarisce i termini del proprio impegno militare al fianco della Francia: “Nessun intervento militare diretto, ma solo un supporto logistico”, spiega il ministro degli Esteri Giulio Terzi, con invio fino a 24 uomini nella missione europea di addestramento delle forze del Mali (EUTM), su un totale finora previsto di 250, “raddoppiabile a 500 se l’esigenza lo richiede”, aggiungendo che: “la decisione è stata oggetto ieri di una discussione in Camera e Senato dove ha ricevuto il convinto sostegno e i voti delle tre forze che hanno sostenuto il governo, condizione essenziale in questo momento sia per la politica interna italiana che per la situazione internazionale”.

Il ministro ha poi spiegato che l’Italia dà: “una valutazione positiva all’azione della comunità internazionale nel suo insieme, sancita dalla risoluzione 2085 del Consiglio di sicurezza e rafforzata dalla dichiarazione unanime del Consiglio di sicurezza, compresi Russia e Cina, che rivolge un appello a tutti per sostenere il governo maliano nell’azione di contrasto alle forze terroristiche”.

E il Giornale tuona che mandiamo i nostri soldati nel caos senza uscita di una trappola africana che non può portare a nessuna buona conclusione, proprio mentre, da oggi, il parlamento italiano dovrebbe iniziare il dibattito sul decreto legge sulle missioni all’estero, che comprende il capitolo del Mali.
Nelle stesse ore il ministro della Difesa, Di Paola,  dovrebbe incontrare il suo collega americano, Panetta, che ha iniziato un viaggio europeo focalizzandosi sulla crisi africana. Gli Usa forniscono ai francesi informazioni di intelligence e supporto agli aerei di Parigi e dalla base siciliana di Sigonella non è escluso che possano partire droni americani, come i Global Hawk, per sorvegliare Maghreb e Mali.

E l’aiuto italiano è considerato da destra inopportuno, non solo perché rischia di diventare un nuovo Afghanistan, ma è collegato all’intervento internazionale a Kabul, con i francesi si sono ritirati, prima del previsto, dal teatro afghano, impegnandosi con gli Usa a combattere la minaccia jihadista a nord dell’Equatore, ma senza nessuna reale motivazione per noi.

Ieri, ricorda sempre Il Giornale, è arrivato a Kabul il generale degli alpini, Giorgio Battisti, che assumerà, dal 22 gennaio, l’incarico di capo di stato maggiore del comando Nato (Isaf) e, forse non solo per coincidenza,  sostituirà il generale francese Olivier de Bavinchove.

Lo scorso anno, abbiamo ritirato 1150 uomini dal Gulistan, Bala Murghab e Bakwa, in maggioranza reparti combattenti e desso mandiamo a Kabul per il posto di numero tre della missione Isaf un generale di grande esperienza assieme a 250 uomini. In gran personale di comando che resterà in Afghanistan per un anno.

Se non proprio un errore, un atteggiamento per lo meno contraddittorio e discutibile.

“A ciascuno il suo”, secondo e ultimo giallo di Sciascia,  avrebbe la sua perfetta chiusura già al penultimo capitolo,  chiusura che risulterebbe consueta al lettore di Sciascia, il quale conosce la natura della sua opera e la particolare concezione di romanzo giallo emersa già compiutamente ne Il giorno della civetta: mentre l’investigatore non sa come venire a capo della situazione e fini galantuomini discutono, intrecciando congetture in un raffinato e desolato bar, il cadavere del professore giace: “Sotto grave mora di rosticci, in una zolfara abbandonata”.

Vero è che, a questo punto della vicenda, non c’è ancora quella certezza sui fatti, che permette al lettore di scorgere la conclusione del romanzo, ma quegli stessi fatti paiono ormai non interessare più, superati dal peso angoscioso del tragico finale.

Il centro del romanzo, che almeno a livello di stile richiama Brancati e Bufalino, sta proprio qui, nell’ambiguità emanata da figure che in esso paiono vivere da sempre e in compagnia delle quali siamo vinti da un desiderio di vana contemplazione e di partecipazione a un’etica bonariamente popolare. La razionalità indagatrice vorrebbe librarsi lontano da questa strana atmosfera e fare luce sull’accaduto, magari attraverso atti più semplici di quel che si pensi, come avviene al protagonista quando, nel tentativo di ottenere i documenti per la patente di guida, si scontra con l’onorevole, incontra il sicario e fa un importante passo verso la verità.

Ma poi, come sempre accade in Italia, tutto si confonde, si stempera, si diluisce in labirinti di inutili parole, perché di inutilità e comodi malefatte ci avvolgiamo, spesso, in Italia e in settore, convinti che ogni verità possa essere, se ci è scomoda, corrotta, addomesticata o negata, ma soprattutto che essa non deve in fondo né indignarci né riguardarci, poiché spesso scomoda e pertanto da rifiutare, come da rifiutare è ogni singolo e sostanziale impegno di maturità o ogni matura azione.

Vi sono eccezioni, naturalmente, ma sono rare. E mi vengono in mente due che più distanti non si potrebbero immaginare, Giorgio Armani e Monsignor Montenegro, uno a Milano, l’altro ad Agrigento, agli  antipodi della geografia nazionale e agli antipodi della vita: lo stilista che cerca di guidare le tendenze della mondanità e il prelato cerca di guidare i moti dello spirito.

All’apparenza niente in comune ma, nella sostanza, artefici di gesti altamente simbolici ed eccezionali.

Quando, tempo fa, cercarono di far capire al principe della moda Armani che in tanti lo avrebbero voluto senatore a vita, lui tagliò corto e disse: “È un ruolo molto impegnativo, non ne sono all’altezza. Ci sono tante persone in Italia che lo meritano più di me. Se davvero ci fosse questa nomina, non potrei accettarla”. Più in grande, il fatto ricorda un episodio simile di qualche prima: un’università in cerca di facile pubblicità assegnò la laurea honoris causa a Fiorello, con il mattatore che, nella nazione dove lo sport più praticato è regalare lauree ruffiane, gentilmente rifiutò dicendo: “So cosa significhi la fatica dello studio. Ho troppo rispetto per i ragazzi che si sacrificano e per le famiglie che li sostengono: se accettassi, me ne vergognerei”.

Ed anche adesso ironizza su se stesso come non laureato in uno spot istituzionale in giro per i nostri televisori, ricordandosi di tanti giovani affaticati dallo studio e privi assolutamente di lavoro.
Poi, dicevo,  c’è l’arcivescovo di Agrigento, che di fronte allo sfascio della sua terra, decide di rompere il pietoso e umiliante rito dei funerali riparatori, nella solennità del duomo tirato a lucido e dice no alle coreografie ipocrite per le due sorelline rimaste sotto le macerie del tugurio crollato, chiedendo solo preghiera e lacrime.

E mentre ancora i vigili del fuoco cercavano, fra le macerie, il prete è in strada a trepidare con i genitori e dopo, durante le esequie, sta in mezzo alla gente di Favara, dove è più giusto stare, perché non gli va di rimettere in piedi il patetico cerimoniale dei moralismi e dei pentimenti postumi, perché è troppa la rabbia per una disgrazia prevedibilissima, da tutti ignorata e che ora si vorrebbe celebrare,  con la pompa magna della ipocrisia.

Carlo Di Stanislao

Una risposta a “A ciascuno il suo “malfatto””

  1. Basta ha detto:

    Bene! E così accusate la Lega Nord di reati che neanche la magistratura le imputa? Sarete querelati anche voi, e pagherete un bel gruzzoletto!

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