Bèh, infine l’ho incontrato. Carmelo Musumeci. Il 5 di dicembre, nella casa Circondariale di Padova. Lì, io per un seminario sull’ergastolo. Lì, lui trasferito da poco più di quattro mesi fa dal carcere di Spoleto, cui la direzione ha permesso di “scendere” fra i “comuni”… insomma fuori dal circuito dell’Alta Sicurezza, per partecipare al seminario sull’ergastolo voluto da “Ristretti orizzonti”. Bèh infine l’ho incontrato e credo che tutti e due abbiamo recitato ognuno la sua bella parte. Di persona-giornalista in visita, io… di quasi padrone- di-casa lui… gentile, cortesissimo, un fiume di parole, mi ha guidata anche in un giro fra i locali del piano terra… e sempre sorridente e molto complimentandoci l’un l’altro. Ma gli occhi… gli occhi che diritto negli occhi mi hanno sempre guardato, vedevo che quasi non guardavano i miei occhi, ma andando oltre me, frugavano, frugavano, scavando, cercando qualcosa che fosse segno, ho pensato, di qualcosa in più che dal mondo di fuori sperava portassi dentro. E chissà quanto ne è rimasto deluso… Ma il tempo è breve e le parole tante, ad intasare i pensieri, entrando, dopo anni, in un carcere.
Al “Due palazzi” . Due palazzi grigi che si stagliano sul cielo azzurrissimo delle giornate d’inverno di gelo senza nubi. Colori rari, qui di questa stagione, mi dicono. Ma varcata la soglia del carcere, l’azzurro rimane alle spalle e tutto il gelo entra con te. Così infine sono entrata in carcere, sia pur dalla porta degli ospiti in visita, sia pure nelle stanze degli incontri e dei seminari, tutte ridipinte di colori chiari, come aule di scuole, divise da ampi corridoi, proprio come quelli della nostra infanzia, mancavano solo le voci dei bambini. E le grandi riproduzioni di quadri, a scandire lo spazio. Ma qui l’eco è tutta un’altra cosa, e il rumore di dentro è quello delle enormi porte di ferro che scorrono su binari, a scandire i passaggi e il tempo dello spazio lasciato fuori, a ricordare che proprio scuola non è, e a ogni porta che si apre e si chiude alle spalle è un piccolo soffio al cuore, mentre con gli occhi istintivamente cerchi ancora la luce, sia pure di là dalle inferriate che ovunque ti volti sezionano l’aria. Mentre altri cancelli si affacciano sui corridoi a sbarrare l’entrata, (o l’uscita ma è la stessa cosa ) da e verso i piani alti, quelli delle celle…
L’incontro questa prima mattina è con il gruppo di detenuti “comuni”, che fanno parte della redazione di Ristretti orizzonti. Quelli dell’Alta Sicurezza, i cattivi cattivissimi, restano ai piani (tranne, dicevo, Carmelo Musumeci che ha ottenuto il permesso di partecipare ai lavori della redazione di Ristretti Orizzonti) . La regola è che ognuno stia nel suo reparto. E non sai neppure come immaginarli, questi reparti. E non vuoi neppure immaginarli. Anche se per vederli, basterebbe guardare negli occhi una delle persone aggrappate alle grate dei cancelli che chiudono il corridoio del piano terra alle scale che portano su… e che salutano Nadia ( Nadia Bizzotto, sì proprio quella che qualche giorno fa ha “tirato le orecchie” a Benigni…) che già altre volte era andata a trovarli… Ma è tutto, dietro quelle cancellate, piuttosto in penombra, e con gli occhi ancora istintivamente cerchi la luce. Mentre il rumore di fuori è l’immagine inquietante di tanti tanti gabbiani. Enormi, i gabbiani… ad affollare, a ridosso delle mura, appena fuori delle grate delle finestre, bordi d’erba dove planano rifuiti, che dalle grate dei piani sopra qualcuno butta giù, a buttar giù la rabbia… e gridano, gridano quei gabbiani… che hanno lasciato il mare… e le onde… e il vento… e che come carcerati volontari consegnano a una prigione il loro tempo.
Ma poi tutto si è sciolto, negli incontri e nei discorsi della mattinata, e le parole, e le riflessioni, e le lezioni… Per la cronaca, di qua dal tavolo Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, Andrea Pugiotto, costituzionalista, Mauro Palma del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura; di là dal tavolo, i detenuti e una piccola folla di giornalisti, venuti per cercare di capire, come parlare del carcere, perché parlare del carcere… Bellissimo, interessantissimo seminario, con tante cose da appuntare… Con le tante cose da mandare a memoria e le tante che, per quanti sforzi faccia, non riesco ad allontanare. E sono le storie che hanno squarciato il fluire ordinato delle parole. Le storie di chi è lì dentro è detenuto… Come quella di Luigi, raccontata senza punti e senza virgole…; come quella di chi si è sentito dire, appena ventenne, nel carcere di Genova, “tu sei il cancro di questo carcere” e ora è qui, con dolore a ricordare; come chi racconta di come ha pur imparato a “pensare prima di agire e a porre e porsi domande… e mi perdoneranno se confondo e non ricordo nomi.
Parole sciolte, dopo chissà quanto tempo. Parole che ancora gridano la loro fatica… e mai dimenticherò di Ulderico, che ha ucciso la moglie. Che racconta la sua vita, che era una vita come quella di tanti, con i momenti belli e i momenti meno belli, i bei ricordi e le difficoltà, e la malattia della moglie e il segreto che per tutelarla in qualche modo si è portato dentro. Segreto troppo pesante forse… e poi la disoccupazione e le liti e quella notte in cui “ ancora mi chiedo cosa è successo”… e il buio di quella notte ritorna nella fatica di quella frase che come un mantra pure ripete e ripete e ci ricorda che sempre dovremmo cercare e svelare le storie degli individui. Non per giustificare, ma per capire, per ricordare che tutti facciamo parte della stessa umanità… e spesso è solo un caso, che siamo di qua o di là di un cancello… Soprattutto perché nessuno cada nell’indistinto, che è cosa violenta, colore della nostra indifferenza. Perché il rischio più grande di chi entra in un carcere è perdere la propria storia, e allora, davvero , tutto è perduto…
Per la cronaca, nella breve pausa per magiare qualcosa, Carmelo, il cattivo-cattivissimo pure accolto al piano di sotto, non ha toccato cibo. “Sono nervoso” ha detto quasi scusandosi.. “non sono abituato, ha detto, a vedere insieme tanta gente”… e ho pensato a quanta paura siamo capaci di fare pure noi buoni a uno cattivo-cattivissimo come lui, che pure ha continuato a svolgere fino alla fine il suo compito di padrone di casa, accompagnandoci tutti, al termine dell’incontro, fino all’ultimo cancello, all’ultimo limite che è consentito a chi appartiene a quest’altro mondo.
Sono tornata, sette giorni dopo, nel carcere di Padova, il Due Palazzi. Questa volta l’incontro era con quelli dell’AS1, i cattivi che più cattivi di così non si può… ergastolani, osativi, … tutti ad affollare una stanza e tutti attenti attentissimi… per questo incontro organizzato per loro. E Alta Sicurezza, circuito AS1, significa quelli talmente cattivi, che molto difficilmente usciranno da queste mura… finché morte non li separi… Anni e anni già passati in prigioni. Che sono vite invecchiate, in celle di solitudine. I loro sguardi…, ecco non riesco a liberarmi di quegli sguardi, delle molte parole di chi era lì a fremere per parlare … “l’ergastolo non esiste?” , “vent’anni in carcere, fa male sentirsi dire: questo continua a …” , “questo non rende giustizia”… “legalità vuol dire anche far morire in carcere?” … cito solo un nome: Giuseppe, 36 anni in carcere, e ne ha 76 anni adesso…
Ma soprattutto, non riesco a liberarmi, dei molti silenzi di chi non ha più parole… E il pianto della figlia di Carmelo ( lì anche lei per questo giorno) … e le lacrime soffocate del padre e forse di tutti noi intorno…
Sguardi, silenzi, parole… e un unico accento, in tutte le sfumature del sud… chissà perché. Forse ha proprio ragione il professor Giuseppe Ferrraro, che anche nelle carceri insegna filosofia : “vorrà anche significare che la ‘questione meridionale’, se ancora esiste, passa anche per la questione meridionale delle carceri”. Queste nostre carceri, dove quest’anno c’è un suicidio ogni 6 giorni, e qui, sussurra qualcuno, qualcuno stanotte se ne è andato… e la parola pronunciata a bassa voce è ancora, forse, suicidio…
Ritorna alla mente il Lamento per il Sud, di Quasimodo. “Nessuno più mi porterà nel Sud… E questa notte carica d’inverno è ancora nostra…” ma qui è solo fredda e tutta loro… A questo penso prima tornare fra quelli che stanno fuori, con il regalo di un libro di poesie e di tante, forti come non ne ricordo, strette di mano.
Che insensatezza… che spreco…
Ancora, uscendo, ci accompagna fuori la voce dei gabbiani …enormi gabbiani… le loro urla … la loro fame…
Ci sono occhi che ancora ho stampati negli occhi, e ancora non mi è facile dormire. Aveva ragione Nadia, che ricordava Don Oreste che diceva sempre: “Chi ha visto non può più far finta di non aver visto” . E aggiunge, lei, “sono sicura che adesso capisci più di prima perché io non posso vivere in pace…” Accidenti se è vero! E adesso, mi confessa, si sente davvero un po’ in colpa per avermi tirato dentro questo inferno, ma solo Dio sa quanto bisogno c’è di aiuto per parlare fuori di queste cose…
Troppo tardi Nadia… quest’inferno non mi farà più dormire, temo… ti telefonerò la notte…
E ora che qui, difesa dalle mura della mia bella casa, pure mi arrivano le grida di gabbiani che hanno perso la via del mare, e ne hanno perso, temo, anche il ricordo… mi tornano martellanti versi…
Il profondo del mare imputridiva:
O Cristo! Questo poi non ci voleva!
Esseri limacciosi, con le zampe,
su marcio mare avanzavano lenti.
E nella notte, tutt’intorno, in ridde
vorticose, fuochi fatui danzavano:
e l’acqua, come l’olio della strega,
rossa, azzurra bolliva e anche bianca.
Ricordate? La ballata del vecchio marinaio… S.T.Coleridge
Chissà da quale mare dell’anima ritorna a galla…
Francesca De Carolis
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