“Nessuna mente umana ha congegnato né alcuna mano mortale ha elaborato queste grandi cose. Esse sono i doni generosi dell’Altissimo Dio, il quale, mentre ci tratta con ira per i nostri peccati, si è nondimeno ricordato della sua misericordia”(Abraham Lincoln, 1863). Lincoln, il kolossal di Steven Spielberg, è un coraggioso manifesto culturale politico universale per la Libertà. L’Unità degli Stati americani (1861-65) fu conquistata a caro prezzo. L’Unità d’Italia avrebbe diluito i costi (in vite umane e mancato sviluppo economico del Mezzogiorno) nei successivi 150 anni. Due mondi, due rivoluzioni per la Libertà. In Abruzzo le cose presero subito una brutta piega farcita di compromessi, illusioni popolari e scariche dei plotoni d’esecuzione “nordisti” contro i patrioti “briganti” sudisti. Nel 1856 morì il vescovo Pasquale Taccone, principe della chiesa aprutina dal 1849. Dopo tre anni di vicariato, tenuto lodevolmente dal canonico Cantarelli (“Storia della Provincia di Teramo dalle origini al 1922”, C. Cappelli, R. Faranda, 1980) gli successe il domenicano Monsignor Michele Milella, barese, dottore “in utroque iure” e professore di filosofia a Perugia. Eletto Priore del Convento di S. Maria sopra Minerva in Roma (vicina al Pantheon ed all’attuale Parlamento) dove aveva vestito l’abito del suo Ordine (dei Padri Predicatori di San Domenico da Guzman), egli aveva provveduto ai restauri di quella chiesa, divenendo più tardi Prefetto della Biblioteca Casanatense e professore nell’Università. Preconizzato da Pio IX vescovo di Teramo, entrò quattro mesi dopo, il 31 Ottobre 1859, nella sua diocesi e vi rimase per un trentennio, salvo che nel periodo 1861-1866. Nelle ore cruciali della Guerra di Secessione americana e della “sbornia” laicista sardo-piemontese i cui tragici effetti molti ancora oggi ignorano. La nobilissima e fedelissima fortezza di Civitella del Tronto, che mai alcun regista italiano europeo ha osato immortalare in una pellicola cinematografica degna del genio e della grazia di Steven Spielberg, si arrese il 21 Marzo 1861, alla vigilia della tragedia americana. Sindaco Vincenzo Irelli, successo nel mese di Luglio a Serafino Cerulli, il plebiscito del 21 Ottobre, che proponeva o il ritorno dei Borbone sul trono o l’annessione al regno d’Italia, si concluse, per la provincia aprutina con 15.113 “SI” e con soli 165 “NO” a favore del regno d’Italia. La città di Teramo rispose con 3.600 votanti su 4.000 iscritti e un solo voto a favore dei Borbone (www.realcasadiborbone.it/). Il 18 Febbraio una legge votata dal primo Parlamento italiano attribuì a Vittorio Emanuele II il titolo di Re d’Italia. Ma gli entusiasmi giovanili del primo momento furono immediatamente seguiti da gravissime difficoltà, dovute alle condizioni di miseria e di ignoranza degli abitanti della regione Abruzzo. Una terra sfruttata per secoli, alla mercé dei potenti di turno, sospettosa, forte e gentile ma, specialmente nelle campagne, legata alle tradizioni borboniche. Oggi diremmo, al credo popolare e semplice delle cose Hobbit che crescono. Il 2 Dicembre 1860 i contadini di Penne si rivoltarono per questioni granarie ed espulsero dalla città il Sottointendente Domenico De Blasiis. Non fu certo l’unico episodio di protesta, taciuto nelle celebrazioni ufficiali del 150mo anniversario dell’Unità d’Italia, le cui radici affondano nella povertà pressoché generale dei sudditi italiani del Nord e del Sud d’Abruzzo, nella reazione sobillata dai Borbone e soprattutto dalla diffidenza accumulatasi nei secoli contro ogni nuovo “padrone”, rivelatosi sempre peggiore del precedente. È cambiato qualcosa dopo 150 anni? Tema impegnativo e doloroso fu quello rappresentato dal fenomeno del “brigantaggio”, l’insurrezione dei patrioti sudisti italiani. Fu una strage. Fu la nostra prima guerra civile dei tempi moderni. Fu la nostra prima “secessione”, certamente non all’Americana. La nobiltà gravitante sulla Corte borbonica, i contadini ignoranti diffidenti, gli sbandati militari borbonici e la real Corte, misero in atto ogni possibile tentativo (disperato) per far tornare le cose allo stato legittimo e precedente. I nobili per ovvi motivi di tradizione, casta e privilegi. I contadini perché rimasti economicamente come o peggio di prima, costretti a pagare le tasse, contrariamente alle promesse “nordiste” ed alle loro attese. I loro giovani figli sarebbero stati chiamati alla leva obbligatoria, costretti a lasciare le campagne per un “impegno” di cui non avrebbero voluto saperne. I soldati e gli ufficiali borbonici sopravvissuti perché incapaci di fare altro che non fosse il mestiere delle armi. Rastrellati ed arrestati ma non accetti all’esercito sardo-piemontese ora italiano, i cui effettivi trattavano con disprezzo i meridionali e davano loro dei “vili” e dei “ladroni”. Sentimenti non dissimili negli States nei confronti dei Confederati. D’altro canto, Francesco II e la sua Corte, ospiti del Papa a Roma, nel Palazzo Farnese, non erano assolutamente disposti a rinunciare al trono di Napoli. Il Minghetti, il “barone di ferro”, non poteva certo tollerare la cosa e gli fu giocoforza facile schierare la controguerriglia, messa in atto dalla Guardia Nazionale, dai Carabinieri e dall’Esercito regolare italiano. La partita, o meglio la guerra fratricida, fu giocata all’ultimo sangue e durò, come la Guerra di Secessione americana, fino al 1865. Ufficialmente. Fu cioè contemporanea alla guerra scatenata il 12 Aprile 1861 dai Sudisti confederati contro i Nordisti unionisti, a Charleston, nella Carolina del Sud, con il bombardamento di Forte Sumter. Tutto è connesso. Episodi di crudeltà si verificarono di frequente in un campo e nell’altro e costituirono anch’essi il contributo prezioso da versare per l’Unità d’Italia e degli Stati Uniti d’America. L’obiettività scientifica intellettuale, storica, culturale e cinematografica del 150mo anniversario della nostra unità nazionale, è certamente venuta meno. I fatti lo dimostrano, con le dovute eccezioni che coraggiosamente hanno riaffermato la forte e determinata volontà di non far passare sotto silenzio la Storia vera. Quella non insegnata nelle scuole e nelle università di ogni ordine e grado. Quei cosiddetti “briganti”, da un certo punto di vista sociale e istituzionale, furono e sono i Patrioti del legittimo Re di Napoli. È altrettanto assurda, d’altro canto, la tesi, più volte invocata, della connivenza con i “briganti” di una parte del clero che pur aveva seguito con simpatia e spesso fiancheggiato i movimenti liberali, mazziniani e unitari dal 1814 in poi. Gli ecclesiastici prestano soccorso a tutti, indistintamente. Tra coloro che erano stati vittime della galere borboniche e il clero, certamente non poteva correre buon sangue e non rari furono – come evidenziano il Palma, il Cappelli e il Faranda – i casi di violenze e di manifestazioni clamorose di empietà civile e religiosa. Anche negli States. Gli studi del domenicano padre Benedetto Carderi, aiutano a comprendere il significativo caso del vescovo Milella. Il 16 Marzo 1861 scrive l’Harper’s Weekly, il Journal of Civilization, il settimanale di New York (Vol. V, N. 220), citando il Moniteur e il Giornale di Roma, dopo aver celebrato la prima Inauguration presidenziale di Abraham Lincoln che aveva giurato il 4 Marzo sulle fondamenta del Campidoglio in costruzione a Washington: “The King and Queen of Naples arrived at Rome on the 14th. Their Majesties alighted at the Quirinal, where his Highness Pope Pius IX paid them a visit on the 15th. It appears that the bombardment of the 11th and 12th was of extreme violence, rendering the rifled cannon useless. From the demand to surrender to the moment the capitulation was signed, the Piedmontese threw 50,000 shells into the fortress. The king passed the Neapolitan troops in review before leaving, who wept on presenting arms to him. An immense crowd was assembled, and the population shed tears. Royal honors were paid to Francis II as he embarked. As the vessel left, a salute of 21 guns was fired, and the flags were lowered, while the garrison shouted “Long live the King!” though in presence of the Piedmontese, already in possession”. L’Harper’s Weekly descrive poi la “sensation at Rome”. E cioè: “in Rome the fall of Gaeta has caused immense excitement. The people are greatly agitated, and the national movement increases in strength. On Thursday last a strong popular demonstration took place, the crowd shouted “Victor Emanuel and the unity of Italy forever!” and even some priests joined in the cheering. The French general offered no opposition to these proceedings, but the crowd finally dispersed at the request of some French patrols. It is thought the Papal government will be unable to resist the movement. The Giornale di Roma denies that there has been any arrangement between the Holy See and Piedmont. The departure of Mgr. Sacconi, Papal Nuncio to the Court of the Tuileries, is postponed. The position of his Holyness becomes daily more isolated”. Secondo il Faranda e il Cappelli, il vescovo Milella, pur avendo fatto celebrare nella cattedrale di Teramo il Te Deum per l’ingresso di Garibaldi a Napoli, la notte tra il 24 e il 25 Agosto fu tratto in arresto a Giulianova dal Tripoti, “senza tanti complimenti”, ed accompagnato in vettura a Napoli. Dove gli furono proposte tre sedi per il suo esilio. Milella scelse Genova dove trascorse alcuni anni, confinato nel Convento di S. Maria di Castello, in clausura. La ragione dell’arresto del vescovo di Teramo “era stata che in Giulianova egli aveva ricevuto parecchi ecclesiastici, noti per simpatie borboniche, quali il domenicano frate Tommaso Tinti ascolano e il conventuale frate Leonardo Zilli. Si aggiungevano vaghe accuse, per la verità mai provate, di condotta di vita immorale e, principalmente, l’aver egli come confidenti i canonici Spinozzi, Forcina, Savini e Cimini, notoriamente legati all’antico regime”. I più agguerriti mangiapreti gioirono. “In sua assenza e su designazione sua, nel Luglio 1864 era stato eletto arcidiacono, in sostituzione del defunto can. Giuseppe Piercecchi, il can. teologo Luigi Michitelli, in fama di liberale e gradito ai mangiapreti. La circolare del Ricasoli (22 Ottobre 1866) dispose il rientro in sede dei prelati esuli, ad esclusione di quelli che si erano rifugiati a Roma”. Così il Milella rientrò a Teramo dove “a parziale compenso del torto subito, fu proposto per la nomina a commendatore, ma non se ne fece poi nulla. In seguito egli fu a Roma per il Concilio Vaticano del 1869 e quindi nel 1878 per l’incoronazione di Papa Leone XIII”. Mentre gli Americani si ammazzavano nella loro guerra civile, la provincia aprutina fu coinvolta nel triste fenomeno della cruenta repressione nordista del “brigantaggio” sudista (G. De Caesaris, Pagine di storia abruzzese. Il brigantaggio (1860-1868), Teramo 1935, IX-XII). Non mancarono episodi notevoli nei paesi di montagna. Durante l’assedio della fortezza di Civitella “i gendarmi borbonici si unirono ai briganti per compiere una sanguinosa razzia in Campli né molto valse l’intervento della Guardia Nazionale al comando di Trojano Delfico: anzi gli assedianti dei generali Pinelli e Mezzacapo furono minacciati alle spalle dai contadini di quei luoghi”. Nei primi mesi del 1861 “dallo Stato pontificio passavano a frotte, incoraggiate da quel governo e finanziate dai Borbone, intere bande che taglieggiavano e terrorizzavano il Chietino, l’Aquilano e il Teramano, sulle cui colline, nell’agosto, il comandante dei Cacciatori, Antonio Tripoti, riuscì a catturare e a mandare al patibolo alcune centinaia di malfattori, mentre nel territorio di Penne il De Caesaris arrestava nove banditi e li faceva fucilare”. Che la guerra anche in Italia fosse per davvero “civile” (tutti contro tutti) lo provano i fatti. “Appoggiato dalla Curia, imperversava nella zona lo Stramengo che aveva la sua base nei pressi di Civitella. A Colledara facevano irruzione i banditi, costringendo l’abate Romani a rifugiarsi in Montorio”. A reprimere questo ed altri tentativi insurrezionali furono impiegati gli effettivi del 40mo e del 43mo Reggimento. È del 1863 l’assalto al “forte” di Fano Adriano, “portato dallo Stramengo con 100 suoi compagni, mentre nello stesso anno, ad ingrossare le file dei rivoltosi, riuscivano ad evadere dalle carceri di Teramo ben 55 detenuti, seguiti nel 1864, da altri 23”. Con la Convenzione di Cassino del 24 Febbraio 1865, “stipulata tra Stato e Pontefice, che disponeva la reciproca estradizione dei briganti, il fenomeno triste e vergognoso del brigantaggio si indebolì definitivamente”. Uccisi o dispersi o deportati negli States, i “patrioti” sudisti italiani furono sconfitti. Quei pochi “capimassa” italiani e stranieri sopravvissuti, furono costretti alla resa. Nel 1868 rimanevano piccoli gruppi piuttosto dispersi, come quello di Antonio Angelini da Valle Castellana e l’altro di Giovanni Antonio Palombieri da Alvi, “ambedue in quell’anno messi a tacere per sempre”. Nel Giugno 1862 il Generale Garibaldi avrebbe mosso per la sua seconda “risalita” della penisola, come meta Roma, ma, come sappiamo, venne fermato sull’Aspromonte dalle truppe italiane. La Questione Romana si sarebbe risolta nel 1870. “Bisogna agire!”. Gli Americani e gli analisti politici l’hanno capita la “morale” dell’Address inaugurale del Presidente Barack Hussein Obama. “Giuro solennemente che adempirò fedelmente all’incarico di Presidente degli Stati Uniti, e preserverò, proteggerò e difenderò, al meglio della mia capacità, la Costituzione degli Stati Uniti”. Nel pronunciare il giuramento, amministrato dal Chief Justice John G. Roberts jr, il Presidente Obama ha manifestato l’apparente forte e determinata volontà di governare gli Americani e il Mondo libero sui valori che furono di Abraham Lincoln. Il Giuramento sulla Bibbia appartenuta a Lincoln e l’Address (“We the People of the United States…”:www.whitehouse.gov) del Presidente Obama per l’Inauguration Day del suo secondo mandato alla Casa Bianca, il 21 Gennaio 2013, contengono tuttavia una serie di sostanziali contraddizioni valoriali sotto gli occhi di tutti. Perché Lincoln fu il primo Presidente repubblicano conservatore innovatore riformista unionista a difendere, in nome del Popolo e di Dio, la Libertà, l’Unione degli Stati Americani continentali, la Famiglia fondata sul Matrimonio di un uomo e di una donna, i diritti civili di eguaglianza alla nascita di ogni persona, la Proprietà, l’Impresa, la Patria. Durante la guerra civile (1861-65) il Presidente Abraham Lincoln (il kolossal di Steven Spielberg, per la fotografia di Janusz Kaminski, è nelle sale italiane dal 24 Gennaio 2013) proclamò la Giornata Nazionale del Ringraziamento e di lode religiosa. Lincoln, eletto il 6 Novembre 1860 e insediatosi il 4 Marzo 1861, fu il primo repubblicano a conquistare la carica presidenziale americana ed a battersi strenuamente per l’Unione degli States. “L’anno che si avvia alla fine – dichiarò il Presidente Lincoln nella National Thanksgiving Proclamation del 1863 – è stato ricolmo della benedizione di campi fruttuosi e di cieli salubri. A queste munificenze, di cui godiamo così costantemente da essere portati a dimenticare la loro fonte, se ne sono aggiunte altre di natura così straordinaria da non poter che penetrare e addolcire anche i cuori abitualmente insensibili alla Provvidenza sempre vigile di Dio Onnipotente. In mezzo a una Guerra civile di ineguagliata portata e severità, che talvolta è sembrato invitare e provocare l’aggressione degli Stati stranieri, è stata preservata la pace con tutte le nazioni, è stato mantenuto l’ordine, sono state rispettate e obbedite le leggi ed è prevalsa l’armonia ovunque tranne che nel teatro del conflitto militare; mentre quel teatro si è grandemente ristretto con l’avanzare degli eserciti e delle marine dell’Unione. La necessaria deviazione della ricchezza e delle forze dai campi dell’industria pacifica alla difesa nazionale non hanno arrestato l’aratro, le navette o le navi; l’ascia ha allargato i confini dei nostri insediamenti e le miniere, di ferro come di carbone e dei metalli preziosi, hanno prodotto ancora più abbondantemente di prima. La popolazione è aumentata costantemente, nonostante le spoliazioni sul campo, l’assedio e il campo di battaglia; e al Paese, che gioisce nella consapevolezza di un aumento di forza e vigore, è permesso aspettarsi che continuino gli anni di grande aumento della libertà. Nessuna mente umana ha congegnato né alcuna mano mortale ha elaborato queste grandi cose. Esse sono i doni generosi dell’Altissimo Dio, il quale, mentre ci tratta con ira per i nostri peccati, si è nondimeno ricordato della sua misericordia. Mi è sembrato giusto e appropriato che essi fossero riconosciuti con solennità, riverenza e gratitudine, con un sol cuore e una sola voce, dall’intero Popolo americano. Invito pertanto i miei concittadini in ogni parte degli Stati Uniti, e anche coloro che si trovano in mare e che soggiornano in terre straniere, di designare e osservare l’ultimo giovedì di novembre prossimo, come giornata di ringraziamento e Lode al nostro Padre benefico che abita i Cieli”. Nessuno dei presidenti in carica negli Usa dai tempi di Lincoln ha più omesso di emettere il Proclama annuale di Ringraziamento. Barack Obama ha giurato sulla voluminosa Bibbia di Lincoln su cui giurò già nel Gennaio 2009. Ma anche su un libricino piccolo che era la Bibbia da viaggio di Martin Luther King usata nei suoi primi viaggi come predicatore. È stata la First Lady Michelle a tenere i due volumi su cui il Presidente Obama ha appoggiato la mano sinistra sollevando la destra per giurare. La Bibbia di Lincoln era stata acquistata espressamente per la cerimonia di giuramento del 4 Marzo 1861. Nel suo “Address” (Discorso Presidenziale di Inaugurazione) dopo il giuramento, il Presidente Obama ha ricordato che i Patrioti americani del 1776 “non combatterono per rimpiazzare la tirannia di un re, o i privilegi di pochi senza regole. Ci consegnarono una Repubblica, un governo, del popolo, che viene dal popolo e agisce per il popolo”. Questa ultimo pensiero riprende chiaramente il celebre passaggio del famoso “Gettysburg Address”, uno dei discorsi più conosciuti del Presidente repubblicano unionista Lincoln che abolì la schiavitù, pronunciato il 19 Novembre 1863, mentre infuriava ancora la guerra civile. “Oggi continuiamo un viaggio che non avrà mai fine – dichiara oggi Obama – la storia ci dice che la Libertà ci viene da Dio, ma che tocca agli uomini sulla terra difenderla e metterla al sicuro. Ciò che unisce la nostra Nazione non è il colore della nostra pelle o l’origine dei nostri nomi, ma che tutti gli uomini sono creati uguali ed hanno diritti inalienabili. La prosperità della nostra Nazione si deve fondare sul lavoro di una classe media forte. Gli Stati Uniti hanno obblighi verso il resto del mondo e sosterranno sempre la democrazia, dall’Asia, all’Africa, dalle Americhe al Medio Oriente. Sosterranno i diritti delle persone più umili, la libertà. Fratelli e sorelle gay devono avere gli stessi diritti. Un decennio di guerra sta terminando. La ripresa economica è iniziata. È il nostro momento e sapremo sfruttarlo, a patto che lo sfrutteremo insieme. Non possiamo fare errori di principio, non possiamo fare dibattiti senza fine. Dobbiamo agire e andare avanti sul percorso di una reale ricerca della felicità. Anche se sappiamo che le nostre decisioni sono spesso imperfette. Noi crediamo che la prosperità dell’America deve essere fondata su una classe media che prospera. Ma il nostro Paese non può avere successo quando un gruppo sempre più ristretto sta molto bene ed un gruppo sempre maggiore ce la fa a stento. Perché noi sappiamo che l’America cresce quando ogni persona può trovare indipendenza ed orgoglio nel proprio lavoro. Dobbiamo fare le scelte difficili per ridurre i costi della sanità e la dimensione del nostro deficit. Rifiutiamo però l’idea che si debba scegliere tra prendersi cura della generazione che ha costruito il Paese e gli investimenti per la generazione che costruirà il futuro”, ha detto il Presidente Obama, sottolineando che “alcuni programmi sono inadeguati, per questo bisogna portare nuove idee e tecnologie per ridare slancio al Governo, al codice fiscale, per la riforma della scuola e dare possibilità ai cittadini che hanno capacità di lavorare, imparare e arrivare più in alto”. Ogni frase di Obama è stata intercalata da uno squillante “We the People of United States” che ha fatto sicuramente breccia nei cuori degli Americani. Un esempio, a parte le contraddizioni valoriali con Lincoln, per i politici italiani europei che non parlano mai di “Noi il Popolo…” e non ringraziano mai Dio. Sempre autoreferenziali nella difesa dei loro interessi particolari di bottega che offendono Dio, la persona, la famiglia, la proprietà, la libertà, il lavoro, l’impresa. I “peccati originali” politici e culturali che ereditiamo dal nostro Risorgimento incompiuto, violato e sepolto sotto una spessa coltre di polveri ideologiche. La fitta trama dell’apparato mediatico risorgimentale non si lascia bucare tanto facilmente. Ne è convinto lo storico Oscar Sanguinetti che mette in luce le schermaglie tra l’accademia e i “guerriglieri” culturali indipendenti. Quali sono state le conseguenze del 17 Marzo 1861 sulla storia successiva? Che cosa rimane oggi nella memoria pubblica e privata in cui affonda le radici la nostra convivenza nazionale? È buona norma cercare di capire la prudenza degli storici. La storia è analisi, è anamnesi, non è amnesia. Il 17-20 Marzo 1861 si compie in gran fretta lo sforzo plurisecolare di edificazione di un organismo politico ed amministrativo unitario in Italia, sostituendo istituzionalmente la visione civico-religiosa di nazione (fondata sulla cultura cattolica tradizionale dei popoli della Penisola) con i “semi” laici delle libertà promesse dalla Rivoluzione francese. Che da ideale si era tradotta in res gestae (istituzioni, stati, eserciti, scienza, riforme del diritto, costume) nel ventennio di Napoleone Bonaparte. Il secolo dei risorgimenti nasce in Francia ma i fenomeni popolari di resistenza divampano ovunque in tutto il mondo, tant’è che nel periodo fra il 1792 e il 1814 prendono il nome di insorgenza. L’Italia era già federale da secoli (cf. Petrarca e Cattaneo). La contrapposizione fra l’Italia delle minoranze progressiste, ideologizzate e rivoluzionarie da una parte, e l’Italia del senso comune popolare fondato sulla Religione e la Tradizione dall’altra, fu inevitabile. Idem tra il Paese legale e il Paese reale. Il fatto stesso che ancora oggi dopo 150 anni ne discutiamo, dimostra la mole di lavoro necessaria sul territorio per completare l’Unità nazionale dei cittadini del nord, del centro e del sud Italia, fondata sull’obiettiva volontà di unire interessi, progetti, valori, ideali comuni in un Paese che, in piena decadenza economica e demografica, invecchia troppo in un mondo che cambia altrettanto velocemente e che rischia di fagocitarci. Bisogna cristallizzare le memorie dei nostri Padri della Patria. E bisogna farlo in fretta. Il fatto risorgimentale è più importante del fatto unitario? Pur di attuare il Risorgimento, le forze che lo animarono sarebbero state disponibili anche a soluzioni federali, non unitarie o, al limite, dispotiche pur di spazzare via l’antico regime? Agli Italiani non fu imposta la Repubblica Romana del 1849. Fu imposta una nuova cultura nazionale trasmessa dai sardo-piemontesi grazie all’autorità dello Stato, attraverso una mitografia nazionale e letteraria (cf. i romanzi:“Pinocchio” di Collodi e “Cuore” di De Amicis) che insegnava un nuovo senso comune, nuovi valori in cui credere, nuovi pensieri, nuovi stili di vita anche per il Pater familias (e il Maestro elementare). Il quale avrebbe dovuto rinunciare alla forza lavoro dei suoi figli maschi offrendoli allo Stato per la lunga leva. Eppure, fin dai tempi di Giotto, San Francesco, San Domenico, Santa Caterina, Petrarca e Dante, l’Italia aveva già conosciuto una svolta antropologica senza precedenti in Europa. Cristallizzata nel Rinascimento. Nacque la nuova cultura nazionale italiana forgiata da geni del calibro di Leonardo, Raffaello, Michelangelo e Galileo Galilei, che avevano scosso il pensiero occidentale influenzando Cartesio, la modernità umanistica e razionalistica. Grandi scienziati italiani furono e sono esponenti della Religione e della Chiesa. La cultura laica e individualistica francese enfatizzò con la Rivoluzione del 1789 (altro flop fu la mancata festa del Bicentenario, vissuta a Parigi e testimoniata direttamente dal sottoscritto, poche settimane prima del crollo del muro di Berlino!) la cultura delle libertà come valori assoluti e non come condizioni, allo scopo di annientare l’influsso del Cattolicesimo sulla cultura europea e sugli statuti dei popoli, Italia compresa. Per rimuovere Regni, Tradizioni e ogni altra cultura nazionale pre-unitaria, per ridurre all’emarginazione ed all’insignificanza il fatto religioso e prodigioso del Divino nella vita pratica dei sudditi non ancora cittadini. Nacque così il secolarismo che continua a inquinare fasce sempre più ampie della società e delle culture. Queste sono le basi etiche dell’Unità d’Italia? La smania di novità (“rerum novarum cupido”, la definisce Papa Leone XIII) è cultura della modernità che ha sostenuto, secondo alcuni storici, la decadenza civile dell’Italia fin dal Medioevo, annichilendo il prezioso tesoro classico (costumi, esperienze, pratica religiosa, buon senso e famiglia italiani) accumulato nei secoli da generazioni di Patres, di nostri antenati, colti ed analfabeti ma già Italiani. Tutto fu dilapidato? I più liberi, gaudenti e spregiudicati che sostituirono le vecchie aristocrazie con altre oligarchie, continuarono a spargere veleno e i loro emuli oggi non possono festeggiare nulla se non la parabola del loro fallimento e il prologo di una nuova tragedia internazionale nel Mediterraneo. Il modo di pensare sempre più secolarizzato, naturalistico, darwiniano, cinico, materialistico, moralmente superficiale, ambiguo ed ambizioso del giovane nipote Tancredi Falconieri che magistralmente Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) contrappone nel suo romanzo “Il Gattopardo”, alla mentalità tradizionale del principe Fabrizio Salina, è l’Italia burocratica del 17 Marzo 1861. Alla quale si oppose strenuamente la fedelissima fortezza di Civitella resistendo, non invano, all’invasore. Se solo Steven Spielberg sapesse! Come oggi l’Italia reale dei cittadini (non sudditi) resiste ai venti di guerra di chi nelle segrete stanze di oscure “cancellerie” ha già deciso una nuova catastrofe mondiale in nome dell’umanitarismo. Nell’Ottocento fu la “nuova” Italia sabauda a creare e ad alimentare la Questione Meridionale che porterà alla crisi dello stato liberale, delle dottrine politiche, della scienza e del foro, fino alla morte della Patria nel fascismo. L’Italia laicista e incompiuta che costringerà la Chiesa (espulsa da canoniche, conventi, corti, università, tribunali e società) a clericalizzarsi, ad arroccarsi in autodifesa. Una Chiesa che seppe resistere senza abdicare al suo alto magistero evangelico, non solo tra i ceti più umili, annunciando il Vangelo grazie ai cristiani laici italiani ed alle numerose fraternità francescane e domenicane che difesero la cristianità in mezzo alla tempesta rigida ed aggressiva del laicismo pubblico, la nuova religione civile. La novità assoluta del 17 Marzo è l’affermazione dello Stato moderno, un unico organismo amministrativo e politico italiano che si espande per la prima volta in tutta la società raggiunta dalla conquista. Una società lontana anni luce dal progresso americano di quegli anni. La leva obbligatoria è il primo contatto dei giovani con l’autorità dello Stato che assume il ruolo da protagonista assoluto nella vita degli Italiani. Anche il mondo della scienza apparentemente ci guadagna. Lo Stato non è più solo un contenitore di difesa e regolazione della vita pubblica e privata, ma diventa l’architetto di ogni italiano. Nascono le grandi Società scientifiche alle dirette dipendenze dello Stato. Muta però l’ethos civile. Per la prima volta i cenacoli letterali ed esoterici del Rinascimento, le sette religiose del Seicento e le logge massoniche del Settecento e dell’Ottocento, sono costretti a cedere la missione etica e maieutica all’organo politico supremo, al Re Padre della Patria. Che nella visione idealistica del liberalismo italiano (cf. l’hegeliano teatino Bertrando Spaventa, 1817-1883) diventa il principale artefice del cambiamento sociale, la più potente leva del progetto unitario concepito non dalle masse (altrimenti sarebbe stato federale) ma da minoranze illuminate per instaurare un nuovo ordine sociale secolare, cosmopolitico, ugualitario e plebiscitario quanto basta, a misura di italiano borghese e colto. Il 17-20 Marzo 1861 alla Nazione italiana plurisecolare fondata su ben altre possenti colonne portanti culturali che oggi incredibilmente, senza la comicità di alcuni geni, facciamo fatica a ricordare e valorizzare, fu inferto il colpo ferale per aprire la via non alla vittoria sull’analfabetismo ma allo stato pedagogo fascista ed all’ingresso dell’ideologia internazionalista comunista nella politica italiana. Fu vera gloria quell’indipendenza e quell’unità attuata a prezzo di non poche rinunce, compromessi, sacrifici, problemi, questioni, delazioni, tradimenti e vendette? Quella “Italia dei notabili” fra il 17 Marzo 1861 e il 4 Novembre 1918, oltre a smentire la leggenda rosa risorgimentale, presenta al mondo un Paese diviso su tutto, dove le libertà individuali appartengono a pochi eletti ed elettori (che poi sono sempre gli stessi!) di quel ceto borghese laico e liberale dominato dalla figura del Re. L’Italia del 17 Marzo 1861 è omologata a una morale scettica e relativistica ispirata ai dettami delle massonerie europee. È un Paese-Stato che, sconfitto il Papato, discrimina i preti, i frati e i laici cristiani in ogni ambito della vita sociale. Come ultimi della classe degli stati nazionali, bisognava recuperare il tempo perduto: l’Italia assume subito (grazie a Cavour fin dal 1855) un ruolo attivo ed aggressivo nelle relazioni internazionali. Destra e Sinistra storiche dovranno vedersela con le opposizioni reali al governo del Paese: cattolici, repubblicani e socialisti contesteranno il sistema con ogni mezzo, non solo all’interno del Parlamento nazionale ma come “anti-Stato” alla consorteria laica al vertice del Paese. Il divario tra Nord e Sud Italia cresce ma non degenera in un conflitto stile secessione americana. Per un sacco di buone ragioni. L’inutile strage (Benedetto XV, 1914-1922) della Prima Guerra Mondiale fu per noi italiani l’evento clou dell’Unità nazionale. Fu la nostra Quarta Guerra d’Indipendenza, ben più efficace di tante bande e fanfare propagandistiche di tanti miti risorgimentali, liberali e festaioli della retorica patriottarda. La Grande Guerra per la Vittoria del 4 Novembre 1918 riuscì laddove avevano fallito i politici, amalgamando fra loro i Comuni d’Italia che la storia aveva forgiato come tante Legnano. Nella comune disgrazia, nel medesimo dolore, nel lutto, tra le trincee fangose e putride, tra i gas asfissianti del nemico, sui monti, tra le valli e nei fiumi, tra scariche di mitraglia, nell’assalto all’arma bianca, il 4 Novembre nasce la Nazione Italiana moderna. Un titolo da poter vantare fra le altre potenze mondiali. Quello che la consorteria laica del Re non era riuscita a realizzare pacificamente ma che una certa impietosa casta militare poté soddisfare grazie all’aiuto dell’industria militare. Oggi diciamo giustamente che ne è valsa la pena. I nostri Caduti che onoriamo nel Tricolore sono i nostri Patres dell’Italia unita di oggi. Guai a noi se lo dimentichiamo. Ma che sia di monito a tutti quei popoli che vogliono giustamente conquistare la libertà e la democrazia. Da soli. Noi Italiani non abbiamo mai goduto di una “no fly zone” né di una risoluzione Onu né di un bombardamento preventivo! Non abbiamo mai gioito o sparato fuochi d’artificio dopo aver perso battaglie e guerre! Certo che ne è valsa la pena: l’Unità d’Italia non si tocca, neppure nel contesto euro-mediterraneo. Il suolo patrio è sacro e va difeso da qualunque invasione per mare, per cielo e per terra. Ma l’Unità d’Italia non fu figlia di una risoluzione sovranazionale né di un disegno opaco che avrebbe dovuto magicamente concludersi nella soluzione di problemi ancora oggi aperti dopo 150 anni e stranamente irrisolti. Se quell’Unità del 17 Marzo fosse stata largamente condivisa e partecipata da tutti gli Italiani, avrebbe potuto benissimo condurci per primi sulla Luna e su Marte, molto prima dell’America e dell’ex Unione Sovietica. Ma così non è stato. I romanzi di J. Verne rimangono sulla carta. Dovevamo dedicarci alle guerre coloniali per tenere il passo. L’analfabetismo completò l’opera e impedì a quell’Unità di schiudere orizzonti sconfinati di progresso e opportunità uniche, reali e improcrastinabili per il Paese. Iniziò la fuga dei cervelli verso altri Stati come l’America (il grande Meucci, l’inventore del telefono!) e si aggravarono le condizioni del Sud depredato. Iniziarono le politiche dell’assistenzialismo. I piatti della bilancia costi-benefici di quell’Unità sono l’altro tabù che per decenni ha costretto storici e sociologi alla prudente dottrina del silenzio. Guai a mettere in discussione le scelte fatte e i traguardi conquistati; guai a non parlarne se non in termini entusiastici. Ma se oggi non possiamo ancora disporre in ogni ospedale d’Italia di un dispositivo non invasivo per la prevenzione e cura dei tumori di tutti i cittadini in tempo reale, sappiamo di chi fu la colpa. Di chi ha frenato la scoperta e la ricerca nucleare nel nostro Paese! Così nel 1911, nel 1961 e nel 2011 abbiamo celebrato la retorica. Chi può dire tra 48 anni chi saremo e cosa faremo? Il Bicentenario verso cui navighiamo a vista, è ancora lontano. La “rivoluzione” risorgimentale che alcuni oggi vorrebbero importare in Italia e in Europa direttamente dalle coste Nord Africa, magari in versione arabesca tra palme, cammelli, datteri e dune, si affievolì molto presto all’indomani del 17 Marzo 1861. Certamente i dieci anni successivi furono un capolavoro politico-diplomatico. Non mancarono le annesse stragi di civili, di ex ufficiali borbonici, di contadini e di intellettuali (cf. Il Sangue del Sud, di Giordano Bruno Guerri che rilegge il Risorgimento e il Brigantaggio come la Storia d’Italia). Quella “prima” Unità invece di offrire a tutti gli Italiani un unico scudo istituzionale, per diverse ragioni lascia fuori porzioni non trascurabili di nazione italiana: la Corsica, Nizza, il Ticino svizzero, ampie zone adriatiche e Malta. Fra il 1912 e il 1918 il Regno d’Italia annette vivaci minoranze etniche: albanesi, aostani, greci del Dodecaneso, tedeschi del Tirolo meridionale, slavi dell’Istria e delle città adriatiche. Non si riesce a compensare la grande fuga (emigrazione) dei ceti italiani più umili, che aumentata dal 1876. Un flusso mai visto nella storia d’Italia. Questi nostri Italiani privano il Paese del loro lavoro e del loro genio a favore di altri stati d’Europa e d’America. È l’Italietta giolittiana che segna il passo verso la più grande tragedia della nostra storia (1915-1945), la Guerra civile europea. Dei trent’anni. Le famigerate leggi razziali fasciste. L’Olocausto, la Shoah. A quell’Italietta dobbiamo ancora oggi lo stereotipo dell’Italiano all’estero tutto pizza e mandolino, mistico, libertino, mammone, cuoco, sarto, profumiere e latin lover. Lo Stato unitario fu l’opera dell’intelligente capolavoro strategico e politico di Camillo Benso Conte di Cavour, sotto la pressante emergenza della rivolta meridionale e della Questione Romana. Fra il 1861 e il 1870 furono bruciate tutte le tappe per varare rapidamente un ordinamento territoriale statuale mai esistito prima e destinato a seguire, nel bene e nel male, il futuro del popolo italiano frammentato politicamente (culturalmente e spiritualmente già unito da secoli) e dell’intero continente europeo. Quella felice “fretta”, per alcuni colpa e superficialità, che caratterizza anche il lavoro dei media odierni dimentichi delle conseguenze dell’operazione risorgimentale nel Sud Italia, ci risparmiò lutti e distruzioni ben peggiori. Con la forza della ricchezza, delle baionette e dei cannoni, salì al potere una classe burocratica insensibile al grido di dolore del popolo italiano ed alle Questioni aperte: romana, cattolica, federale, repubblicana, meridionale. Furono demolite d’ufficio le istituzioni pre-esistenti, gli ordinamenti e gli assetti sociali, gli organismi politici e i codici. Stipendi e rendite furono annullati, esautorando e licenziando moltissime persone, razziando le risorse finanziarie e le industrie del Sud. Antiche città capitali della gloriosa storia plurisecolare d’Italia, furono ridotte a capoluoghi di provincia, a luoghi di villeggiatura. Il popolo fu tradito. Il sistema economico unitario creò forti squilibri fra le varie regioni del Paese esposte all’azione delle “lobby” di famiglie e clientele, alla miseria che costringerà milioni di persone all’espatrio. Nel 1861 l’uniforme ordinamento sabaudo porrà fine alle autonomie territoriali e dei sistemi di autogoverno (vero antidoto ai fascismi) con l’accentramento totale dell’amministrazione nella figura del Prefetto napoleonico. Gli espropri dei “beni nazionali”, la soppressione degli ordini religiosi, la riorganizzazione dell’apparato ecclesiastico sul principio di rigida separazione fra Stato e Chiesa, la guerra giacobina contro i cristiani, contro la stessa vita spirituale dei fedeli, contro la pratica religiosa pubblica, terranno lontani dalla vita pubblica e istituzionale un’intera fetta sociale della nascente nazione. Sessant’anni di lotta contro il cristianesimo romano, desteranno dal sonno milioni di italiani e muteranno sensibilmente la poetica risorgimentale e il destino dell’Italia. Scuola e leva obbligatoria diventano i “tabernacoli” civili della nuova religione di Stato, i luoghi dell’uniformazione linguistica, politica e culturale, sotto lo sguardo vigile del Re. Il quadro è quello storico, talmente oggettivo da destare curiosità e meraviglia tra gli americani. Come si sarebbero comportati i Sudisti d’oltreoceano? Garibaldi e i suoi Mille con chi si sarebbero liberamente alleati, con i Nordisti o con i Sudisti americani? Cinquant’anni fa gli americani celebrarono il generalissimo e il primo centenario dell’Unità d’Italia, azzardando una risposta ambigua: con il primo presidente degli Stati Uniti, il massone George Washington. Ma forse la verità non la sapremo mai. Quei “peccati” originali non ci fanno certo rimpiangere gli “ordini” pre-unitari dell’antico regime, ma scatenano naturalmente una serie di interrogativi sulle loro mancate nocive conseguenze che il nuovo regime costituzionale di Vittorio Emanuele II seppe scongiurare. La nostra Storia fu diversa da quella del Nord America. In Italia i Savoia misero in campo capillarmente tutto il loro potenziale liberale, accentratore, d’ordine pubblico e di potere che trova i suoi prestigiosi “simboli” in istituzioni, opere ed eventi altrove sconosciuti: la figura mitica del Carabiniere e del Maestro Elementare; la Terza guerra d’indipendenza del 1866 contro l’Austria; le varie spedizioni coloniali per scimmiottare le capacità belliche e strategiche delle altre potenze; la scuola pubblica nel romanzo “Cuore” e il senso del dovere nel romanzo “Pinocchio”; negli organi di stampa (dove i Borbone avevano fallito) sempre più determinanti per plasmare l’opinione di chi sapeva leggere ed ascoltare; l’Inno di Mameli. Anche il ruolo del clero fu paradossalmente determinante per evitare una guerra civile disastrosa tra Nord e Sud Italia, addolcendo l’amara pillola dei sudditi cattolici. La guerra tra Stato e Chiesa combattuta nelle alte sfere, si smorza non tanto nelle Guarentigie quanto piuttosto grazie all’azione capillare e diretta di preti, frati e laici cristiani tra le masse disperate. Nelle parrocchie, nei santuari, nelle chiese, nelle cappelle e nei conventi d’Italia, ardono e risplendono le nuove fiaccole della civiltà cristiana italiana che oggi celebriamo come Nazione. Gli italiani rinacquero intorno alle figure di santi come il giovane passionista abruzzese san Gabriele dell’Addolorata (Isola del Gran Sasso). La rivoluzione risorgimentale si smorza. Ogni velleità militare, ogni disagio, ogni conflitto trova in questi luoghi sacri la sua valvola di sfogo. Ma non di rassegnazione. La Chiesa locale svolge così la sua funzione educatrice quale fattore di coesione e di equilibrio sociale. Vengono smentiti clamorosamente dalla storia gli anticlericali che accusavano il Papa di sobillare le masse. A conferma del fatto inequivocabile che gli italiani pre-esistevano all’Unità del 1861. Come altrimenti la Chiesa avrebbe potuto ammortizzare lo tsunami militare, politico, sociale e costituzionale del nuovo ordinamento sardo-piemontese? Non solo la Chiesa, ma anche clan e famiglie si adoperarono per spegnere sul nascere qualsiasi tentativo di rivoluzione delle masse contro lo Stato sabaudo, giocando poi un ruolo non secondario all’indomani dell’8 Settembre 1943. Quando lo Stato venne meno al suo dovere e si ritirò improvvisamente abbandonando gli italiani che misero a nudo “il meglio” della costituzione materiale incarnata ben prima del 1861. In America quelle nostre Questioni avrebbero probabilmente fatto saltare l’intero continente, facendo da detonatore a una guerra civile ben più sanguinosa. In Italia, invece, incredibilmente quelle Questioni tennero unita una Nazione durante la tragedia della guerra civile 1943-45, dell’azione partigiana contro l’invasore e dell’indiscriminata guerriglia internazionalista comunista anti-italiana ed anti-nazionale. Queste sono le realtà della storia, fatti che gli Usa non hanno mai conosciuto né prima né dopo (solo nei due film fantastici “Red Dawn”) la loro Guerra civile. In Italia questa trama plurisecolare di istituzioni e culture “associate” – sottolinea lo storico Oscar Sanguinetti – “misconosciute se non schiacciate dall’ordine postunitario”, insieme a questa “assunzione di responsabilità per senso dell’onore e per amore del bene comune”, garantiscono dopo eventi catastrofici “la tenuta e la ripresa dell’organismo nazionale di fronte al disastro” e della sovrastruttura istituzionale, ponendo le basi alla riforma costituzionale repubblicana (cf. discorsi del Presidente Repubblica, dei Presidenti di Camera e Senato, e del Presidente del Consiglio dei Ministri, sul tema del 150mo Anniversario dell’Unità d’Italia). Le antiche e tenaci strutture familistiche e religiose del popolo italiano, fanno la differenza tra l’ordine e il caos: pur contestando politicamente il regime, salveranno sempre lo Stato unitario. Dunque, ne è valsa la pena grazie a Cavour. L’Unità politica, l’unica allora possibile, è stata necessaria e feconda per l’Italia. Come ci ricorda il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, “altrimenti saremmo stati spazzati via dalla storia” e dalle vigorose pressioni secolarizzatrici e omologanti del laicismo. Che oggi minacciano l’Europa sempre meno cristiana. È un fatto storico: l’Unità d’Italia non poteva avvenire diversamente, nel senso che non poteva essere più rinviata per l’ingresso nel concerto degli Stati moderni. Il dato storico è ciò che conta: non ha alcun senso contestarlo se non per attirare attenzione e “audience”, immaginando scenari cinematografici fantastici di realtà alternative (stile “Wild West”, anche se la lotta al brigantaggio trasformò il Meridione d’Italia in un “Far West” ancora sconosciuto al grande cinema!) di uno Stato federale italiano ottocentesco controllato da geniali agenti speciali al servizio del Presidente! La Storia come la Natura non procede per “remake”. Duole riaffermalo con forza, convinzione e determinazione ma bisogna riconoscere che nel XIX Secolo l’Italia non poteva nascere diversamente: senza la conquista militare da parte del “meno italiano” degli Stati; senza imporre il suo Re Padre della Patria e il suo ordinamento istituzionale; senza annientare quel che c’era prima e senza litigare con il Papato e la Chiesa. Ferite oggi rimarginate (cf. discorso del Cardinale Bagnasco). Quel che conta è che l’Italia istituzionale (cornice) nacque il 17 Marzo 1861, tre giorni prima della resa della fortezza borbonica di Civitella del Tronto. Ma la Nazione (il quadro) subì “un processo di alterazione dei suoi paradigmi etici” che “ne ha intaccato profondamente la salute morale e civile”. Quella radiazione ionizzante del 1861 cercò di modificarne il Dna, il nucleo vitale, ma fu il popolo italiano (in patria ed all’estero) a cambiare le istituzioni. Non viceversa. Questa è la nostra ricchezza che nessun altro popolo potrà emulare. Gli Italiani, le masse popolari, non accettarono mai il compromesso al ribasso, mai si piegarono ai principi anti-cristiani e ambigui della modernità, potenzialmente dirompenti e che oggi minano alle fondamenta non solo l’Italia e l’Europa ma il mondo intero. Si possono indossare tanti “abiti” politici e costituzionali, nella divisione dei poteri e nella vita sociale, ma non si può tradire l’Italianità. Politologi e sociologi ne sono convinti. La classe politica li ascolta? La costituzione materiale prevale sempre su quella formale. Anche oggi siamo in piena emergenza democratica e politica: l’inverno demografico e produttivo affligge l’Italia cristiana del terzo millennio. La frammentazione, la devitalizzazione, la senescenza precoce, la perdita d’identità e di cittadinanza attiva, caratterizzano la nuova “agonia” dell’Italia. Ci risiamo. La storia vuole metterci di nuovo alla prova. I politici ignorano i fatti sotto i loro occhi prima e dopo il 150mo anniversario dell’Unità d’Italia, fantasticando su scenari impossibili, tra brindisi, cene e fuochi d’artificio inverosimili, mentre l’universo mondo e la natura sembrano annunciare un tragico: basta! Altro che rivoluzione dei gelsomini! Chissà se si apriranno davvero i nostri occhi sulla realtà vera. Non si possono ignorare queste emergenze internazionali che sono di ordine politico e naturale. Esse sembrano alimentarsi delle sofferenze diffuse e quasi empaticamente sincronizzate, che mettono a rischio non solo il sistema della protezione civile planetaria, ma anche gli ordinamenti democratici. Quante guerre “per la libertà e la democrazia” possiamo sostenere? Quante emergenze naturali alleviare? Quante catastrofi sismiche e nucleari evitare? Siamo liberi? Mai nella sua storia, l’Italia unita e oggi finalmente “federale” si scopre così determinante per i futuri assetti democratici sulla Terra, non solo nel Mediterraneo. Il raggiungimento di un così alto e nobile “magistero” è costato molto sangue fin dall’antichità. Né possiamo e dobbiamo permettere che altrove, magari a pochi chilometri dall’Italia, scoppi la pentola a pressione delle masse disperate d’Africa. L’Unità nazionale si va perfezionando non solo nelle missioni all’estero ma all’interno dell’Unione Europea e del concerto internazionale. Abbiamo il dovere, come Italiani, di “contaminare” le Istituzioni e gli strumenti operativi politici, culturali e militari su base democratica, con questi nostri valori e diritti autenticamente risorgimentali e cristiani. Occorre farlo nella misura in cui sapremo fare dell’Italia il principale attore ed artefice del sogno di Giuseppe Mazzini: gli Stati Uniti d’Europa. Non un mito, ma un progetto politico vero. Non siamo mica fessi. Non siamo schiavi delle “sette sorelle” né di un’Europa burocratica neutra, esotica, ideologica, relativistica e nichilista, predisposta al Gran Califfato islamico! La Nato è un dispositivo di difesa e non di attacco e conquista. L’Onu si assuma le sue responsabilità. L’Italia può oggi impedire la Terza Guerra Mondiale e la fuga di milioni di profughi da tutte le zone del pianeta controllate da regimi non democratici. L’Italia ha il dovere di contrastare con ogni mezzo questi pericoli che in passato, senza quell’Unità, ci avrebbero sommersi. Eppure sembriamo ancora divisi e vulnerabili. Cristianesimo, romanità, germanesimo, ebraismo, sono le nostre colonne portanti. Anche in Inghilterra e negli Stati Uniti (un po’ meno in Francia) lo hanno capito: il travaglio della (post)modernità è indecifrabile quando la storia si compie. È l’identità nazionale (non il nazionalismo patologico) che salva. Guai a noi se perderemo la nostra identità in nome di ambigue “limitazioni di sovranità” ad uso e consumo affaristico e commerciale. L’identità previene lacerazioni, guerre civili, dittature, ideologie e la fine della civiltà. L’Unità d’Italia del 1861-1918 che festeggiamo a cominciare dal 17 Marzo e dal 4 Novembre di ogni anno, poggia sulle fondamenta solide dell’identità del Popolo italiano, sulla sua storia plurisecolare cristiana ed ebraica. Non sulle sovrastrutture burocratiche, consumistiche e imperiali che non sono democratiche. L’Europa ne sia cosciente e consapevole perché non possiamo, non vogliamo e non dobbiamo abdicare alla nostra natura di Italiani Europei. L’Onu, la Nato e l’Unione Europea, sono strumenti di civiltà e di governo mondiale per la Pace. Non sono dogmi dell’Unanimità né i beni supremi né la panacea di tutti i mali. Sono un mezzo per esaltare i Popoli liberi, le loro identità e culture, per un ordinamento costituzionale mondiale unitario che non può ignorare l’Italia, la sua storia, la sua identità, il suo sacrificio, il suo ordinamento costituzionale e i suoi Caduti per la libertà. Per conseguire il bene comune, nel rispetto dei diritti e dei doveri della Persona, abbiamo rinunciato ai baciamano ed agli inchini di comodo ai dittatori della storia. Questo dimostra, al di sopra di ogni ragionevole dubbio o sospetto, la nostra capacità di discernere gli eventi, di non seguirne più la corrente infausta e, soprattutto, di sapere “risorgere” dalle macerie (sempre) grazie a quelle radici plurisecolari italiane, uniche e vitali. Quale tesoro per l’Onu, la Nato, l’Europa e i Popoli liberi del mondo. I “complessi” dell’Unità 1861 sono stati superati. Ora spetta all’Europa democratica degli Stati Uniti Federali fare altrettanto per liberarsi delle pesanti zavorre imperiali del nichilismo. Dunque, correttamente interpretando il pensiero di Abraham Lincoln, il Presidente repubblicano conservatore innovatore riformista dell’Unione degli Stati Americani (il nostro Cavour), non è il Presidente Barack Hussein Obama, giurando sulla Bibbia appartenuta ad Abraham Lincoln quel 4 Marzo 1861, e dichiarando di voler espressamente esportare la democrazia nel Mondo rivoluzionando i diritti civili della persona e della famiglia, a poter essere una sicura garanzia di Pace. L’Europa unita degli Stati Uniti continentali, se ne faccia un’amichevole ragione.
© Nicola Facciolini
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