Sono più di 800.000 (di cui il 20% relativo ai giovani), ad una media di ben 480 al giorno, il numero di posti di lavoro persi dal nostro Paese dal 2008 ad oggi; in una Nazione che, già martoriata dalle tasse, deve decidere a breve a chi credere fra opposti schieramenti che affermano che agiranno sulla spending review per ridurre il carico fiscale ed incrementare, al contempo, i posti di lavoro.
L’economista del PD Fassina, propone una patrimoniale e tagli di spesa e di sprechi, mentre Monti, lobbista nei fatti, sembra affermare, con giri di parole ormai molto “politichesi”, che l’unica soluzione è aumentare ancora le tasse, in un Paese che ha 800 miliardi di spesa pubblica e che arriva già al 60% di tassazione.
Quanto a Vendola, il suo è un programma completamente anacronistico, che sembra nato in un altro periodo storico; un programma in cui l’economia sembra essere un’appendice fastidiosa senza effetti reali nella società, in cui dare lavoro e soldi ai poveri a spese dei ricchi, senza far capire bene come, diventa obbiettivo tanto primario quanto campato in aria.
Per Grillo invece, grande animale da palcoscenico, bravissimo nella contestazione e nell’evidenziare le pecche del nostro sistema, le politiche economiche sono tanto carenti quanto pericolosamente inconcludenti e Ingroia, che discetta di politica già in modo poco convincente, è ancor più fantascientifico quando parla di economia.
Le idee migliori sono sicuramente di Oscar Giannino con il suo Fare per fermare il declino, l’unico che si avvale di economisti (Zingales e Boldrin) di altissimo livello e, soprattutto è l’unico che da quest’estate ha un progetto reale e concreto per diminuire di 100 miliardi la spesa pubblica in 5 anni e per ridurre la tassazione in Italia.
Ma è perfettamente inutile perché tanto, quasi sicuramente, non raggiungerà lo sbarramento della’8% e pertanto non eleggerà nessuno per dare almeno una prospettiva a questo Paese, terza potenza industriale dell’Europa, settima o ottava nel mondo , che però si rende responsabile dei delitti più gravi: i suicidi di piccoli imprenditori inseguiti dai debiti e di lavoratori (come l’edile di Trapani) che lanciano moniti al tradimento del dettato costituzionale che, con l’articolo numero 1, ci chiama in causa come individui singoli e come collettività, che non è più capace di assicurare il lavoro e la dignità per tutti.
Giuseppe Burgarella, questo il nome del muratore disoccupato che si è tolto la vita a Trapani pochi giorni fa, con un biglietto lasciato nella Costituzione (in formato tascabile ed economico), non ha atteso di essere il primo assunto nella lista dei quattro milioni di posti di lavoro promessi da Berlusconi e non si è rassegnato non solo alla perdita del lavoro ma della propria dignità: condizione da cittadino dimezzato che è simile a quella di chi è in coma protratto, tenuto in vita da artifici, ma di fatto morto come persona e scomparso come vivente.
Oggi, con inizio alle 20,30, al Teatro Ghione di Roma, si terrà l’anteprima del film “Suicidio italia”, che riguarda un altro caso emblematico, quello dell’Alitalia.
Era il 2009 quando un gruppo di ex lavoratori Alitalia autoprodusse il docufilm “Tutti giù per aria – l’aereo di carta”, sulla più grande “stangata patriottica” della’ultimo governo Berlusconi: la vertenza che portò al commissariamento, alla svendita della Compagnia di bandiera e alla nascita della nuova Alitalia/Cai.
Ora il secondo round, scritto da: Filippo Soldi, Maria Teresa Venditti e Andrea Cancellario, che sono andati ad osservare oltre l’invisibile, talvolta aprendo le porte chiuse dal silenzio dell’informazione, scavando dentro un sistema che sta tagliando posti di lavoro, erodendo diritti e annientando speranze di intere generazioni.
Intanto continua, in questa Italia deprivata e ormai piena di mancanze (relative a lavoro, certezze, idee, ideali e futuro) la forsennata e surreale campagna elettorale, con bugie da giocoliere, imbrogli palesi ma apprezzati , stupidaggini dibattute da dotti politicanti e commentatori più o meno prezzolati, mistificazioni applaudite, coup de tèatre inneggiati, cafonaggine e malafede più che tollerate: una campagna dove si può promettere, proporre, raccontare frottole ed assurdità grandi quanto una casa, senza che alcuno abbia a dolersene, arrossirne o vergognarsi.
In una campagna in cui Antonio Razzi e Domenico Scilipoti, candidati del Pdl rispettivamente in Abruzzo e Calabria, arringano gli elettori senza danni; Silvio Berlusconi indossa l’abito dell’oppositore senza se e senza ma e, dopo avere governato quasi venti anni, con esternazioni – contro tutto e contro tutti – che trovano ancora ascolto e considerazione.
Roberto Maroni disegna impunemente la macroregione del Nord – Lombardia, Piemonte e Veneto – e promette la moneta lombarda e la “trattenuta” del 75 per cento delle tasse a casa propria senza che alcuno gli chieda conto e ragione delle sue macroscopiche balle, grandi quanto i ministeri situati a Monza da Calderoli per tre giorni, nelle sedi in cui si ospitavano cerimonie nuziali a pagamento.
E, soprattutto, con tutti gli altri che non sono da meno, con Vendola che vuole ripristinare l’inferno per i ricchi, Ingroia che sembra venuto da un altro pianeta e Grillo che, comunque, sa distruggere e non certo costruire.
In una recente intervista a “il sussidiario.net”, l’economista Ettore Gotti Tedeschi ha detto che esistano quattro tipi di debito e che il debito totale di un sistema economico è fatto della somma di essi: quello pubblico, quello privato delle famiglie, quello delle imprese, quello delle banche e, in Italia, dove il debito è in gran parte reciproco ed è costituito da mezzi che famiglie e imprese devono restituire alle banche e che queste devono restituire a famiglie e aziende, la partita è in gran parte reciproca se includiamo lo Stato e, pertanto, una patrimoniale come l’Imu approfitta del fatto che , da noi, il debito privato è più basso che in altri Paesi e pertanto interviene nel senso di un distorto riequilibrio, trasferendo debito (risorse) dal pubblico al privato, mentre si tratta sempre di fondi (come le polemiche sul caso Mps insegnano) che lo Stato preleva dai privati per essere usati per colmare proprie inefficienze (spesa pubblica non produttiva) o altre carenze (di controlli) o perdite (di banche ecc.).
La proposta che viene da destra è che un’azione sostanzialmente territoriale, porterebbe la finanza ad essere etica, in quanto capace di raccogliere risparmi locali e impiegarli localmente.
Espressione di una “italietta” che esiste già nel cosiddetto Fondo Italiano d’Investimento, che però non ha dato grandi benefici, in quanto, pur autorevolmente presieduto, le istruttorie e il merito di partecipazione al capitale è condotto da investment manager formati a scuole finanziarie anglosassoni, che ci rimproverano di essere sì un popolo di fantasisti, ma anche incapace sotto il profilo organizzativo, con un sistema inaffidabile e farraginoso, non solo pubblico, ma anche privato, con processi di selezione governati dalla conoscenza e dalla promiscuità e non dalla competenza, tasse strangolanti ed una burocrazia del tutto inadempiente ed inefficace.
Dopo una breve parentesi, quindi, l’Italia è guardata ancora con sospetto dagli stranieri e non solo se si tratta di investire denari.
Solo un corto nostrano in concorso al Festival di Berlino partito due giorni fa: “Matilde” di Vito Palmieri e solo un lungometraggio fuori concorso: “La miglior offerta” di Tornatore, in un festival che ci in passato (fino alla vittoria dei due Taviani, lo scorso anno), ci aveva sempre accolto con favore.
Quest’anno, nel festival più “cittadino del mondo”, trovano spazio film provenienti da decine di paesi diversi: Kazakistan, Canada, Polonia, Romania, Iran, Olanda, Russia, Bosnia, Cile, Spagna, Belgio, Sudafrica, Svizzera e Austria, con un unico film tedesco “Gold” di Thomas Arslan e nessuno possibilità per l’Italia di replicare il trionfo di un anno fa, con “Cesare deve Morire” girata nel carcere di Rebibbia da Paolo e Vittorio Taviani.
Solo sparute presenze fuori concorso e in sezioni minori e nessuna scelta da parte degli organizzatori e della giuria presieduta da Wong Kar-Wai e composta dal tedesco Andreas Dresen, dalla’attore americano premio Oscar Tim Robbins, dalla regista greca Athina Rachel Tsangari, dall’iraniana Shirin Neshat, dalla statunitense Ellen Kuras e dalla danese Susanne Bier.
Un Paese senza certezze il nostro, in un periodo sperduto nel dubbio, in cui tutto è davvero possibile, anche le “dimissioni” di un Papa, con Benedetto XVI che stamani, alle 11,46, ha annunciato a sorpresa che lascerà il pontificato dal 28 febbraio, facendo sobbalzare gli stessi vertici della chiesa e spiegando di sentire il peso dell’incarico “per l’età avanzata” che,negli ultimi mesi, avrebbe provocato una “incapacità ad amministrare bene” quanto a lui affidato.
L’annuncio ha fatto rapidamente il giro del mondo: dalla Bbc ad al-Jazira, passando per Sky e Al-Arabiya, i grandi network hanno subito rilanciato la notizia, con l’unica eccezione della televisione di Stato cinese CCTV.
La Bbc ha parlato di ‘shock resignation’ e di “sviluppo totalmente inatteso” ed anche i media americani, solitamente ‘sonnacchiosi’ a quest’ora, aprono a tutta pagina citando “ragioni sanitarie”. La Cnn si è fatta confermare la notizia direttamente da padre Federico Lombardi, sottolineando che si tratta delle prime dimissioni da secoli e ricordando il ‘gran rifiuto’ di Celestino V.
Va detto, per amore di verità, che anche altri papi si sono dimessi, come Clemente I (morto nel 97 d.C.) e Gregorio XII, eletto nel 1406 mentre ad Avignone regnava l’anti-Papa Benedetto XIII, eletto per risolvere lo scisma dal Concilio di Costanza, che, per arrivare a una pacificazione, rassegnò le proprie dimissioni per poter indire un conclave a cui far partecipare tutti i cardinali, anche quelli che avevano aderito allo scisma.
Gregorio morì due anni dopo, in solitudine ad Ancona e il suo successore Martino V coniò per lui il titolo di Pontefice emerito.
Quanto al precedente Clemente I, quarto dei Papi romani, appartenente alla gens Flavia, fu probabilmente martirizzato per ordine di Traiano, mentre è quasi certo che un altro Papa del periodo, Ponziano, pontefice dal 230 al 235, pochi mesi prima della morte, sottoposto a persecuzioni da parte dell’imperatore Massimino Trace, abdicò per permettere l’elezione di un nuovo pontefice.
La vicenda più nota (e non solo a causa di Dante), è quella di Celestino V: Pietro da Morrone, eletto Papa a sorpresa nel 1294, dopo più di un anno di sede vacante, quando era già in età avanzata, che dopo solo quattro mesi di pontificato, caratterizzati da un’indulgenza plenaria e da un Concistoro, annunciò le dimissioni e per farlo, emanò una bolla papale (di cui però si sono perse le tracce e che molti storici mettono in dubbio) riprendendo la formula delle rinunce episcopali e che fu tenuto, dal nuovo Papa Bonifacio VIII, sotto custodia, per evitare che venisse rapito e rimesso sul trono da cardinali filo-francesi.
In queste ore il sito dell’Ansa è quasi irraggiungibile per la mole di traffico web, ma, pare, che Ratzinger abbia chiesto un conclave per l’elezione del successore.
Carlo Di Stanislao
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